Assegno di divorzio: spetta anche alla ex moglie "benestante" Cassazione civile , sez. I, sentenza 22.02.2010 n° 4079
Il matrimonio Eterno: dura lex (sed lex) dell’assegno divorzile.
Ai
fini della determinazione dell’assegno di divorzio è opportuno
verificare la inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge
richiedente in relazione al tenore di vita avuto durante il matrimonio
e che “presumibilmente” sarebbe continuato se l’unione coniugale non fosse cessata.
E’ quanto hanno precisato i giudici di legittimità con la recente sentenza 4079/2010, con la quale hanno stabilito che “ha diritto all’assegno di divorzio la ex moglie anche nel caso in cui sia una professionista e guadagni bene”.
Con
la sentenza in commento, infatti, i giudici della Corte hanno respinto
il ricorso presentato da un senatore contro la decisione della Corte
d’Appello che l’aveva condannato a versare all’ex moglie l’assegno
divorzile pari a 1200 euro.
Per i giudici non importa che la moglie abbia una posizione professionale di rilievo; se vi è una disparità economica tra le parti, di ciò bisogna tener conto nella valutazione.
L’inadeguatezza, secondo i giudici, deve essere, quindi, valutata mediante una comparazione
tra quella che è l’attuale situazione patrimoniale e reddituale del
richiedente e la situazione della famiglia al momento della rottura del
rapporto, tenendo, altresì, in debito conto anche eventuali
miglioramenti di colui che è tenuto al versamento dell’assegno.
ha basato la propria decisione considerando il fatto che la carriera
politica dell’ex marito era cominciata durante il matrimonio e che la
moglie aveva, pertanto, la legittima aspettativa di migliorare (nel corso degli anni del matrimonio), il proprio tenore di vita.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 22 febbraio 2010, n. 4079
Svolgimento del processo
1. – C.G. e B.M., in data ****, contrassero matrimonio civile, dal quale nacque un figlio.
2.
– Con verbale del ****, i predetti coniugi si separarono
consensualmente, convenendo, tra l’altro, che il marito versasse alla
moglie l’assegno mensile di mantenimento di L. 3.000.000 e le donasse
la metà dell’appartamento sito in ****, fino ad allora oggetto della
comunione legale tra i coniugi.
3. – A seguito di
ricorso del B., il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 47591 del 16
dicembre 2002, pronunciò lo scioglimento del matrimonio dei coniugi e
respinse la domanda della C. volta ad ottenere l’assegno di divorzio.
4.
– Avverso tale sentenza – nella parte in cui aveva respinto la domanda
di assegno di divorzio – la C. propose appello dinanzi alla Corte
d’Appello di Roma, lamentando, in particolare, che il Tribunale aveva
omesso di considerare: a) le due predette condizioni della separazione
consensuale (assegno di mantenimento e donazione), le quali erano state
convenute allo scopo di garantirle un tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio, tenore di vita che – attualmente –
non era in grado di mantenere, pur in presenza dell’incremento del
proprio reddito di lavoro; b) due circostanze rilevanti ai fini del
riconoscimento del diritto all’assegno, costituite dalla donazione di
un appartamento da lei effettuata a favore del figlio N., nonchè dalla
richiesta ed ottenuta anticipazione del trattamento di fine rapporto,
nel ****, investito nella comunione legale. La C. chiese, pertanto, che
la Corte le riconoscesse un assegno di divorzio pari ad Euro 1.700,00
mensili.
Costituitosi, il B., nel contestare il
fondamento dell’appello, sottolineò che: a) la C. aveva una solida
posizione economico – patrimoniale, derivantele dall’attività
professionale di professore ordinario presso l’Università **** e dalle
sue proprietà immobiliari, ivi compresa la proprietà del predetto
appartamento di ****; b) all’epoca della separazione, egli era
professore ordinario presso l’Università **** e, da poco tempo,
componente “laico” del Consiglio Superiore della Magistratura, essendo
stato eletto al Senato della Repubblica soltanto nel ****, a distanza
di tre anni dalla separazione, con la conseguenza che la situazione
reddituale attuale (****), raggiunta per eventi successivi e non
riconducibili ad aspettative sorte in costanza di matrimonio, era
costituita esclusivamente dall’indennità di parlamentare.
