ANATOCISMO E CRITERIO DI RECIPROCITÀ NELLA CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI IN CONTO CORRENTE BANCARIO
– Carlo Sangermani Ritella
Illegittimità della clausola che comporta l’aumento del tasso effettivo debitore rispetto al tasso netto, mentre il tasso effettivo creditore raffrontato al tasso netto non assume progressione significativa, nonostante la pari capitalizzazione degli interessi.
1. PREMESSA
La presente nota tratterà solo un segmento del contenzioso che ha visto e vede contrapporsi banche e clientela in merito all’effetto anatocistico della capitalizzazione degli interessi.
Si esaminerà una problematica che interessa i contratti conclusi nel lasso di tempo che va dalla vigenza della Delibera del Cicr del 09/02/00 alla rivisitazione dell’art. 120 del Tub ad opera della legge 147/13 (articolo 1 comma 629) in vigore dal 01/01/14.
2. BREVE CENNO ALLA QUESTIONE GENERALE DELL’ANATOCISMO
Per anni, dopo la pubblicazione del Codice Civile del 1942, le banche hanno capitalizzato in modo asincrono gli interessi dal lato attivo e da quello passivo (trimestralmente gli interessi debitori, annualmente quelli creditori) sul presupposto dell’esistenza di un “uso in materia bancaria” avente carattere “normativo” e per questa qualità capace di derogare al divieto di cui all’art. 1283 c.c.
Non che l’anatocismo fosse perpetrato in assenza di un patto scritto (sempre presente nelle condizioni generali di contratto), ma le clausole che permettevano la produzione di interessi da parte degli interessi capitalizzati derogando all’art. 1283 c.c. potevano dirsi valide soltanto perché considerate come riproduttive di un uso normativo.
La scure del noto “revirement” della Cassazione del 1999 (sentenza n. 2374 del 16/03/99, confermata dalla n. 3096 del 30/03/99 e dal decisum n. 12507 dell’11/11/99) sulla peculiarità normativa dell’uso in questione, degradato a mero “uso negoziale”, ha azzerato la liceità dell’anatocismo esercitato dalle banche fuori dal perimetro segnato dall’articolo 1283 c.c.
A quel punto il ceto bancario è stato soccorso dal Legislatore (episodio per il vero non proprio isolato) con il Decreto Legislativo n. 432 del 04/08/99 (“Modifiche al decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”) che, all’art. 25, modificava l’art. 120 del Tub statuendo che per il futuro le modalità di produzione degli interessi sugli interessi venissero stabilite dal Cicr con la tutela, nelle operazioni in conto corrente, della pari periodicità di conteggio degli interessi debitori e creditori.
Al contempo la novella preservava la validità delle pregresse clausole anatocistiche mantenendone gli effetti sino all’adeguamento dei contratti in corso alla nuova regolamentazione.
E’ subito da ricordare che detta salvaguardia è stata neutralizzata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 425 del 17/10/00, la quale ha dichiarato incostituzionale dell’art. 25 del D.lvo 432/99.
Questa pronunzia ha consentito e consente alla clientela di invocare la resa del maltolto anatocistico almeno (per quanto si dirà a breve) sino all’allineamento dei vecchi contratti alle nuove disposizioni.
Quanto al riordino della materia il Cicr ha provveduto con la Delibera del 09/02/00 attraverso un sistema volto a garantire (e questo sarà il fulcro dell’odierna discussione) un equilibrio tra le posizioni della banca e del cliente.
In sintesi estrema (il contenuto della delibera è celeberrimo) e qui citando solo quanto interessa i rapporti in conto corrente, l’anatocismo veniva consentito a patto che vi fosse la pari periodicità della capitalizzazione degli interessi e le medesime modalità di produzione di interessi sugli interessi.
Per quanto riguarda l’adeguamento alla nuova disciplina dei rapporti negoziali in corso, l’articolo 7 della Delibera dettava un allineamento delle vecchie condizioni contrattuali alle nuove entro il 30/06/00 con effetto a decorrere dal successivo 01 luglio.
Il tutto mediante pubblicazione da parte della banca nella Gazzetta Ufficiale dell’ottemperanza alle nuove regole, ossequiosa del contenuto della delibera, con successiva comunicazione scritta alla clientela alla prima occasione utile e comunque non oltre il 31/12/00.
