Bar e trattorie adesso sfidano lo Stato: la battaglia silenziosa dei buoni pasto
Quella dei buoni pasto è una guerra silenziosa. Si combatte ogni giorno nei bar e nelle tavole fredde delle grandi città italiane. Ad animarla sono, da una parte, i piccoli esercenti di bar, pizzerie e mini-trattorie, dall’altra l’amministrazione dello Stato o le grandi aziende come l’Eni. In mezzo ci sono 2,2 milioni di lavoratori, il «popolo dei buoni pasto», 800 mila dei quali sono dipendenti pubblici e il resto privati. I buontemponi sostengono che il vero dualismo del mercato del lavoro sia proprio questo, i lavoratori che possono usufruire della mensa aziendale «contrapposti» ai loro colleghi che invece sono costretti a mangiare panini cinque giorni su sette. I primi sono considerati dei privilegiati che fanno un po’ di fila con il vassoio in mano ma poi si siedono a tavola e consumano a prezzi aziendali un primo, un secondo e magari anche la frutta. I secondi invece sono costretti a sciamare in tutta fretta verso bar e tavole fredde per accaparrarsi i pochi posti a sedere e le pietanze migliori. Alla fine del pasto pagano con un buono esentasse che quasi sempre ha l’importo facciale di 5 euro ma è attorno al valore reale di quei 5 euro che infuria la battaglia.
Un mercato da 2,5 miliardi
I buoni pasto sono di tradizione anglosassone, sono stati introdotti in Italia nel 1976 e da allora hanno conosciuto un crescente successo. Secondo i dati dell’ultimo studio Nomisma chi pranza fuori casa utilizza per il 24% bar e snack bar, per il 22% ristoranti, trattorie e pizzerie, per il 15,2% mense aziendali e il 12% si porta il cibo da casa. Così il mercato dei buoni pasto vale 2,5 miliardi di euro e per controllarlo si azzuffano una decina di società, diverse delle quali a capitale straniero (come la francese Edenred, leader di mercato al 43% con il marchio Ticket Restaurant). Per ottenere i contratti più interessanti, quelli che con un colpo solo portano migliaia di clienti, le società che stanno dietro Day, Passlunch o Ristomat sono disposte a battersi fino all’ultimo centesimo ma la loro organizzazione, l’Anseb, ora ha detto basta e assieme alla Fipe, che rappresenta gli esercenti, si è rivolta all’Authority dei contratti pubblici. Nell’attesa il banco di prova della ribellione è un maxi-contratto Eni (4 mila dipendenti per un ammontare di 8 milioni di euro) che dovrebbe essere aggiudicato nei prossimi mesi e che si presenta particolarmente appetibile, visto che la società petrolifera concede ai propri dipendenti un ricco bonus di 10 euro. I negoziatori del gruppo del cane a sei zampe vorrebbero procedere, come fanno gli altri enti pubblici, alla gara al massimo ribasso per risparmiare il più possibile ma le organizzazioni di categoria si sono messe di traverso. E come primo risultato hanno spuntato un incontro con i vertici dell’Eni che si dovrebbe tenere nella prima decade di maggio. «Se anche l’Eni, che non ha problemi di bilancio, sceglie la strada del massimo ribasso per il mercato è devastante» dice Franco Tumino, presidente di Anseb.
L’esempio francese
Il perché della devastazione si spiega così: le gare al ribasso si chiudono con un sconto che oscilla tra il 16 e il 20% e qualcuno alla fine lo deve pagare. Il datore di lavoro fornisce ai propri dipendenti un buono pasto da 5 euro, l’impiegato va nel bar o in pizzeria e consuma per 5 euro ma quando l’esercente va a riscuotere quel buono se lo trova decurtato almeno del 10%. In sostanza pur di avere clienti e non rimanere fuori dal giro lavora sotto costo e in più deve attendere mesi prima di riscuotere i soldi che ha anticipato.
Così dunque non si può andare avanti a lungo e cova la ribellione anche perché nella vicina Francia non succede niente di ciò e al massimo l’esercente paga una commissione del 3%. Già nel 2007 ci fu una protesta collettiva, un «No ticket day» che portò gli esercenti a non accettare per un giorno buoni pasto in pagamento e qualcosa del genere sta maturando anche oggi. Le prime avvisaglie si registrano in provincia ma anche nelle grandi città la misura è colma.
È evidente che in tempo di crisi per un bar o una piccola trattoria contare ogni giorno su un numero di panini o coperti costante è un fattore-chiave di programmazione aziendale e quindi è assai difficile che qualcuno voglia uscire dal giro dei buoni pasto ma quel 10% in meno è una mannaia. E del resto nelle zone a maggiore concentrazione di uffici del centro di Milano già si assiste a un fenomeno di questo tipo: i bar tengono aperto quasi esclusivamente in funzione della pausa pranzo degli impiegati e così alle 15 del venerdì pomeriggio già si preparano a chiudere, per riaprire solo il lunedì successivo. Gli impiegati con il buono pasto sono diventati il loro core business. Ma i rappresentanti della Fipe non hanno nessuna intenzione di lasciare le come stanno e chiamano alla lotta anche i lavoratori dipendenti. «Cgil-Cisl e Uil dovrebbero stare dalla nostra parte – dice il presidente della Fipe, Lino Stoppani -. In fondo hanno contrattato un buono di 5 euro e invece i loro datori di lavoro, che hanno già risparmiato non attrezzando la mensa, ora vogliono spendere ancora meno ma così fanno correre a tutti grandi rischi».
Le voci riferiscono infatti che le trattative al massimo ribasso nei buoni pasto come nell’edilizia si prestano a manovre oscure. Documenti o fatti concreti non ne esistono ma si vocifera che certe società che prendono contratti con sconti incredibili lo possono fare perché non si interessano al business in quanto tale ma solo a riciclare denaro. Poi sta succedendo che i buoni pasto sono diventati dei mini-assegni, dovrebbero essere usati solo per comprare cibo da consumare immediatamente invece finiscono nelle casse dei supermercati in cambio della merce più varia (dalle calze ai quaderni per scuola). I supermercati non vedono di buon occhio la cosa ma anche loro per non perdere clienti li accettano.
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Ma si può rimproverare lo Stato di voler risparmiare? Le leggi della concorrenza possono essere sospese perché solo qualche bar rischia di chiudere? La pubblica amministrazione è obbligata a negoziare gli appalti attraverso la Consip utilizzando il metodo della gara mentre i privati possono procedere per selezione. Lo Stato ovviamente ha tutto l'interesse a spendere meno e di conseguenza la battaglia dei baristi ribelli si presenta in salita. Anche per questo Fipe e Anseb confidano molto in un pronunciamento dell'Authority degli appalti e in una successiva segnalazione al Parlamento. L'ipotesi avanzata dall'Anseb suggerisce che le gare vengano assegnate non al massimo ribasso ma con la formula «dell'offerta economicamente più vantaggiosa», che possa comprendere oltre al prezzo anche la qualità del servizio e quindi non costringa gli esercenti a risparmiare sulle materie prime pur di guadagnare. Del resto, dicono alla Fipe, fino al 2007 già il settore era governato così in virtù di un decreto emanato dall'allora ministro Claudio Scajola, poi la materia è andata al Tar che ha rovesciato l'impostazione e ha dato il via a quella che gli esercenti giudicano la più «imperfetta» delle liberalizzazioni.