La
Corte adita, con la sentenza n. 2206/05 del 18 maggio 2005, in
accoglimento dell’appello ed in parziale riforma della sentenza
impugnata, riconobbe alla C. l’assegno di divorzio pari ad Euro
1.200,00 mensili.
In particolare, per quanto in questa sede rileva, la Corte ha osservato quanto segue:
A)
“Effettivamente deve ritenersi che il tenore di vita dei due coniugi
durante la loro unione matrimoniale fosse caratterizzato da un ottimo
livello economico in virtù non solo della posizione professionale di
entrambi, ma anche e soprattutto della decisa superiorità delle
condizioni economiche del B. rispetto a quelle della moglie e della
conseguente incidenza sulla vita familiare; tale convincimento trova
obiettiva conferma nella circostanza per cui in sede di separazione
consensuale il B. ha assunto l’obbligo di contribuire al mantenimento
della moglie, pur titolare di un autonomo reddito da lavoro, nella
misura di L. 3.000.000 mensili, proprio al dichiarato scopo di
garantirle la conservazione del tenore di vita matrimoniale, in tal
modo riconoscendo esplicitamente l’esistenza di un’organizzazione
familiare economicamente elevata e dispendiosa”. B) “Deve inoltre
ritenersi che la C. ha potuto ragionevolmente fare affidamento, in
ragione del rapporto coniugale con il B., anche su un futuro e
sensibile miglioramento del tenore di vita in considerazione della
attività politica cui il B. si era dedicato da tempo e dei prevedibili
sviluppi della stessa che lo hanno portato a ricoprire, come non
contestato, diversi e rilevanti incarichi di natura istituzionale e
governativa”. C) “Ritenuto, per le esposte considerazioni, che i
coniugi durante la loro vita matrimoniale hanno avuto un livello di
vita piuttosto elevato tanto da prevedere in sede di separazione un
considerevole assegno di mantenimento in favore della C., nonostante
svolgesse una attività professionale ben retribuita, deve escludersi
con certezza che quest’ultima abbia la disponibilità di mezzi adeguati
a conservare un analogo tenore di vita considerato che il suo reddito
annuo lordo derivante dalla sola attività lavorativa è pari, allo stato
attuale, ad Euro 66.180,00 dichiarazione dei redditi ****. Il B. ha
attualmente un reddito annuo lordo di Euro 131.059,00 (dichiarazione
dei redditi ****), pari a circa il doppio di quello della C., pur
dovendo considerare, nella comparazione delle rispettive situazioni
economiche, che quest’ultima è proprietaria dell’abitazione in cui vive
e di un appartamento in ****”. D) “Per tutte le ragioni fin qui esposte
sussistono nella specie le condizioni per il riconoscimento del
richiesto assegno di divorzio che si reputa congruo fissare nella
misura di Euro 1.200,00 mensili, tenuto conto delle condizioni
economiche delle parti, dell’evidente disparità tra le stesse e della
lunga durata del matrimonio (circa venti anni)”. 5. – Avverso tale
sentenza B.M. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico,
complesso motivo di censura.
Resiste, con controricorso illustrato da memoria, C.G..
6.
– All’odierna udienza di discussione, della quale è stato dato rituale
avviso ai difensori delle parti, ha partecipato soltanto il difensore
della controricorrente.
Motivi della decisione
1.