Tanto bastava soltanto nel caso in cui il nuovo regime non comportasse un peggioramento delle condizioni per il cliente, in caso contrario necessitandosi la sottoscrizione di un nuovo patto scritto (articolo 7 della delibera).
Un breve accenno su quest’ultimo punto che pure non costituisce il campo di indagine del presente lavoro.
Secondo l’orientamento che ormai è predominante, l’adeguamento attraverso pubblicazione sulla G.U. senza nuovo accordo formale è del tutto inefficace per due motivi.
In primis le disposizioni transitorie di cui all’articolo 7 della Delibera sono state travolte dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 25 comma 3 del D.lvo 342/99, in quanto l’atto di normazione secondaria (appunto l’art. 7 della delibera), attuativo della norma non più esistente perché incostituzionale cade anch’esso nel vuoto (così, da ultimo, Tribunale di Benevento 132 del 27/01/17).
In secondo luogo la convalida di un effetto anatocistico dal lato debitore prima illegittimo comporta sempre un peggioramento delle condizioni contrattuali per il cliente, che vedrà influenzata la propria contabilità da un meccanismo che aumenta il passivo.
Per questo la fattispecie ricade sotto la previsione dell’ art. 7 comma 3 della delibera con onere di espressa sottoscrizione negoziale (per l’ampia ricostruzione delle tesi a suffragio di tali assunti si rinvia alla sentenza del Tribunale di Piacenza n. 757 del 27/10/14) .
Saltando quello che, come si dirà a breve, è il tema centrale del presente scritto, si arriva alla riforma dell’art. 120 del Tub del dicembre del 2013 (con entrata in vigore il 1 gennaio 2014) che avrebbe dovuto sancire la fine dell’anatocismo.
Dopo una querelle sulla natura immediatamente cogente della legge (con dubbi anche sulla sua reale portata) o sulla necessità di attendere un successivo intervento del Cicr previsto dalla norma (risolta dalla giurisprudenza nel primo senso, cfr. Tribunale Milano, sez. VI, 29/07/2015, quindi Cassazione 9127/15), l’anatocismo è riemerso (se pure in relazione alla scelta del cliente) nei rapporti in conto corrente con la modifica del comma 2 lettera b dell’art. 120 del Tub ad opera dell’articolo 17 bis del DL 18 del 14/02/16.
3. I CONTRATTI STIPULATI DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA DELIBERA DEL CICR del 09 FEBBRAIO 2000 e PRIMA DELLA RIFORMA DEL 2013
I negozi di conto corrente perfezionati dopo l’entrata in vigore della Delibera contemplano sempre la pari periodicità (trimestrale) della capitalizzazione degli interessi.
L’art. 120 del Tub. nella versione del 1999, dalla quale discende poi la Delibera, ovviamente non impone che gli interessi siano pattuiti nella stessa misura dal lato attivo e da quello passivo.
Il Testo Unico prescrive solo pari periodicità nel conteggio degli interessi, demandando poi al Cicr di stabilire le modalità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.
Il Cicr è intervenuto con la nota Delibera del 09/02/00.
In particolare l’articolo 2 dell’atto recita:
“Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti. I1 saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità”.
L’articolo 6 è così declinato:
“…….Nei casi in cui è prevista una capitalizzazione infrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione.”
Riepilogando, la capitalizzazione è lecita se ha pari periodicità e se la produzione di interessi sugli interessi segue eguali modalità.
Ma non basta.
Se gli interessi sono (come avviene sempre) capitalizzati con cadenza infrannuale il testo negoziale deve precisare quale incremento produce l’effetto anatocistico.
E qui risiede il punto dolente.
Un minimo di esperienza nel settore evidenzia un fenomeno perennemente ricorrente:
mentre dal lato debitore è visibile una progressione del saggio per via dell’anatocismo (il TAE è superiore al TAN), la percentuale degli interessi creditori rimane immutata nonostante la capitalizzazione: TAN E TAE HANNO LO STESSO VALORE.
Così è frequentissimo leggere, ad esempio:
Interessi debitori intrafido TAN 4,66% – TAE 4,74%
Interessi creditori TAN 0,010% – TAE 0,010%.
