Acquisto del terzo in buona fede di un immobile
Tra moglie e marito non mettere il dito? Beh, alla luce della pronuncia SS.UU. qui in commento potremmo dire: dipende.
Con sentenza n. 22755/2009,
sconfessa il vecchio adagio apprestando tutela ai diritti vantati dal
terzo acquirente in buona fede a titolo oneroso dell’immobile
originariamente acquistato dai coniugi come bene personale,
effettivamente adibito a casa coniugale e successivamente accertato
come soggetto al regime di comunione legale tra i coniugi.
Ma andiamo con ordine.
Il
caso trae le mosse da un procedimento per separazione personale in seno
al quale la moglie svolgeva anche domanda di accertamento della
simulazione del contratto di compravendita relativo all’immobile da
destinare casa coniugale, fittiziamente dichiarato – anche dalla moglie
ai sensi e per gli effetti dell’art. 179 f) c.c. – bene personale al
solo fine di sottrarlo alla comunione per fini fiscali.
Tale
domanda, dichiarata inammissibile nel giudizio di separazione perché
extra petitum, veniva riproposta in via automa e rigettata per carenza
di prova scritta della simulazione.
Rriqualificata dalla Corte
d’appello come “domanda di accertamento della comunione legale”, veniva
accolta, stante la riconosciuta natura meramente ricognitiva della
dichiarazione adesiva prestata dal coniuge non acquirente all’atto
dell’acquisto.
Proponeva ricorso per Cassazione il terzo
acquirente, titolare di interesse in quanto convenuto in giudizio per
l’annullamento dell’acquisto da lui successivamente compiuto; resisteva
con controricorso la moglie.
Con riguardo all’eccepita prescrizione dell’azione di annullamento,
liquida velocemente la questione sul duplice rilievo, da un lato della
mancata allegazione a cura del ricorrente di aver già coltivato
l’eccezione in appello e, dall’altro, del fatto che trattasi di
eccezione non rilevabile d’ufficio.
Esaurita la questione preliminare – che, laddove accolta sarebbe risultata assorbente sulle altre –
passa all’esame della seconda questione, relativa alla definizione
della natura – ricognitiva o meno – della dichiarazione adesiva
prestata dal coniuge non acquirente all’atto dell’acquisto e relativa
alla destinazione personale del bene oggetto del contratto ai fini
dell’esclusione della comunione.
Insegna
che, laddove tale dichiarazione attesti una situazione di fatto già
esistente (ad esempio sel’acquisto ricada su un immobile già detenuto
in locazione e destinato ad uso personale per attività professionale),
allora ha natura ricognitiva ed efficacia probatoria di confessione
stragiudiziale, revocabile ex art. 2732 c.c.; diversamente, laddove
esprima una mera dichiarazione di intenti, (cioè l’immobile non è già
utilizzato come bene personale ed il coniuge non acquirente manifesta
una condivisione della volontà dell’altro di imprimere tale
destinazione), allora la dichiarazione non ha natura ricognitiva né
valore probatorio della confessione, posto che non è idonea a predicare
la verità o falsità di una situazione, come richiesto ex art. 2730 c.c..
Ciò
premesso, il ragionamento della Corte prosegue, poi, con riferimento
alla funzione logica della dichiarazione ai fini dell’esclusione del
bene dalla comunione.
Sulla questione
rileva l’esistenza di due filoni giurisprudenziali – il contrasto tra i
quali ha determinato la rimessione alle Sezioni Unite -: un primo
indirizzo, accogliendo un’interpretazione letterale della norma ex art.
179, lett. f) c.c., ritiene che la dichiarazione del coniuge non
acquirente sia condizione necessaria e sufficiente per l’esclusione del
bene dalla comunione; altro indirizzo, invece, ritiene che tale
dichiarazione sia condizione necessaria, ma non sufficiente posto che,
a tal fine, è indispensabile il concorso di entrambe gli elementi, e
cioè della dichiarazione del coniuge adesiva non acquirente da un lato
e dell’effettivo impiego del bene per scopo personale dall’altro.