– Preliminarmente, deve essere esaminata l’istanza, depositata in data
27 gennaio 2010, con la quale i difensori del ricorrente B.M., Avvocati
Giovanni e Fabio Di Cagno, chiedono che il Presidente di questa Prima
Sezione Civile, “… – accertato che l’Ufficiale Giudiziario deputato
alla notìfica dell’atto di avviso di fissazione di udienza nel presente
giudizio non ha proceduto alla notifica, attestando tuttavia alla
Cancelleria il nuovo domicilio legale in Roma dei sottoscritti
difensori – voglia disporre la rimessione della causa sul ruolo, con
fissazione di nuova udienza”. In particolare, i predetti difensori
precisano che “recentemente… hanno trasferito il proprio domicilio
legale in Roma dalla Via San Damaso n. 15 al Viale Mazzini n. 73,
avendo cura – nelle more della comunicazione alla Cancelleria della…
Corte – di comunicare l’avvenuto trasferimento all’Ufficiale
Giudiziario”, e che questo, “cui era stato affidato per la notifica
l’atto di avviso dell’udienza, lungi dal notificarlo direttamente
presso il nuovo domicilio come avvenuto in precedenza per altri atti,
lo ha restituito alla predetta Cancelleria, peraltro con indicazione
dell’avvenuto trasferimento del domicilio legale dei sottoscritti
difensori in Roma al Viale Mazzini n. 73”.
Tale istanza non può essere accolta.
In
punto di fatto – come del resto emerge anche dallo stesso contenuto
dell’istanza -, risulta che: a) i difensori istanti non hanno
comunicato alla Cancelleria della Corte – prima dell’udienza di
discussione del presente ricorso, fissata per il 28 settembre 2009 – il
cambiamento del loro domicilio di Roma dalla Via San Damaso, n. 15, al
Viale Mazzini, n. 73; b) l’avviso di detta udienza è stato
tempestivamente notificato ai predetti difensori, in data 26 giugno
2009, a mani del Cancelliere di questa Sezione, in quanto l’Ufficiale
giudiziario, nella precedente relazione di notificazione in data 22
giugno 2009, aveva attestato l’omessa notifica dello stesso avviso
all’indirizzo di Roma, via San Damaso, n. 15, sia pur indicando il
nuovo domicilio: “anzi Viale Mazzini 7 3 Roma”.
In punto
di diritto, è noto il costante orientamento di questa Corte al riguardo
(cfr. le sentenze delle sezioni unite nn. 739 del 1988 e 92 del 1999,
nonchè, ex plurimis, la sentenza n. 17086 del 2008), condiviso dal
Collegio. Per esso, nel giudizio di cassazione, le comunicazioni di cui
all’art. 377 c.p.c., comma 2, – in applicazione di quanto stabilito
dall’art. 366 c.p.c., comma 2, per il caso di mancata elezione del
domicilio in Roma da parte del ricorrente – vanno eseguite presso la
cancelleria della Corte di Cassazione, qualora il domiciliatario,
indicato con l’elezione di domicilio in precedenza effettuata ai sensi
del suddetto art. 366 c.p.c., comma 2, si sia trasferito dal luogo in
essa indicato senza comunicare alla cancelleria della stessa Corte il
nuovo domicilio. In tal caso, il trasferimento del domicilio, privando
di efficacia la precedente elezione di domicilio con il renderla
inidonea allo scopo per cui era stata fatta – cioè di ricevere in quel
luogo le comunicazione e le notificazioni della cancelleria concernenti
il ricorso -, può rilevare a detto scopo soltanto se tempestivamente
comunicato alla stessa cancelleria, non potendo invece assumere alcun
rilievo la conoscenza del nuovo indirizzo del domiciliatario acquisita
dall’ufficiale giudiziario in occasione di un inutile tentativo di
notificazione nell’originario luogo di domiciliazione, anche se il
luogo del nuovo indirizzo dello stesso domiciliatario (sia esso o no un
avvocato) si trovi in Roma. Ciò, in quanto il citato art. 366 c.p.c.,
comma 2 – che ha natura di disposizione generale e regola perciò non
solo la notificazione del controricorso e dell’eventuale ricorso
incidentale, ma tutte le notificazioni e le comunicazioni da farsi agli
avvocati delle parti nel giudizio di cassazione e, quindi, anche quelle
di cui all’art. 377 c.p.c., comma 2 – impone di configurare l’elezione
di domicilio come una dichiarazione indirizzata ai soggetti che, a
diverso titolo, operano nel giudizio di cassazione (cioè alla
controparte; al giudice, per quel che attiene alla rilevanza che essa
ha ai fini della regolarità dello svolgimento del processo e
dell’esecuzione dei relativi controlli; all’ausiliario del giudice,
tenuto ad individuare il luogo ove indirizzare le comunicazioni e
notificazioni cui la cancelleria della Corte deve provvedere), con la
conseguenza che il trasferimento del luogo della domiciliazione, per
acquisire rilievo come nuova elezione di domicilio, esige anch’esso una
specifica dichiarazione indirizzata e comunicata alla cancelleria della
Corte di Cassazione.
