Australia, boom di ‘nuovi emigrati’. Si sogna la fuga ma non si studia l’inglese
È un nuovo mercato che cresce assieme alla voglia di fuga all’estero dei giovani italiani. È quello delle agenzie che offrono consulenza e pacchetti soggiorno studio-lavoro per neo-diplomati, laureati ma in alcuni casi anche padri di famiglia, intenzionati a cercare opportunità fuori da un sistema economico – quello italiano, ma il discorso è anche europeo – senza grosse prospettive.
Se per questi ‘nuovi emigrati’ le mete ‘classiche’, come Stati Uniti o Canada, appaiono un po’ in ribasso, in fortissima ascesa è invece l’Australia, come spiega Stefano Pagliari, fondatore di ‘InAustralia’, une delle realtà più giovani del settore. “In poche settimane – spiega all’Adnkronos – abbiamo raccolto più di mille ‘seguaci’ su Facebook e si moltiplicano le richieste di informazioni e contatti anche perché colpisce il fatto che sia un paese sempre ai primi posti per qualità della vita e sviluppo economico”.
“Ma in molti casi – osserva – emerge una conoscenza dell’Australia approssimativa e, ancora peggio, una bassissima conoscenza dell’inglese, che è la vera chiave per avere successo in questo tipo di esperienza”.
La disponibilità del ‘sistema Australia’ è forte, anche ai ‘cervelli’ italiani, come ha confermato l’ambasciatore a Roma, David Ritchie, nel recente incontro avuto nella sua residenza con operatori, ricercatori e studenti. D’altronde, ha ricordato, al momento ci sono “oltre 180 accordi di cooperazione in atto tra università italiane e australiane”.
Come confermano anche le esperienze di altre strutture del genere, come ‘GoStudy’ o la ‘Bridge Blue’, per affrontare al meglio una realtà ‘lontana’ – in tutti i sensi – come l’Australia è opportuno appoggiarsi a struttura in grado di fornire i consigli e i contatti giusti.
“Il nostro progetto – spiega Simona Magnarelli, partner di ‘InAustralia’ – nasce proprio dalla esperienza sul campo, dalla constatazione di quanti giovani, contando solo sulla loro laurea italiana, affrontino questa ‘avventura’ senza la dovuta preparazione, linguistica e non. L’Australia è un paese che puo’ offrire moltissimo, ma richiede un lavoro da fare a priori, altrimenti si rischia di ‘sedersi’ sui risultati raggiunti nell’entusiasmo dei primi mesi”.
Come spiegano i fondatori di ‘InAustralia’, i ragazzi italiani che approdano a Sydney o Melbourne grazie ai ‘Working Holiday Visa’, i visti di studio e lavoro stipulati con 19 paesi, riescono nella gran parte a inserirsi nel circuito dei lavori legati all’ospitalità – principalmente ristoranti – “dove un cameriere anche con poca esperienza riesce a portare a casa l’equivalente di 2mila euro al mese“, spiega Pagliari. Il successo di questi visti è inarrestabile: negli ultimi anni il numero è andato quasi raddoppiandosi ogni dodici mesi.
Ma quello che dovrebbe essere un punto di partenza – con in vista l’agognato Permanent Visa (impresa che riesce solo a 500 italiani ogni anno) – per molti finisce con l’essere un approdo, senza il necessario salto di qualità “che invece – osserva la Magnarelli – compiono altri studenti, più dotati sul fronte linguistico o comunque più agguerriti, come cinesi o indiani. Così i dodici mesi del visto (peraltro prolungabili a 24 se si lavora almeno 88 giorni come manodopera non specializzata in miniera, nel settore edile o raccogliendo frutta nei campi) passano in fretta e si perde l’occasione di costruirsi un futuro in Australia”.
E qui entrano in campo le agenzia di consulenza che, forti dei loro contatti (nel caso di ‘InAustralia’ anche con Ice e Camere di Commercio), cercano di comprendere le possibilità concrete e di fornire ai giovani prospettive reali di integrazione. I costi di base – a partire da quelli dei visti – non sono stratosferici e le possibilità di compensare con piccoli lavori le spese (soprattutto quelle di alloggio, piuttosto elevate) sono concrete.
Ma, è il consiglio dei fondatori di ‘InAustralia’, “bisogna essere pronti a impegnarsi a fondo: le università australiane sono costose ma offrono una qualità al top (non a caso è straniero il 40% degli studenti). È una spesa per investimento formativo che, al pari di quella per il riconoscimento della laurea, è impegnativa. Ma che nel lungo termine premia, soprattutto in un paese come l’Australia”. (Adnkronos)