La carenza di uno soltanto di questi elementi determina l’inclusione del bene nella comunione perché l’effetto
limitativo della comunione si produce solo “ai sensi delle lettere c),
d) ed f) del precedente comma”, vale a dire solo se i beni sono
effettivamente personali.
Pertnto,
ai fini di comprendere se l’acquisto effettuato in costanza di
matrimonio dai coniugi in regime di comunione legale appartenga o meno
alla medesima in presenza di una dichiarazione del coniuge non
acquirente circa la destinazione ad uso personale del bene in questione
bisogna guardare all’effettivo impiego dello stesso.
Secondo
il sistema definito dagli art. 177 e 179 comma 1 c.c., infatti,
l’inclusione nella comunione legale è un effetto automatico
dell’acquisto di un bene non personale da parte di alcuno dei coniugi
in costanza di matrimonio. Ed è solo la natura effettivamente personale
del bene a poterne determinare l’esclusione dalla comunione.
Se
il legislatore avesse voluto riconoscere ai coniugi la facoltà di
escludere ad libitum determinati beni dalla comunione, lo avrebbe fatto
prescindendo dal riferimento alla natura personale dei beni, che
condiziona invece gli effetti previsti dall’art. 179 comma 2 c.c..
Da qui derivano due conseguenze:
1)
riguardo alla natura ed all’efficacia della dichiarazione del coniuge
non acquirente, delle due l’una: o il bene è già destinato all’uso
personale e allora il coniuge non acquirente al momento dell’acquisto
ne certifica la destinazione già esistente con dichiarazione avente
evidente valore ricognitivo (dei presupposti necessari per
l’operatività dell’esclusione), oppure se il bene acquistando NON è già
utilizzato come bene personale e tale destinazione è soltanto
programmata e futuribile, allora la dichiarazione non avrà valore
ricognitivo né potrà, di per sé, dispiegare effetti ai fini della
sottrazione del bene alla comunione, essendo altresì indispensabile a
tal fine l’effettivo impiego del bene per fini personali del coniuge
acquirente.
Nel primo caso, dunque, la dichiarazione sarà
condizione necessaria e sufficiente all’esclusione, nel secondo solo
condizione necessaria;
2) la mancata effettiva
destinazione ad uso personale del bene dichiarato tale all’atto di
acquisto può essere oggetto di distinto, autonomo successivo
accertamento giudiziale su domanda del coniuge interessato (in questo
caso la moglie), non risultando esso precluso dall’intervento adesivo
del coniuge non acquirente.
A tal fine, la dichiarazione resa
dal coniuge non acquirente avrà valore probatorio di confessione
stragiudiziale, revocabile nei limiti dell’art. 2732 c.c., se dotata di
natura ricognitiva, ovvero di prova liberamente valutabile se priva di
natura ricognitiva, dovendosi, in questo caso, accertare l’effettiva
destinazione del bene, indipendentemente dall’indagine sugli intenti
dei coniugi.
L’applicazione di questi principi al caso in esame ha portato
a ritenere fondata la domanda di accertamento della comunione proposta
dalla moglie e legittima la conseguente domanda di annullamento
dell’atto di compravendita stipulato dal solo marito con il terzo,
annullabile ex art. 184 c.c. perché avente ad oggetto un bene facente
parte della comunione (per carenza del requisito dell’effettiva
destinazione personale, essendo incontestato che l’immobile era
utilizzato come casa coniugale) e compiuto senza il consenso dell’altro
coniuge.
E tuttavia, l’azione di annullamento ex art.
184 c.c. è soggetta alla disciplina generale di cui agli artt. 1441 e
seguenti, in particolare all’art. 1445 c.c. che prevede
l’inopponibilità dell’annullamento ai terzi acquirenti in buona fede a
titolo oneroso, salvi fatti gli effetti della preventiva trascrizione
della domanda di annullamento rispetto all’atto d’acquisto.
Nel
caso in esame ha giovato al terzo ricorrente la dichiarazione di
illegittimità della domanda di accertamento proposta dalla moglie
contestualmente alla separazione: la trascrizione del titolo
d’acquisto, infatti, è intervenuta prima della nuova trascrizione della
domanda di accertamento della comunione riproposta in via autonoma la
quale, sola, spiega gli effetti ai fini dell’opponibilità ai terzi.