2. – Con l’unico, complesso motivo
(con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del
1970, art. 5, comma 6, anche in relazione all’art. 143 c.c., e art. 29
Cost.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo
che i Giudici a quibus sarebbero incorsi negli errori enunciati in
rubrica, “da un lato omettendo di dare conto dei mezzi adeguati di cui
la sig.ra C. autonomamente disponeva, dall’altro neppure accennando
all’impossibilità, per la medesima sig.ra C., di procurarseli per
ragioni oggettive”. In particolare, il ricorrente sostiene che: a)
quanto all’inadeguatezza dei mezzi della C., in relazione al tenore di
vita mantenuto dai coniugi in costanza di matrimonio o che poteva
legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del
matrimonio, affermata dalla Corte romana, tale affermazione risulta
innanzitutto apodittica – non avendo la resistente mai dimostrato, nè
chiesto di dimostrare in base a puntuali circostanze, come era invece
suo preciso onere, di esser priva di mezzi adeguati -, inoltre fondata
essenzialmente su presunzioni prive di riscontro ed erroneamente basata
sulla sola circostanza del contenuto della clausola di cui al verbale
di separazione consensuale – concernente l’assegno di mantenimento ivi
convenuto in favore della C. e lo scopo dell’erogazione ivi dichiarato
-, ed infine inconsistentemente basata sulle asserite aspettative di
sviluppo della “carriera” pubblica del B., posto che tale “carriera” si
è sviluppata soltanto successivamente alla separazione; b) quanto
all’oggettiva impossibilità per la C. di procurarsi mezzi adeguati,
parimenti affermata dalla Corte romana, risulta totalmente omessa la
considerazione che la stessa C. non ha provato nè dedotto di provare, e
neppure allegato, alcuna circostanza idonea a dimostrare detta
impossibilità: infatti, posto che i coniugi si trovavano, fino alla
data della separazione, in una situazione socio – economico –
reddituale perfettamente identica, non risultano in causa ragioni
oggettive che abbiano impedito o impediscano alla C. di procurarsi
mezzi adeguati per mantenere un tenore di vita analogo a quello tenuto
in costanza di matrimonio; c) quanto alla valutazione degli elementi di
determinazione dell’assegno operata dalla Corte romana, questa ha
omesso, in contrasto con i principi enunciati da questa Corte, la
valutazione “ponderata” e “bilaterale” dei criteri di cui alla L. n.
898 del 1970, art. 5, comma 6, omettendo, in particolare, di
considerare sia che il contributo personale ed economico dato da
ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune è stato identico fino alla
separazione, sia che l’affermata sperequazione reddituale era, in
realtà, molto modesta, tenuto conto che il B. – al pari di tutti i
parlamentari e, nella specie, di quelli dei **** – deve devolvere una
cospicua parte della indennità mensile al gruppo parlamentare di
appartenenza, e che lo stesso, a seguito della formazione di una nuova
famiglia, deve sostenere costi aggiuntivi rispetto alla C..
