Camorra e business di prodotti alimentari Il 10% della spesa è tassa a favore dei clan
NAPOLI
(12 maggio) – Tore ’e Criscienzo, capintesta dell’onorata società
napoletana, era macellaio e grossista di carni. Pascalone ’e Nola era
l’uomo che faceva i prezzi al mercato ortofrutticolo di corso Novara.
Carmine Alfieri, come De Crescenzo, si occupava di bestiame destinato
alla macellazione. Valentino Gionta, invece, che sulla carta era un
pescivendolo ambulante, controllava il mercato ittico tra Torre
Annunziata e Torre del Greco. Antonio Bardellino e Mario Iovine,
gestivano l’import-export di pesce surgelato attraverso società
brasiliane. La famiglia Nuvoletta, attraverso i suoi frutteti, riusciva
a raggiungere la cifra record – per la fine degli anni Ottanta – di
1200 miliardi di lire ogni anno.
E poi ci sono i pomodori e le conserve, gli ortaggi destinati al
mercato europeo e del nord Italia: tutto in mano alla camorra,
attraverso il ferreo controllo della filiera agroalimentare, dalla
produzione al trasporto. Dall’Ottocento a oggi, sulla tavola campana
comandano i clan di periferia, i «viddani» della provincia di Napoli e
i Casalesi. E nelle loro casse finisce almeno il 10 per cento della
spesa delle famiglie destinata all’alimentazione. Parliamo di cifre
annue seconde soltanto agli introiti garantiti dal traffico di
stupefacenti.
Degli oltre 130 miliardi di euro che costituiscono il fatturato del
2009 delle maggiori organizzazioni criminali italiane, 7 e mezzo
derivano dall’agricoltura. Almeno il 30 per cento di questa cifra
arricchisce la camorra. E non basta. Altri 500 milioni di euro sono il
provento della vendita del pane prodotto nei 2500 forni abusivi; almeno
200 milioni derivano dal controllo dei due maggiori mercati ittici,
Pozzuoli e Mugnano. Il controllo dei macelli illegali frutta 75 milioni
di euro, nell’ordine delle centinaia di milioni il fatturato della
distribuzione di carni (bovine e suine) nelle catene dei discount. Non
sfugge il latte: 0,5 centesimi di maggiorazione per ogni busta
prodotta, sovrapprezzo imposto dal monopolio del trasporto su gomma.
Sulla frutta e gli ortaggi incide per almeno 10 centesimi al chilo.
Le indagini fatte sul mercato ortofrutticolo di Fondi, il Mof, secondo in Europa dopo quello di Parigi
e forte di un fatturato di 800 milioni di euro all’anno, consentono di
quantificare, sia pure in maniera induttiva, il contributo
inconsapevole che ogni consumatore dà all’economia criminale. I conti
sono stati fatti anche dalle associazioni di categoria che stanno
appoggiando la nascita di punti vendita a «chilometro zero».
La lunga catena che va dal produttore al consumatore fa lievitare i
costi anche del 500 per cento (è il caso delle mele): il 20 per cento
va al produttore, il 40 ai commercianti, l’altro 40 agli intermediari,
tra i quali i trasportatori. Le indagini della Dia di Roma prima, della
Squadra mobile di Caserta poi, hanno portato alla luce – oltre alle
attività strettamente criminali del clan dei Casalesi e dei soci
siciliani – anche le cause del maggior costo al consumo: il regime di
monopolio del trasporto, del package, della distribuzione nelle catene
dei supermercati. E se queste sono maggiorazioni che pesano
esclusivamente sul bilancio delle famiglie e sul libero mercato, c’è da
considerare che dal comparto agroalimentare la camorra lucra due volte.
Per esempio, attraverso le frodi e le truffe-carosello, strumento che
consente l’evasione dell’Iva. È una frode quella che interessa il
mercato della mozzarella di bufala campana Dop. Accanto alle
eccellenze, sul mercato finisce anche un prodotto fatto con latte
proveniente dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Bolivia o dall’India:
latte in polvere o cagliata congelata utilizzato spesso per mozzarella
destinata alle catene di discount. Il consumatore paga un prodotto di
scarso valore commerciale, il ricavato si traduce in guadagno quasi
totale. Per la camorra, naturalmente.