Il primo impatto, per così dire “visivo”, ritrae una situazione nella quale dell’anatocismo si giova solo la banca.
Il Tribunale di Grosseto, con decreto n. 1435 del 03 luglio 2006 (https://www.diritto.it/tribunale-civile-di-grosseto-decreto-03072006-n-1435/), ha ritenuto illecita tale pratica contrattualistica perché adottata in spregio al “criterio di reciprocità”.
Il giudice toscano richiama il sopracitato passo dell’art. 6 della Delibera del Cicr del 09/02/00 insieme al disposto dell’art. 2 della medesima, e segnatamente l’inciso secondo il quale “Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità”.
Secondo il Tribunale grossetano le “medesime modalità” di produzione degli interessi non possono condurre ad incremento pari allo zero degli interessi attivi mentre quelli passivi lievitano in modo apprezzabile.
Il Tribunale di Imperia, con statuizione del 12/06/15 (pubblicata da ilCaso.it), senza troppo dilungarsi nell’argomentare la propria decisione bolla come illegittima la pari capitalizzazione perché nel caso delibato l’interesse creditore era praticamente inesistente (segnatamente lo 0,062%).
Queste le testuali affermazioni del giudice ligure: “Non essendo previsto, per quanto appena detto, alcun interesse creditore a favore del cliente, non può esservi pari periodicità di capitalizzazione.”
Il giudice qualifica il tasso irrisorio con l’espressione latina del “nummo uno”, che esprime un valore economicamente insignificante.
Come si tenterà di dimostrare a breve tale assunto, pur scarno, è meritevole di attenzione.
Il fenomeno della mancanza di aumento del tasso creditore, anche se operata la capitalizzazione degli interessi, trova spiegazione nell’esiguità del saggio.
Di fronte alle censure dei Tribunali di Grosseto e Imperia l’ipotetico difensore della banca obbietterebbe che in effetti un innalzamento del saggio creditore esiste in funzione della formula matematica adoperata, ma non si rende “percettibile” graficamente nel contratto il quale riporta, ad esempio, solo le prime tre cifre “dopo la virgola” (nell’esempio 0,010%) mentre la crescita del tasso si rende manifesta a partire dalla quarta.
Dando questo aspetto tecnico per assodato bisogna interrogarsi sulla legittimità di quel segmento contrattuale che sancisca la pari periodicità di capitalizzazione degli interessi quando il saggio creditore è prossimo allo zero oppure non sia affatto previsto (è successo anche di leggere contratti recanti dal lato creditore TAN 0,0% – TAE 0,0%), così da vanificare per il correntista il beneficio della capitalizzazione.
A parere dello scrivente la problematica deve essere affrontata partendo dalla discussione sulla causa della clausola contrattuale.
Nella congerie di definizioni della causa del contratto si mantengano sullo sfondo del ragionamento e fungano da criterio orientativo le seguenti:
– nei negozi sinallagmatici la causa è lo scambio tra prestazioni, “cosicché il sacrificio di una parte è giustificato da quello dell’altra parte” (descrizione del Manuale di Diritto Privato Torrente, P. Schelisnger – Giuffrè – plurime edizioni);
– secondo la Corte di Cassazione la causa sostanzia la “funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e che il diritto riconosce come rilevante ai fini della tutela apprestata” (Cass. Civ. – 5324/03) o “lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare” (c.d. causa concreta – Cass. Civ. – 23941/09).
In tale contesto la simmetria (“Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità” – art. 2 della Delibera) e la sincronia (“pari periodicità di capitalizzazione” – art. 120 del Tub) imposte dalla norma sono private di valore se per entrambe le parti non scaturisce un vantaggio dalla capitalizzazione.
Non è preteso un eguale beneficio “quantitativo”, perche la regola non prescrive identici interessi (debitori e creditori) o paritario implemento dei saggi.
Nondimeno un concreto miglioramento del tasso creditore deve rintracciarsi per il correntista.
Diversamente il maggior costo cui si espone il cliente in virtù dell’anatocismo dal lato passivo non vede alcuna “controprestazione” o utilità o scambio a giustificare causalmente il patto (collocando la clausola nell’area delle prestazioni sinallagmatiche).
