Autotutela: ok, se manca giudicato e non è sopraggiunta decadenza
Con la sentenza n. 4372 del 23 febbraio, la Cassazione, nell’interpretare la disposizione contenuta nell’articolo 43, comma 4, del Dpr 600/1973, ha ritenuto legittimo il potere di autotutela esercitato dall’Amministrazione finanziaria entro i termini di decadenza per l’azione accertativa e in mancanza di un giudicato sostanziale formatosi in materia.
I fatti di causa
Un contribuente impugna, innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Cagliari, un avviso di accertamento (relativo al recupero di imposte dirette anno 1989), sia perché ritenuto emesso in violazione dell’articolo 43 del Dpr 600/1973 – trattandosi di atto sostitutivo di altro avviso di accertamento già impugnato e in relazione al quale era stata dichiarata cessata la materia del contendere – sia per ragioni attinenti al merito della pretesa tributaria.
Il ricorso veniva rigettato come pure il successivo appello proposto dal contribuente.
In particolare, la Commissione tributaria regionale, nel confermare la sentenza di primo grado anche nel merito, riteneva che l’ufficio aveva il potere, esercitando la facoltà di agire in autotutela, di emettere un nuovo atto in sostituzione di quello affetto da nullità.
Il contribuente, a questo punto, ricorre per cassazione e deduce violazione dell’articolo 43 del Dpr 600/1973 nella considerazione che – trattandosi di avviso di accertamento emesso in sostituzione di un altro già impugnato – sarebbe mancato, nella specie, il presupposto, costituito dalla sopraggiunta conoscenza di altri elementi, per integrare o modificare il precedente atto.
Per la Corte suprema il motivo è infondato.
La decisione della Cassazione
Per i giudici di piazza Cavour, ai fini di una corretta qualificazione giuridica della fattispecie, è necessaria una preliminare verifica del rapporto fra l’atto originario e quello successivamente emesso, verifica “…da effettuarsi sulla base della loro effettiva connotazione, vale a dire prescindendo dal nomen iuris utilizzato dalla parte, in quanto anche gli atti amministrativi, cui vanno generalmente condotti quelli impositivi, vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo all’effettiva volontà dell’amministrazione ed al potere concretamente esercitato (Cons. St., 15 ottobre 2003, n. 6316)”.
In sostanza, la Cassazione chiarisce la differenza tra il comma 4 dell’articolo 43 del Dpr 600/1973 – secondo cui “Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte” – e l’articolo 2-quater del Dl 564/1994 (che ha sostituito l’articolo 68 del Dpr 287/1992) che statuisce “Con decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati” (al riguardo, si rinvia al Dm 11 febbraio 1997, n. 37).
Nel caso di specie, la Corte suprema conferma la decisione di appello che ha correttamente qualificato l’atto impugnato non come accertamento integrativo (articolo 43) ma come legittimo esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria (articolo 2-quater).
Infatti, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale vigente, la Cassazione ricorda che “…il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l’avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento, il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto ed il contenuto del primitivo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dell’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche in tema di impugnazione”.
Di contro, l’atto di autotutela “…assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che è illegittimo, ed al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto e può condurre alla mera eliminazione dal inondo giuridico, del precedente o alla sua eliminazione ed alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato (Cass., 22 febbraio 2002, n. 2531; V. anche Cass., 7 luglio 2009, n. 15874)”.
In altre parole, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a emanare avvisi di accertamento a integrazione o modificazione di atti impositivi precedentemente emanati a seguito della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi o fatti che debbono essere all’uopo espressamente indicati (Cassazione, sentenza 14377/2007), mentre il potere di autotutela tributaria ha come autonomo presupposto temporale una delle due circostanze: la mancata formazione di un giudicato o la mancata scadenza del termine decadenziale fissato per l’accertamento (Cassazione, 7335/2010 e 2531/2002).
Pertanto, secondo i giudici di legittimità, sulla scorta dei principi testè enunciati, è da ritenersi corretto l’assunto della Commissione tributaria regionale laddove ha affermato che l’ufficio ha legittimamente esercitato il potere di autotutela nel momento in cui ha rinnovato un atto impositivo affetto da nullità – annullando l’atto invalido ed emettendo un nuovo atto contenente i requisiti previsti per la sua validità – soprattutto se si considera che la nullità del primo atto era stata determinata dalla mancanza dell’indicazione di tutte le aliquote applicate per la determinazione dell’Irpef.
Se così non fosse, continua ancora la Cassazione, ossia se si ammettesse la natura integrativa del secondo provvedimento, si perverrebbe al paradosso di attribuire efficacia sanante alla motivazione integrativa di un atto già perfezionato, e ciò in netta violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/1973, che, com’è noto, vieta all’ufficio finanziario di differire a un momento successivo rispetto all’emanazione dell’atto impositivo l’esplicitazione delle ragioni della pretesa impositiva.
Da ultimo, la correttezza dei principi enunciati è confermata dall’esito del giudizio conseguente all’impugnazione del primo atto impositivo, conclusosi con declaratoria della cessazione della materia del contendere.
Con riferimento al giudizio tributario, è oramai palesemente affermato – in linea col dato letterale dell’articolo 46 del Dlgs 546/1996 – il principio secondo cui “…l’annullamento in via di autotutela di un atto, da parte dell’Amministrazione finanziaria, successivamente alla sua impugnazione, determini la sopravvenienza di carenza di interesse, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass., 2 luglio 2008, n. 18054; Cass., 13 gennaio 2006, n. 634; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2305)”.
Tuttavia, la sentenza che dichiara la cessazione della materia del contendere – improntata a chiari intenti deflattivi, anche in considerazione dell’automatico criterio di regolamentazione delle spese processuali – non è idonea “…ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi tale efficacia di giudicato al solo aspetto del venire meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio (Cass., 25 maggio 2007, n. 12310; Cass., 3 marzo 2006, n. 4714)”, costituendo, invece, la stessa “…un’ovvia conseguenza della caducazione del primo provvedimento, determinata proprio dall’esercizio del potere di autotutela…”.
Considerazioni finali
Ne consegue che, in presenza di un giudicato sostanziale (non realizzabile per la sentenza che dichiara la cessata materia del contendere, in cui manca una decisione sul merito del rapporto tributario), agli Organi competenti è fatto divieto di procedere d’ufficio in via di autotutela, pena la configurazione di una ipotetica responsabilità di natura contabile.
Viceversa, tale facoltà è sempre ammessa, fermo restando il rispetto dei termini per l’accertamento, in pendenza di giudizio, pur in assenza di una specifica iniziativa da parte del soggetto passivo d’imposta.