E
fu così che la moglie, vittoriosa in sede di accertamento della
comunione, si è vista, per la seconda volta, sfilare da sotto il naso
la proprietà della casa coniugale.
Non le rimane che un’ultima
carta da giocare e cioè provare la mala fede del terzo, compito assai
arduo trattandosi di elemento psicologico.
A tal fine
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 20 – 28 ottobre 2009, n. 22755
(Presidente Carbone – Relatore Nappi)
Svolgimento del processo
Il
25 giugno 1996 R. B. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di
Marsala l’ex marito P. B. e N. P., cui in data omissis lo stesso B.
aveva venduto un alloggio, che in precedenza era stato destinato a casa
coniugale sin dal suo acquisto in data omissis, benché entrambi i
coniugi ne avessero all’epoca simulato la destinazione all’attività
professionale del marito, per sottrarlo a scopo fiscale alla comunione
legale.
Chiese dunque che, dichiarata la simulazione dell’atto
pubblico per notar L. F. di acquisto dell’immobile a nome del solo P.
B., fosse accertata la comune proprietà dell’alloggio in capo a
entrambi i coniugi e ne fosse di conseguenza annullata la successiva
vendita a N. P..
Ripropose così la domanda già proposta nel
giudizio di separazione personale dei coniugi e trascritta il 10 luglio
1991, ma dichiarata inammissibile in quella sede.
Il tribunale
qualificò la domanda di R. B. come azione di simulazione del contratto
di compravendita stipulato dai coniugi B. per l’acquisto dell’immobile
controverso. Ordinò pertanto l’integrazione del contraddittorio nei
confronti di A. F. e M. L. A., danti causa di P. B. e R.
B.. E rigettò la domanda per mancanza di prova scritta.
La
decisione, impugnata da R. B., fu tuttavia riformata dalla Corte
d’appello di Palermo, che, qualificata la domanda come azione di
accertamento della comunione legale, riconobbe R. B. comproprietaria
dell’immobile e di conseguenza annullò il contratto di compravendita
per notar C. stipulato da N. P. con il solo P. B..
Ritennero i
giudici d’appello che l’indiscussa e comunque accertata destinazione
dell’immobile a casa coniugale ne aveva determinato l’immediata
inclusione nella comunione legale sin dall’acquisto, perché la
dichiarazione resa da R. B. nell’atto pubblico di compravendita del
omissis, circa la destinazione dell’immobile all’attività professionale
del marito commercialista, non aveva avuto efficacia negoziale e non
aveva comportato pertanto la sottrazione del bene alla comunione.
Contro
la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione N. P., con un
unico motivo d’impugnazione, cui resiste con controricorso R. B., che
ha proposto altresì, ricorso incidentale condizionato e ha poi
depositato anche una memoria. Mentre non ha spiegato difese P. B..
La
prima sezione civile di questa corte, cui il ricorso era stato
assegnato, ne ha sollecitato la rimessione alle Sezioni unite. Ha
rilevato infatti un contrasto di giurisprudenza circa la disponibilità
del diritto alla comunione legale su beni che per legge vi sarebbero
inclusi; e la particolare importanza della consequenziale questione
degli effetti nei confronti dei terzi acquirenti nel caso di
sopravvenuto accertamento della comunione legale sui beni alienati dal
coniuge unico intestatario.
Successivamente P. ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1.
Disposta a norma dell’art. 335 c.p.c. la riunione dei ricorsi proposti
contro la stessa sentenza, va innanzitutto rilevato che nella memoria
depositata dalla controricorrente R. B. viene eccepita
l’improcedibilità del ricorso principale per omessa notifica ai
chiamati in causa A. F. e M. L. A..
Si tratta tuttavia di
eccezione palesemente infondata, perché non è più in discussione in
questo giudizio il contratto di compravendita cui parteciparono A. F. e
M. L. A., bensì solo il contratto di compravendita stipulato da N. P.
con P. B..