Parimenti declinando il concetto di causa come “scopo pratico del negozio” o “funzione economico sociale” la clausola discussa risulta carente di causa perché comporta il sacrificio di una parte (aumento del tasso debitore per il cliente) senza che in cambio le sia concesso nulla (tasso creditore sostanzialmente fermo).
Quale finalità negoziale o funzione economico sociale può avere un meccanismo che impoverisca scientificamente un contraente a vantaggio dell’altro ?
Ed ecco che la citata decisione del Tribunale di Imperia secondo la quale, seccamente, se non ci sono interessi creditori non può esistere capitalizzazione trova forse una motivazione più meditata.
Sotto diversa angolazione il patto è passibile di censura per violazione dell’art. 1344 c.c.
Perché nello scenario dipinto la clausola, pur osservando formalmente la norma, persegue una meta che il Legislatore ha considerato illegittima: l’aumento degli interessi in forza dell’anatocismo a solo arricchimento della banca (di qui l’aggiramento della legge).
La nuova formulazione normativa rende inutile un ragionamento di prospettiva futura per la legittimazione della pari capitalizzazione, visto che ormai non è più contemplata.
Per il passato si deve concludere che il disposto legislativo sia stato rispettato solo quando gli interessi creditori avessero una consistenza tale da non rendere praticamente nullo per il correntista il profitto scaturente dall’anatocismo.
Ove non si volesse delibare il guadagno per il correntista in termini assoluti, ma esaminare la relazione tra il beneficio derivante alla banca e quello in favore del cliente, si potrebbe mutuare in via analogica dall’art. 1448 c.c. il criterio matematico dirimente.
Nel campo della rescissione per lesione, se la sproporzione tra le prestazioni eccede la metà il soggetto sfavorito, ricorrendo le altre condizioni di Codice, può invocare la rescissione del contratto.
Ed allora si ipotizzi di controllare se, in base alle intese tra banca e cliente, l’implemento del tasso debitore per via della capitalizzazione supera della metà l’aumento del creditore.
In caso positivo bollando la sproporzione come inficiante la causa del contratto in termini di liceità dello scopo sociale e della finalità perseguiti.
4. LA LEGGE 287/90
In punto di diritto positivo, inoltre, il suddetto comportamento del ceto bancario è passibile di sussunzione sub articolo 3 primo comma e primo comma lettera a della legge 287/90 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) che vieta “l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale” e l’imposizione diretta od indiretta di “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”.
Il ruolo degli intermediari è più che dominante, essendo nel loro insieme gli unici soggetti deputati in via “istituzionale” alla concessione del credito privato.
L’abuso consiste nell’avere conformato contratti standardizzati che assumono pari effetto anatocistico tra interessi creditori e debitori quando ad essere influenzato concretamente dal fenomeno è solo l’interesse debitore. La stessa fattispecie è riconducibile anche alla categoria delle “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose” poiché non vi è una giustificazione del depauperamento del cliente per mezzo dell’anatocismo dal lato passivo, se dal lato attivo non giunge alcun beneficio.
A ben vedere l’inciso normativo in questione non fa che specificare il più generale principio di necessità di causa a sostegno di un patto, apparendo evidente che una condizione contrattuale ingiustificatamente gravosa è tale perché priva di causa.
Il tutto a meno di non voler intendere l’espressione solo nella sua configurazione al plurale (potendosi sussumere sotto l’egida del periodo “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose” esclusivamente un insieme di accordi e non il patto isolato), nel senso che essa bolla come illecite la serialità di clausole che, se pure singolarmente lecite, costituiscono nel loro combinato un vulnus per il soggetto debole.
5. BUONA FEDE E CORRETTEZZA NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO
E’ ormai noto che il dovere di buona fede e correttezza informa tutti i rapporti giuridici e non solo le relazioni contrattuali.
Discendente dal valore costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Costituzione) la clausola di buona fede costituisce fonte eteronoma del contratto, capace non soltanto di orientare l’interpretazione del contenuto di regole presenti nel dettato negoziale, ma altresì di coniare obblighi non puntualmente esplicitati dai contraenti alla stesura dei patti.
