Arriva la service tax: ingloberà anche l’Ici, escluse le prime case
Di resuscitare l’Ici sull’abitazione principale «non c’è alcuna
intenzione»; il futuro dei bilanci comunali si baserà sulla «service
tax», il tributo unico che dovrà servire a finanziare i servizi
garantiti dai sindaci sostituendo i vari trasferimenti statali oggi in
campo.
Il mantra contro il “pericolo” Ici riemerge puntuale a ogni
appuntamento importante sulla strada dell’applicazione del federalismo
fiscale, e ieri l’audizione di Calderoli non ha fatto eccezione.
Proprio questa polemica, l’anno scorso, aveva impedito di parlare
chiaro già nella legge delega della riunificazione dei tributi
immobiliari per costruire la service tax, ma il traguardo rimane
quello. L’autonomia tributaria degli enti locali, con la tassa unica
nel ruolo di protagonista e con il fisco provinciale alimentato dalle
tasse sull’auto in quello di comprimario, dovrebbe valere intorno ai 16
miliardi di euro, cioè l’importo degli assegni che oggi a vario titolo
arrivano in comune e provincia dallo stato. La traduzione pratica di
questa strategia sarebbe dovuta arrivare con il primo decreto
attuativo, ma poi prudenza ha consigliato di debuttare con il capitolo,
apparentemente più leggero, del federalismo demaniale, e l’appuntamento
è ora in calendario per settembre.
L’insistenza sul «no» all’Ici, comunque, sembra rassicurare anche i
proprietari immobiliari, che per bocca di Confedilizia si mostrano più
possibilisti rispetto al passato: «Accogliamo la proposta di Calderoli
– spiega il presidente, Corrado Sforza Fogliani –, ma perché il sistema
funzioni sono indispensabili una correlazione ferrea tra richieste e
servizi e criteri standard di imposizione». In provincia, invece, la
crisi ha insegnato a preoccuparsi del carattere troppo «ciclico» del
fisco automobilistico, che in tempi difficili vede crollare il gettito.
Per le regioni l’orizzonte è il superamento dell’Irap, che con i
suoi 34 miliardi all’anno (23,5 dai privati) copre più dell’80% del
fisco regionale e offre il pilastro delle entrate proprie dei
governatori. Il «superamento» dell’Irap teorizzato dal governo, però, è
ancora di là da venire, e anche nei primi anni del federalismo la
vecchia imposta sulle attività produttive costituirà, insieme alle
compartecipazioni Irpef e Iva e alla perequazione, una delle tre gambe
dei conti regionali.
La prima partita, comunque, si gioca in casa dei sindaci, e anche
senza tornare a battere cassa dalle parti dell’abitazione principale si
fonderà sul riordino del fisco immobiliare. Oltre al gettito locale
rappresentato dall’Ici sopravvissuta ai tagli e dalla tassa rifiuti,
che insieme valgono poco più di 14 miliardi di euro, il mattone porta
nelle casse statali oltre 43 miliardi, targate soprattutto Irpef, Iva e
imposte di registro e ipocatastali (le tre voci valgono otto miliardi
ciascuna). Per far funzionare i comuni senza dipendere dallo stato, la
strategia è quella di portare sul territorio qualcuna di queste
imposte: Iva, imposte ipotecarie e catastali appaiono le più restie a
questo trasferimento, anche perché il prelievo scatta con la
compravendita ed è quindi soggetto a dinamiche del mercato che da un
anno all’altro possono offrire sorprese. Si tratta di un problema
secondario per i comuni più grandi, dove le dimensioni del mercato
aprono un paracadute per queste oscillazioni, ma in uno dei quasi 6mila
comuni “polvere” un anno avaro di acquisti immobiliari rischierebbe di
far capitolare i bilanci. Accanto a campioni come l’Irpef, comunque, il
fisco del mattone è ricco di attori solo apparentemente di seconda
fila, dalle accise sull’energia alle sostitutive sui mutui, che possono
dare una mano cruciale.
Accanto ai tributi propri, il secondo motore delle entrate locali
sarà spinto dalla compartecipazione, soprattutto sull’Iva; a favorire
questa soluzione è la sua funzione «responsabilizzante», sul
presupposto che le amministrazioni inefficienti non favoriscono
commercio e industria, e quindi impoveriscono il gettito dell’imposta.