Né rileva in questa sede se violi l’art. 112 c.p.c.
la modificazione della qualificazione giuridica della domanda da parte
della corte d’appello, posto che si tratterebbe comunque di un error in
procedendo non dedotto dal ricorrente e non rilevabile d’ufficio
(Cass., sez. III, 17 gennaio 2007, n. 978, m. 596924).
2. Con
l’unico complesso motivo del suo ricorso N. P. deduce violazione degli
art. 179, 184, 1445 c.c., vizi di motivazione della decisione impugnata.
Lamenta
innanzitutto che la corte d’appello non abbia tenuto conto della sua
buona fede di terzo acquirente, cui non poteva addossarsi una
responsabilità del solo P. B..
Eccepisce poi la prescrizione
dell’azione di annullamento, perché proposta a oltre un anno sia
dall’acquisto dell’immobile da parte dei coniugi B. sia dal successivo
acquisto dello stesso immobile da parte sua.
Lamenta infine che
la dichiarazione resa da R. B. all’atto dell’acquisto dell’immobile da
parte del marito sia stata erroneamente qualificata come meramente
ricognitiva, anziché negoziale, senza considerarne la destinazione a
rifiutare gli effetti traslativi del contratto. E rilevato che su tale
questione v’è contrasto di giurisprudenza, chiede che la questione sia
risolta dalle Sezioni unite della corte.
3. Risulta preliminare
l’esame dell’eccezione di prescrizione proposta dal ricorrente, perché,
ove tale eccezione risultasse ammissibile e fondata, la conseguente
dichiarazione di estinzione del diritto azionato da R. B. renderebbe
irrilevante l’accertamento della sua effettiva esistenza (Cass., sez.
un., 11 gennaio 2008, n. 581, m. 600910).
Sennonché, posto che
quella prevista dall’art. 184 c.c. è effettivamente una prescrizione e
non una decadenza (Cass., sez. II, 19 febbraio 1996, n. 1279, m.
495904), l’eccezione è inammissibile, perché il ricorrente non ha
neppure allegato di averla già proposta sin dal giudizio di primo grado.
Infatti
l’art. 345 comma 2 c.p.c. ammette che siano dedotte in appello nuove
eccezioni solo quando sarebbero rilevabili d’ufficio.
Sicché,
essendo quella di prescrizione un’eccezione non rilevabile d’ufficio
(art. 2938 c.c.), il ricorrente avrebbe dovuto quantomeno allegare, non
solo di averla dedotta già in primo grado, ma anche di averla poi
riproposta in appello a norma dell’art. 346 c.p.c. (Cass., sez. L, 7
settembre 2007, n. 18901, m. 598866, Cass., sez. L, 12 novembre 2007,
n. 23489, m. 600249). In mancanza di tale allegazione, l’eccezione di
prescrizione è preclusa anche in questa sede.
4. Risulta dunque
rilevante la questione della natura e degli effetti della dichiarazione
con la quale R. B., intervenuta nell’atto per notar L. F. stipulato da
P. B. il omissis, riconobbe che l’immobile controverso veniva
acquistato allo scopo di destinarlo all’attività professionale del
marito commercialista. Ed è con riferimento a tale questione che s’è
manifestato nella giurisprudenza di legittimità il contrasto denunciato
dalla prima sezione civile di questa corte. I riferimenti normativi di
questa controversa questione sono tre:
a) l’art. 177 comma 1
lettera a) c.c., che include nella comunione legale “gli acquisti
compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio,
ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”;
b) l’art.
