Accesso nella posta elettronica altrui: reato anche del capoufficio
Il capoufficio che si introduca negli account email riservati ai
dipendenti e ne spia i contenuti commette reato (peraltro si tratta di
un reato particolarmente grave, punito con la reclusione fino a tre anni).
Lo afferma la Corte di Cassazione la quale ha così, di fatto, esteso il concetto di “domicilio informatico”: esso consisterebbe in uno spazio ideale (ma anche fisico, atteso che in esso vengono conservati i dati informatici) di esclusiva pertinenza della persona e quindi dentro cui la privacy è massimamente protetta.
Anche se anche il server di posta elettronica è di proprietà del datore di lavoro,
la casella di posta elettronica dei dipendenti resta inviolabile
qualunque siano i dati contenuti nelle email personali, purché
attinenti:
1) alla sfera del pensiero o
2) all’attività (lavorativa e non) dell’utente.
Ciò che si vuole tutelare è una sorta di privacy informatica,
ancor prima di verificare se siano state agredite l’integrità e la
riservatezza dei dati. Il domicilio telematico è visto come una forma
speculare, ma astratta, del domicilio fisico: ad essere
sanzionata è infatti l’intrusione in sé, a prescindere dal tipo di beni
conservati in casa. Del resto, secondo la visione della legge,
i sistemi informatici e telematici costituiscono una espansione ideale
dell’area di rispetto, pertinente al soggetto interessato.
L’accesso abusivo, dunque, si realizza non appena vengano superate le misure di sicurezza del sistema. È la semplice intrusione a costituire reato, ancor prima del danneggiamento o del furto dei dati altrui.