3. – Il ricorso non merita accoglimento.
3.1.
– La Corte romana, nel riconoscere il diritto della C. all’assegno di
divorzio, ha dato innanzitutto rilievo alle condizioni economico –
patrimoniali dei coniugi ed al tenore della vita matrimoniale riferiti
al momento della separazione consensuale, nonchè agli accordi convenuti
in tale sede.
Contrariamente a quanto sostenuto dal
ricorrente – per il quale detto riferimento alle condizioni della
separazione è illegittimo, perchè estraneo all’autonoma disciplina
dell’assegno di divorzio -, questa Corte ha più volte ritenuto che,
sebbene il riconoscimento e la misura di tale assegno, al fine di
assicurare al coniuge beneficiario il mantenimento del tenore di vita
goduto durante il matrimonio, debbano essere valutati alla luce della
L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, nel testo modificato dalla L. 6
marzo 1987, n. 74, art. 10, tuttavia, anche l’assetto economico
relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di
riferimento, nella misura in cui risulti idoneo a fornire utili
elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il
matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi (cfr., ex plurimis,
le sentenze n. 22500 del 2006 e n. 15728 del 2005). Nella specie, i
Giudici dell’appello non hanno ecceduto da tali limiti, perchè hanno
fatto riferimento – non esclusivo – alle condizioni convenute in sede
di separazione consensuale, e dunque sia al tenore della vita
matrimoniale sia alle condizioni economiche dei coniugi nel tempo della
separazione, al fine di accertare la spettanza dell’assegno di divorzio.
In
particolare, la Corte romana ha sottolineato come “il tenore di vita
dei due coniugi… fosse caratterizzato da un ottimo livello economico
in virtù non solo della posizione professionale di entrambi, ma anche e
soprattutto della decisa superiorità delle condizioni economiche del B.
rispetto a quelle della moglie e della conseguente incidenza sulla vita
familiare”, desumendo tale convincimento appunto dalla obiettiva
circostanza costituita dalle condizioni convenute in sede di
separazione consensuale, con le quali il B. si era obbligato, tra
l’altro, a contribuire al mantenimento della moglie, pur titolare di un
autonomo reddito da lavoro, nella misura di L. 3.000.000 mensili,
“proprio al dichiarato scopo di garantirle la conservazione del tenore
di vita matrimoniale”. A tale riguardo, la contraria tesi del
ricorrente – secondo cui, al momento della separazione, i coniugi,
entrambi professori universitari di ruolo, si trovavano in posizione di
assoluta parità, quanto alle rispettive condizioni reddituali – è
smentita dal rilievo che il B., rivestendo all’epoca ed a far data dal
1986, coitì è incontestato, la carica di componente “laico” del
Consiglio superiore della magistratura (eletto cioè dal Parlamento in
seduta comune, ai sensi dell’art. 104 Cost., comma 4), conservava lo
stipendio di professore universitario di ruolo e percepiva inoltre
l’indennità di carica e gli altri emolumenti previsti dalla L. 24 marzo
1958, n. 195, art. 40, (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
del Consiglio superiore della magistratura). Di qui l’esattezza
dell’affermazione dei Giudici a quibus circa la “decisa superiorità
delle condizioni economiche del B. rispetto a quelle della moglie” al
momento della separazione.
3.2. – Il riconoscimento del
diritto della C. all’assegno di divorzio è stato fondato dalla Corte
romana anche sulla considerazione che la stessa “ha potuto
ragionevolmente fare affidamento, in ragione del rapporto coniugale con
il B., anche su un futuro e sensibile miglioramento del tenore di vita
in considerazione della attività politica cui il B. si era dedicato da
tempo e dei prevedibili sviluppi della stessa che lo hanno portato a
ricoprire, come non contestato, diversi e rilevanti incarichi di natura
istituzionale e governativa”.
