Camorra, il carcere non ferma i boss. Grasso: «Dalle celle ordini ai clan»
Napoli e la Campania maglia nera sul fronte dei sequestri e delle confische dei beni dei camorristi. Siamo ultimi in Italia a combattere il nervo debole di ogni mafia: il denaro.
E ormai gli arresti non bastano più. I boss dal carcere continuano a impartire ordini ai loro clan.
A sostenerlo, da Sorrento – dove ieri si è celebrata l’ultima giornata degli stati generali della giustizia – è Piero Grasso. Il procuratore nazionale antimafia è intervenuto alla tavola rotonda organizzata dal dibattito promosso dai Movimenti-Articolo 3 sulla modernizzazione dei sistemi informatici giudiziari, alla quale avrebbe dovuto prendere parte anche il ministro della Funzione Pubblica. Ma Brunetta, ieri, ha preferito dare forfeit.
La sua assenza non ha certo impedito alla magistratura associata, riunita ai suoi più alti livelli, di svolgere l’analisi che dovrebbe costituire la piattaforma di lancio per l’innovazione di un servizio essenziale – il servizio-Giustizia – che mai come oggi viene sentito come prioritario dai cittadini. Ma torniamo all’intervento di Grasso. Alla denuncia sulla possibilità di impartire ancora ordini dalle carceri e alle tabelle che il capo della Dna ha illustrato. Ecco l’elenco (aggiornato al novembre scorso, e quindi non esaustivo di quella che è invece la situazione a oggi) delle principali regioni italiane che per via giudiziaria sono pervenute alla confisca dei beni appartenenti a soggetti mafiosi: al primo posto c’è la Sicilia, con 7915 provvedimenti; al secondo la Calabria (2743), al terzo addirittura il Lazio (2596), quindi la Puglia (2225) e soltanto quarta è la Campania, con il suo dato, 1969.
Una cifra che oggettivamente fa riflettere, se si pensa ai risultati più che eloquenti fatti registrare dalle iniziative giudiziarie portate a termine negli ultimi anni dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Arresti, sequestri di beni, richieste di rinvio a giudizio accolte nella stragrande maggioranza dei casi dai gup, che hanno di fatto decapitato i vertici delle più temibili famiglie camorristiche non solo a Napoli, ma soprattutto in Terra di Lavoro. «Attenzione a non far confusione – ammonisce lo stesso numero uno della Direzione nazionale antimafia, Grasso – Questi sono numeri che si fermano al novembre dello scorso anno, che abbiamo dalle rilevazioni dei sistemi digitalizzati: in realtà dal novembre 2010 a oggi moltissimo è stato fatto grazie ai sequestri e alle confische inflitte al clan dei Casalesi». Resta tuttavia l’interrogativo di come – sebbene il dato resti cristallizzato al novembre 2010 – regioni come la Calabria e soprattutto il Lazio siano riuscite a sopravanzare il lavoro incessante della magistratura inquirente campana. Per la cronaca, sempre dai dati forniti ieri a Sorrento dal capo della Dna, a completare il quadro dei «beni definitivamente confiscati» alle organizzazioni criminali in Italia ci sono la Lombardia (1512 provvedimenti eseguiti), e il Piemonte (260).
Ma l’allarme di Piero Grasso va oltre. «Le mafie – ha aggiunto – oggi hanno compreso l’importanza di intensificare i loro investimenti illeciti all’estero. In quei paradisi fiscali che spesso sono dietro l’angolo, e non necessariamente oltreoceano. Io ribadisco che riuscire a strappare ai clan le loro ricchezze resta la sola strada per riuscire a incidere nella lotta contro ogni criminalità organizzata, atteso il fatto che uno, dieci, e anche cento arresti di boss e gregari, se non sono accompagnati da provvedimenti che puntino ad intaccarne i patrimoni di illecita provenienza, servono veramente a poco».
Alla tavola rotonda che ieri ha concluso la tre giorni di Sorrento – organizzata dal procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo – hanno preso parte anche il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, il responsabile Giustizia del Pd, Andrea Orlando, e i magistrati Pierluigi Picardi, Luigi Marini, Franco Ippolito.