Autismo, una scoperta italiana. “L’effetto della terapia sarà misurabile”
Per i non addetti ai lavori autismo è sinonimo di buco nero, patologia incomprensibile per eccellenza. Anni di studi hanno associato il disturbo che impedisce di relazionarsi con l’esterno alle cause più svariate, fino a dire che la colpa è dei genitori, di quella “madre frigorifero” che il figlio l’ha amato poco o male. Oggi la teoria psicologica è stata quasi del tutto accantonata e la scienza concorda sul fatto che l’autismo sia una malattia neurologica. Ma i dubbi e le divergenze sulle strategie di intervento sono ancora molti.
Una ricerca italiana appena pubblicata sul “Journal of Autism and Developmental Disorders” mostra che sarà possibile misurare gli effetti delle terapie riabilitative esaminando le connessioni della sostanza bianca del cervello e verificando di volta in volta quale terapia sia più efficace. Alla scoperta si è arrivati attraverso la risonanza magnetica con una tecnica d’avanguardia, la DTI (Diffusion Tensor Imaging), che permette di visualizzare le connessioni tra le aree funzionali cerebrali e di osservare le modificazioni che avvengono a livello di fibre neuronali nel corso di ogni singola terapia.
La ricerca di Francesca Benassi del Centro studi in Neuroriabilitazione CNAPP e Leonardo Emberti Gialloreti dell’Università di Roma Tor Vergata è partita infatti dal presupposto, già dimostrato, che nell’autismo ad essere danneggiate non sono tanto le singole aree del cervello, bensì i legami tra queste. Ed è necessario osservare queste alterazioni per correggere il disturbo, lentamente, con terapie che possono durare anche tutta la vita.
Gli autori della ricerca spiegano che nel prossimo futuro potrebbe diventare possibile monitorare e misurare l’efficacia degli interventi riabilitativi osservando le modificazioni nella struttura delle connessioni fra aree cerebrali. Si parla di miglioramenti, non ancora di guarigione. Nessuna falsa speranza, dunque: la strada è lunga e ancora tutta da sperimentare, ma potrebbe essere quella giusta.
“Per anni – spiega la Benassi – molti sono intervenuti, e alcuni ancora continuano a farlo, su pazienti autistici con terapie psicologiche, facendo danni enormi. Il nostro approccio è radicalmente diverso ed ha già prodotto i primi, incoraggianti risultati”.
“Per 12 anni – spiega Emberti Gialloreti, del Dipartimento di sanità pubblica e biologia cellulare – abbiamo seguito un ragazzo autistico con gravi problemi di adattamento all’ambiente ed anomalie della percezione uditiva e visiva. Il paziente, oggi diciottenne, che all’inizio non riusciva a stare in un luogo dove ci fosse anche solo una voce o un rumore, oggi è in grado di stare in classe con i compagni e di comunicare e sviluppare la sua autonomia”.
Monitorando le modificazioni delle connessioni cerebrali prodotte dalle varie terapie, i ricercatori hanno anche seguito persone autistiche cosiddette “a basso funzionamento”, che con il tempo hanno ricominciato a comunicare, a parlare, a relazionarsi con gli altri. Piccole conquiste che per una famiglia hanno un valore immenso e che risarciscono dal senso di colpa che spesso gli stessi genitori sono stati costretti a sopportare, convinti di essere corresponsabili della patologia del figlio. “Se inserito nel contesto sbagliato – continua il ricercatore – la persona con autismo sicuramente peggiora. Ma gli effetti negativi si producono su una situazione che a monte è già patologica. E’ una malattia che ha origine genetica, anzi multigenica, perché non esiste un singolo ‘gene’ dell’autismo”.
Il disturbo colpisce prevalentemente i maschi (il rapporto con le femmine è di quattro a uno) e questo è solo uno dei tanti aspetti ancora oggetto di studio. Altro elemento misterioso, e per certi versi affascinante, è la genialità, che interessa una persona con autismo su dieci: c’è chi ha capacità mnemoniche impressionanti, chi elabora i dati come un computer e chi calcola i numeri primi fino a 20 cifre. In questo caso, però, una spiegazione, se pur parziale, c’è: “Gli autistici – spiega Emberti Gialloreti – nelle primissime fasi dello sviluppo tendono ad avere un cervello più grande, perché in loro le connessioni tra aree cerebrali sono appunto fuori controllo. Poi, come accade a tutti noi, il cervello cerca di riassestarsi da solo e pota le connessioni in eccesso. Solo che, nel caso dell’autistico, ne taglia troppe. Questa è probabilmente una delle cause del disturbo”. Il surplus di connessioni si trasforma quindi in deficit, ma questo passaggio talvolta lascia delle tracce dietro di sé, dei legami “speciali” tra aree cerebrali, che possono portare appunto alla genialità.
Più in generale, le persone con autismo tendono a strutturare comportamenti stereotipati. Per questo, per molti anni si sono utilizzati metodi educativi che cercavano di fare adattare la persona all’ambiente attraverso la ripetizione automatizzata delle loro azioni. Il team di Cnapp e Tor Vergata adotta invece la strategia opposta, intervenendo sui legami cerebrali alterati e cercando di far fare al paziente ciò che gli riesce più difficile, cioè allenarsi a compiere azioni volontarie, intenzionali e non automatiche. E’ questo che, probabilmente, modifica le connessioni cerebrali. Come ricorda Emberti Gialloreti, non bisogna parlare di autismo ma di “autismi”, perché ogni cervello che soffre del disturbo è caratterizzato da connessioni proprie, che portano a manifestazioni patologiche diverse. Uno, nessuno e centomila casi, dunque: ciascuno, questa è la sfida e la speranza, destinato a incontrare la propria terapia.