La censura del ricorrente
si incentra sulla considerazione che dette “aspettative” non
costituiscono elemento idoneo a fondare il diritto all’assegno di
divorzio, in quanto la “carriera” politica del B. si è sviluppata
soltanto in epoca successiva alla separazione.
Anche tale censura è infondata.
Questa
Corte, fin dalla sentenza delle sezioni unite n. 11492 del 1990, ha
costantemente affermato, in via generale, che la determinazione
dell’assegno di divorzio deve essere effettuata verificando
l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontata ad un
tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che
sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello
stesso, o quale poteva legittimamente e ragionevolmente prefigurarsi
sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto (cfr., ex
plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 15610 del 2007 e 14214 del
2009), ed ha ulteriormente precisato che la nozione di adeguatezza dei
mezzi postula un esame comparativo tra la situazione reddituale e
patrimoniale in atto del richiedente e quella della famiglia all’epoca
della cessazione della convivenza, che tenga altresì conto dei
miglioramenti della condizione economica dell’onerato anche se
successivi alla cessazione della convivenza -, i quali costituiscano
sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il
matrimonio e trovino radice in detta attività e/o nel tipo di
qualificazione professionale e/o nella collocazione sociale dello
stesso onerato (cfr., ad esempio, la sentenza n. 24496 del 2006).
Ribaditi
tali orientamenti, la peculiarità della fattispecie sta in ciò, che il
B. – com’è incontestato -, nei tempi successivi alla separazione e dopo
la cessazione dalla carica di componente “laico” del Consiglio
superiore della magistratura, ha più volte svolto alti incarichi
istituzionali, in qualità sia di componente del Governo sia di senatore
della Repubblica. Conseguentemente, ai fini dell’applicazione alla
fattispecie della disciplina di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5,
nel testo vigente, occorre chiedersi, innanzitutto, se siffatto cursus
honorum istituzionale, realizzatosi dopo la separazione, comporti ex se
“miglioramenti della condizione economica dell’onerato” tali da
costituire “sviluppi naturali e prevedibili” della sua attività svolta
durante il matrimonio e da incidere in melius sul tenore di vita
familiare ove il rapporto coniugale fosse proseguito, e, in secondo
luogo, se la C. potesse legittimamente e ragionevolmente prefigurarsi
tale miglior tenore di vita, sulla base delle aspettative maturate nel
corso di detto rapporto.
La risposta a tali quesiti non
può che essere affermativa: quanto al primo, è sufficiente richiamare
l’accertamento fatto dalla Corte romana (cfr., supra, Svolgimento del
processo, n. 4, lett. C), secondo cui, nell’anno ****, il B. possedeva
un reddito netto pari a circa il doppio di quello della C.; quanto al
secondo, va immediatamente sottolineata l’incontestata circostanza che
il B. – dal **** e, quindi, durante il matrimonio – rivestì la carica
di consigliere nel Consiglio regionale della Regione ****. Tale
circostanza, unitamente all’altra dianzi menzionata l’elezione a
componente del Consiglio superiore della magistratura, parimenti
avvenuta nel corso del matrimonio e comportante, come già detto, un
indubbio miglioramento quantomeno della posizione reddituale del B. -,
se considerate nel contesto dell’altrettanto pacifica circostanza della
attività svolta dallo stesso in modo continuo nell’ambito di un partito
politico e sempre durante il matrimonio, fanno ritenere giuridicamente
corretta l’affermazione dei Giudici a quibus, secondo la quale la C.