179 comma 1 c.c., che elenca i beni esclusi dalla comunione in quanto
personali e tra gli altri vi annovera, alla lettera d), anche “i beni
che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli
destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione”;
c)
l’art. 179 comma 2 c.c., laddove prevede che l’acquisto di beni
immobili o equiparati, benché effettuato dopo il matrimonio, è escluso
dalla comunione, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto,
se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge e ove si tratti di
“beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge” (art. 179,
comma 1, lettera c), di “beni che servono all’esercizio della
professione del coniuge” acquirente (art. 179, comma 1, lettera d), di
“beni acquisiti con il prezzo del trasferimento” di altri beni già
personali del coniuge acquirente (art. 179, comma 1, lettera f). 4.1 –
Come risulta dalla citata ordinanza interlocutoria della prima sezione
civile, è controverso sia in dottrina sia in giurisprudenza se abbia
natura meramente ricognitiva ovvero negoziale l’atto con il quale uno
dei coniugi, intervenendo nel contratto stipulato dall’altro coniuge,
riconosca a norma dell’art. 179 comma 2 c.c. la natura personale del
bene acquistato e consenta perciò alla sua esclusione dalla comunione
legale. Dalla natura meramente ricognitiva attribuita all’atto previsto
dall’art. 179 comma 2 c.c., in particolare, un orientamento
maggioritario della giurisprudenza di questa corte fa discendere
l’enunciazione di un principio di indisponibilità del diritto alla
comunione legale (Cass., sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954, m. 560743,
Cass., sez. I, 24 settembre 2004, n. 192 50, m. 577347), benché ne
riconosca poi la irretrattabilità, quale “dichiarazione a contenuto
sostanzialmente confessorio, idonea a determinare l’effetto di una
presunzione “juris et de jure” di non contitolarità dell’acquisto, di
natura non assoluta ma superabile mediante la prova che la
dichiarazione sia derivata da errore di fatto o da dolo e violenza nei
limiti consentiti dalla legge” (Cass., sez. II, 6 marzo 2008, n. 6120,
m. 602411, Cass., sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1917, m. 534144).
Sennonché
può certo ammettersi che la dichiarazione prevista dall’art. 179 comma
2 c.c. abbia natura ricognitiva e portata confessoria quando risulti
descrittiva di una situazione di fatto, ma non quando sia solo
espressiva di una manifestazione di intenti.
Infatti una
dichiarazione di intenti può essere più o meno sincera o affidabile, ma
non è una attestazione di fatti, predicabile di verità o di falsità; e
quindi, secondo quanto prevede l’art. 2730 c.c., non può avere funzione
di confessione (Cass., sez. un., 26 maggio 1965, n. 1038, m. 312020,
Cass., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3033, m. 606575).
Esemplificando,
può avere dunque natura ricognitiva la dichiarazione con la quale uno
dei coniugi riconosca appunto che il corrispettivo dell’acquisto
compiuto dall’altro coniuge viene pagato con il prezzo del
trasferimento di altri beni già personali (art. 179, comma 1, lettera
f). Ma non può attribuirsi natura ricognitiva alla dichiarazione con la
quale uno dei coniugi esprima condivisione dell’intento dell’altro
coniuge di destinare alla propria attività personale il bene che viene
acquistato.
Certo, non può negarsi una peculiare efficacia
probatoria all’intervento del coniuge non acquirente che sia
effettivamente ricognitivo dei presupposti di fatto dell’esclusione
dalla comunione del bene acquistato dall’altro coniuge. Ma il problema
qui realmente in discussione non è tale possibile efficacia probatoria.
4.2
– Il problema che è effettivamente in discussione è se l’intervento ex
art. 179 comma 2 c.c. del coniuge non acquirente sia elemento
costitutivo della fattispecie cui si ricollegano gli effetti di
esclusione dalla comunione del bene acquistato dall’altro coniuge.
Occorre
dunque stabilire non solo se l’intervento adesivo del coniuge non
acquirente sia condizione sufficiente dell’esclusione dalla comunione
del bene acquistato dall’altro coniuge; ma anche se sia condizione
necessaria di un tale effetto. Secondo una parte della dottrina e della
giurisprudenza, infatti, l’intervento adesivo del coniuge non
acquirente è di per sé sufficiente all’esclusione dalla comunione del
bene acquistato dall’altro coniuge, indipendentemente dall’effettiva
natura personale del bene (Cass., sez. I, 2 giugno 1989, n. 2688, m.
462974).