Quando il Legislatore è stato chiamato a concretizzare siffatto dovere nei rapporti tra soggetti che assumono una posizione diseguale nella tensione precontrattuale (si veda ad esempio la disciplina delle clausole vessatorie nel Codice del Consumo, articoli dal 33 al 38), la salvaguardia della libertà di iniziativa economica ha fatto sì che la sanzione dell’abuso della posizione di forza (in questo caso quella del professionista) rispetto a quella di svantaggio (il consumatore nella fattispecie in questione) andasse a tutelare solo l’equilibrio normativo del contratto, e non quello del contenuto economico degli accordi (articolo 34 comma 2 Codice del Consumo).
E’ in effetti configurata una disciplina nella quale deve essere consentito al cliente di potersi districare nell’esecuzione del contratto con pari diritto rispetto al professionista, deve essere fornita una compiuta informazione sul contenuto dei doveri che ne scaturiscono ma non si può sindacare il reciproco vantaggio svantaggio in termini sostanziali che il negozio comporta.
A questo punto è lecito chiedersi se in un territorio nel quale la determinazione dell’oggetto del contratto è così tutelata in ossequio alla libertà di iniziativa economica, sussiste comunque la facoltà da parte del cliente di contestare il carattere punitivo della clausola anatocistica invocando la mancanza di buona fede e correttezza da parte della banca (nella predisposizione del dettato contrattuale) laddove a causa dell’esiguità – inesistenza dell’interesse creditore la reciproca capitalizzazione degli interessi arricchisce solo la banca.
Sul dato storico di partenza sia consentita l’esenzione dall’onere della prova: è notorio che dal 2000 ad oggi i tassi creditori in conto corrente sono stati sempre di tale minima entità da non procurare lucro al correntista la loro capitalizzazione con effetto anatocistico.
Bisogna innanzitutto soffermarsi su un aspetto.
La Delibera del Cicr del 09/02/00 e l’art. 120 del Tub nell’edizione del 1999 non IMPONEVANO la produzione di interessi sugli interessi e che ciò avvenisse nel rispetto del criterio di reciprocità, ma IMPONEVANO il criterio di reciprocità nel caso in cui il contratto prevedesse la produzione degli interessi sugli interessi.
La sottolineatura non è banale se si riflette sul fatto che non si rintracciano contratti di conto corrente privi della clausola di capitalizzazione trimestrale, quasi che l’anatocismo fosse stato disposto per legge.
Ed invece, secondo la delibera del Cicr, nei contratti di esercizio del credito gli interessi “possono” e non “devono” produrre interessi.
Se la giustificazione del non intervento nell’area dell’oggetto del contratto (si è fatto l’esempio del giudizio di vessatorietà nel Codice del Consumo) sta nella conservazione e difesa della libertà di iniziativa economica, è il caso di verificare se nel caso di specie la predetta libertà (del cliente) non sia stata coartata.
Il soggetto bisognoso di intrattenere un rapporto di conto corrente godeva di tale libertà, tanto da poter rifiutare l’effetto anatocistico della capitalizzazione degli interessi ?
La risposta è negativa.
Come noto si tratta di clausola inserita nelle condizioni generali di contratto o comunque diffusa a tal punto che non esiste intermediario che non l’abbia, nel periodo in discussione, compresa nel proprio modello negoziale.
Ed allora blindare con le condizioni generali di contratto, sulle quali il cliente non ha alcun potere di obiezione, una clausola che, data la fisiologica sproporzione tra saggio di interesse passivo e saggio attivo, comporta arricchimento soltanto per la banca integra contegno in spregio alla buona fede contrattuale, soprattutto in considerazione del fatto che l’atteggiarsi della banca si inserisce in un mercato nel quale tutti gli appartenenti al ceto bancario assumono la stessa forma contrattuale, concedendo interessi creditori insignificanti al contrario dei debitori.
Come spesso accade nell’attuale panorama giuridico il dovere buona fede e correttezza è capace di fungere da strumento di chiusura del sistema e da chiave di lettura delle singole norme.
NOTA DEL REDATTORE
Articolo del 2017 pubblicato sulla rivista giuridica online Persona e danno a cura di Paolo Cendon.