“ha potuto ragionevolmente fare affidamento (…) su un futuro e
sensibile miglioramento del tenore di vita in considerazione della
attività politica cui il B. si era dedicato da tempo e dei prevedibili
sviluppi della stessa (…)”, poi realizzatisi dopo la cessazione della
convivenza. Infatti, alla luce dei qui ribaditi orientamenti di questa
Corte, dette circostanze erano idonee a fondare nella C. una legittima
e ragionevole aspettativa circa il raggiungimento di un miglior tenore
economico della vita familiare collegato alla evoluzione della
“carriera” politica del B., in quanto i Giudici a quibus, basandosi
sulle stesse circostanze – e, quindi, anche sui già verificatisi
“sviluppi” della attività politica dello stesso, con il suo passaggio
dalla carica di consigliere regionale a quella di componente del
Consiglio superiore della magistratura eletto dal Parlamento in seduta
comune, cioè dal massimo organo costituzionale espressivo della volontà
popolare -, nonchè su dati di comune esperienza concernenti le prassi
regolanti alcuni aspetti della vita dei partiti politici e delle
corrispondenti dinamiche istituzionali, hanno sinteticamente – ma
correttamente – ritenuto prevedibile, con ovvia valutazione ex ante,
l’evoluzione medesima.
3.3. – Le residue censure formulate dal ricorrente sono parimenti infondate.
In
particolare, quanto alla dedotta omessa valutazione “ponderata” e
“bilaterale” dei criteri di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma
6, la censura è infondata, in quanto la Corte romana, per riconoscere
il diritto della C. all’assegno di divorzio, ha escluso con certezza
che la stessa abbia mezzi adeguati a conservare un tenore di vita
analogo a quello caratterizzante la vita matrimoniale, ponendo
correttamente a raffronto le condizioni reddituali delle parti riferite
all’anno **** e verificando che il reddito del B. è pari circa al
doppio di quello della ex moglie, ed ha anche tenuto conto, per
quantificare detto assegno, della “lunga durata del matrimonio (circa
venti anni)”. Tali valutazioni sono del tutto coerenti con i
consolidati orientamenti di questa Corte, secondo i quali, nel
determinare l’assegno di divorzio, il giudice non deve dare
giustificazione di tutti contemporaneamente i criteri indicati dalla L.
n. 898 del 1970, art. 5, potendo anche considerare prevalente quello
basato sulle condizioni economiche delle parti, salva restando la
valutazione della loro influenza sulla misura di esso in relazione alle
deduzioni e alle richieste delle parti medesime (cfr., ex plurimis, le
sentenze nn. 9876 del 2006, 10210 del 2005, 13169 del 2004).
A
quest’ultimo riguardo, i profili di censura secondo i quali i Giudici a
quibus hanno omesso di considerare gli argomenti difensivi, incidenti
sulla determinazione della misura dell’assegno, per cui l’affermata
sperequazione reddituale tra gli ex coniugi era, in realtà, molto
modesta, tenuto conto sia che il B., al pari di tutti i parlamentari e
in particolare di quelli dei Democratici di Sinistra, doveva devolvere
una cospicua parte della indennità mensile al gruppo parlamentare di
appartenenza, sia che lo stesso, a seguito della formazione di una
nuova famiglia, deve sostenere costi aggiuntivi rispetto alla C. – sono
inammissibili, perchè sono stati dedotti senza osservare gli oneri
conseguenti al principio dell’autosufficienza del ricorso per
cassazione (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1707 del 2009): nella
specie infatti – posto che, effettivamente, la Corte romana non ha
affrontato le predette questioni -, l’osservanza di tale principio
comportava che il ricorrente specificasse in quali atti del giudizio a
quo aveva dedotto detti argomenti difensivi (eventualmente supportati
da prove documentali), e ne riproducesse comunque il contenuto, al fine
di consentire alla Corte il sindacato sulla loro decisività quanto alla
determinazione della misura dell’assegno.
4. – In
considerazione dei profili di novità delle questioni trattate,
sussistono i giusti motivi per dichiarare compensate per intero tra le
parti le spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 settembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2010.