Secondo altra parte della dottrina e della
giurisprudenza, invece, l’intervento adesivo del coniuge non acquirente
non è sufficiente a escludere dalla comunione il bene acquistato
dall’altro coniuge, ma è condizione necessaria di tale esclusione;
sicché, quand’anche sia effettivamente personale, il bene rimane
incluso nella comunione in mancanza dell’intervento adesivo del coniuge
non acquirente (Cass., sez. I, 24 settembre 2004, n. 19250, m. 577347).
4.3
– Dalla stessa lettera dell’art. 179 comma 2 c.c. risulta peraltro che
l’intervento adesivo del coniuge non acquirente non è di per sé
sufficiente a escludere dalla comunione il bene che non sia
effettivamente personale.
La norma prevede infatti che i beni
acquistati risultano esclusi dalla comunione “ai sensi delle lettere
c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti
dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro
coniuge”. Sicché dall’atto deve risultare alcuna delle cause di
esclusione della comunione tassativamente indicate nel primo comma
dello stesso art. 179 c.c.; e l’effetto limitativo della comunione si
produce solo “ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente
comma”, vale a dire solo se i beni sono effettivamente personali.
L’intervento adesivo del coniuge non acquirente può dunque rilevare
solo come prova dei presupposti di tale effetto limitativo, quando,
come s’è detto, assuma il significato di un’attestazione di fatti. Ma
non rileva come atto negoziale di rinuncia alla comunione. E quando la
natura personale del bene che viene acquistato sia dichiarata solo in
ragione di una sua futura destinazione, sarà l’effettività di tale
destinazione a determinarne l’esclusione dalla comunione, non certo la
pur condivisa dichiarazione di intenti dei coniugi sulla sua futura
destinazione.
Secondo il sistema definito dagli art. 177 e 179
comma 1 c.c., infatti, l’inclusione nella comunione legale è un effetto
automatico dell’acquisto di un bene non personale da parte di alcuno
dei coniugi in costanza di matrimonio. Ed è solo la natura
effettivamente personale del bene a poterne determinare l’esclusione
dalla comunione.
Se il legislatore avesse voluto riconoscere ai
coniugi la facoltà di escludere ad libitum determinati beni dalla
comunione, lo avrebbe fatto prescindendo dal riferimento alla natura
personale dei beni, che condiziona invece gli effetti previsti
dall’art. 179 comma 2 c.c..
Certo, potrebbe anche ritenersi che
una tale facoltà debba essere riconosciuta ai coniugi per ragioni
sistematiche, indipendentemente da un’espressa previsione legislativa.
Come potrebbe ritenersi che, dopo C. cost., n. 91/1973, non possa
negarsi a ciascun coniuge il diritto di donare anche indirettamente
all’altro la proprietà esclusiva di beni non personali. Tuttavia tali
facoltà non potrebbero affatto desumersi dall’art. 179 comma 2 c.c.,
che condiziona comunque l’effetto limitativo della comunione alla
natura realmente personale del bene; e attribuisce all’intervento
adesivo del coniuge non acquirente la sola funzione di riconoscimento
dei presupposti di quella limitazione, ove effettivamente già esistenti.
4.4
– Deve nondimeno ritenersi che l’intervento adesivo del coniuge non
acquirente sia condizione necessaria dell’esclusione dalla comunione
del bene acquistato dall’altro coniuge. L’art. 179 comma 2 c.c. prevede
infatti che l’esclusione della comunione ai sensi dell’art. 179 comma
lettere c) d) e f) c.c. si abbia solo se la natura personale del bene
sia dichiarata dall’acquirente con l’adesione dell’altro coniuge.
Sicché
nei casi indicati la natura personale del bene non è sufficiente a
escludere di per sé l’esclusione dalla comunione, se non risulti
concordemente riconosciuta dai coniugi. E tuttavia l’intervento adesivo
del coniuge non acquirente è richiesto solo in funzione di necessaria
documentazione della natura personale del bene, unico presupposto
sostanziale della sua esclusione dalla comunione.
Sicché
l’eventuale inesistenza di quel presupposto potrà essere comunque
oggetto di una successiva azione di accertamento, pur nei limiti
dell’efficacia probatoria che l’intervento adesivo avrà in concreto
assunto.
4.5 – Come correttamente ritenuto nella sentenza
impugnata, pertanto, il coniuge non acquirente può successivamente
proporre domanda di accertamento della comunione legale anche rispetto
a beni che siano stati acquistati come personali dall’altro coniuge,
non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non
acquirente fosse intervenuto nel contratto per aderirvi.
Tuttavia,
se l’intervento adesivo ex art. 179 comma 2 c.c. assunse il significato
di riconoscimento dei già esistenti presupposti di fatto
dell’esclusione del bene dalla comunione, l’azione di accertamento
presupporrà la revoca di quella confessione stragiudiziale, nei limiti
in cui è ammessa dall’art. 2732 c.c. Se invece, come nel caso in esame,
l’intervento adesivo ex art. 179 comma 2 c.c. assunse il significato di
mera manifestazione dei comuni intenti dei coniugi circa la
destinazione del bene, occorrerà accertare quale destinazione il bene
ebbe effettivamente, indipendentemente da ogni indagine sulla sincerità
degli intenti così manifestati.
E poiché nel caso in esame è
indiscusso che l’immobile, benché acquistato come bene personale, fu in
realtà destinato a casa coniugale, il ricorso è sotto questo aspetto
infondato.
5. Viene allora in considerazione l’ultima questione
posta dal ricorrente principale, quella dell’opponibilità al terzo
acquirente in buona fede del sopravvenuto accertamento della comunione
legale sul bene vendutogli.
Come lo stesso ricorrente riconosce,
all’azione proposta a norma dell’art. 184 c.c. è applicabile la
disposizione dell’art. 1445 c.c., che fa salvi gli effetti della
trascrizione della domanda di annullamento anche in pregiudizio dei
diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede.
Quella
prevista dall’art. 184 c.c. è infatti un’azione di annullamento (C.
cost., n. 311/1988); e per tutto quanto non diversamente stabilito
dalla norma speciale che la prevede, deve ritenersi applicabile la
disciplina generale dell’azione di annullamento dei contratti.
L’art.
184 c.c., come l’art. 1445 c.c., si riferisce infatti a un caso di
invalidazione dell’atto di acquisto del terzo per vizio del titolo del
suo dante causa. E non rileva il fatto che il vizio del titolo del
dante causa dipende nel caso dell’art. 184 c.c. da un’azione di
accertamento, nel caso dell’art. 1445 c.c. da altra azione di
annullamento.
Sicché deve ritenersi che, salvi gli effetti della
trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento della
comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede.
Nel
caso in esame è indiscusso che il ricorrente trascrisse il suo atto di
acquisto il omissis, prima della domanda di annullamento del contratto
proposta il omissis da R. B..
È vero che l’attrice aveva già
trascritto in data omissis la sua domanda di accertamento della
comunione. Ma come risulta anche dalla sentenza impugnata, quella
domanda fu dichiarata inammissibile il 26 novembre 1994.
Sicché
la trascrizione non può giovare a R. B., che ripropose la sua domanda
solo il omissis (Cass., sez. II, 9 gennaio 1993, n. 148, m. 480203).
Ne
consegue che il sopravvenuto accertamento dell’appartenenza anche a R.
B. del bene acquistato da N. P. può essere opposto al compratore solo
se si dimostri che egli non era in buona fede.
Ma di tale questione la corte d’appello non s’è occupata affatto.
Va pertanto accolto sotto questo profilo il ricorso di N. P..
E
la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, perché il giudice
del merito proceda all’accertamento di tale fatto rilevante e
controverso.
Del resto, con il ricorso incidentale condizionato,
R. B. censura la sentenza impugnata per avere appunto omesso
l’accertamento della mancanza di buona fede dell’acquirente. Sicché la
sentenza impugnata va cassata anche in accoglimento del ricorso
incidentale.
P.Q.M.
pronunciando a sezioni unite, riuniti i ricorsi, accoglie nei limiti di
cui in motivazione il ricorso principale e il ricorso incidentale,
cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte
d’appello di Palermo in diversa composizione.