Cassazione , sez. II civile, sentenza 02.12.2005 n° 26232
In tema di contratto preliminare di vendita, il promittente acquirente che abbia versato la caparra confirmatoria, dopo aver chiesto che si accerti l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto, non può chiedere che la controparte venga condannata a corrispondergli un importo pari al doppio della caparra, perché ciò presupporrebbe il contestuale esercizio del diritto di recesso da un contratto ancora esistente tra le parti.
Cassazione, sez. II civile, sentenza 02.12.2005 n° 26232
La Corte suprema di Cassazione
Sezione Seconda civile
Sentenza n° 26232/05
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato il 05.05.1986 Vittorino C. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Firenze Maria S. perché fosse dichiarata la risoluzione per inadempimento a lei addebitabile, del contratto preliminare dagli stessi stipulato il 18.12.1985, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni quantificati in L. 40.000.000, oltre interessi.
Assumeva l’attore che l’inadempimento si riferiva alla clausola concordemente aggiunta in data 27.01.1986, con la quale veniva stabilito di rinviare al 28.02.1986 sia la data di immissione nel possesso dell’immobile in favore di Vittorio C., promissario acquirente; sia il termine per l’adempimento da parte della Simon dell’obbligazione assunta, quale promittente venditrice, di effettuare i lavori di risanamento dell’appartamento per i danni verificatisi nel dicembre del 1985 a causa della rottura delle condutture di scarico dell’appartamento sito al piano sovrastante; obbligazione in ordine alla quale la convenuta si era resa inadempiente nonostante la diffida ad adempiere notificatale il 06.03.1986.
Costituitasi, la convenuta contestava l’inadempimento addebitatole eccependo che inadempiente doveva considerarsi l’attore che insisteva nel pretendere l’esecuzione di opere diverse ed estranee all’impegno assunto.
Espletata C.T.U. ed assunte prove testimoniali, il Tribunale, con sentenza 13.08.1999 dichiarava risolto il contratto preliminare per inadempimento della convenuta che veniva condannata al pagamento del doppio della caparra a suo tempo ricevuta, e cioè a L. 40.000.000, oltre interessi legali.
Su impugnazione della Maria S., la Corte di Appello di Firenze, con sentenza 11.06.2001 respingeva l’impugnazione. Afferma la Corte che la promittente venditrice, a seguito della diffida, avrebbe dovuto comunque a quanto pattuito con la clausola aggiuntiva, cioè ad eseguire le opere di risanamento, per eliminare i danni riportati dall’immobile a seguito delle infiltrazioni dal piano superiore; ed ad immettere l’attore nel possesso dell’immobile; dovendo il pagamento della seconda rata di prezzo essere effettuata con la presa in consegna dell’immobile.
La Maria S., viceversa, è rimasta, per la Corte, inadempiente, adducendo che il Vittorio C. pretendeva da lei l’esecuzione di opere diverse da quelle necessarie per l’eliminazione dei danni da infiltrazioni, pretesa non risultante dalla diffida ed il cui accertamento è irrilevante a fronte della inattività della Maria S.
Afferma, inoltre, la Corte, al legittima applicazione dell’art. 1385 II° co. c.c. fatta dal Tribunale, nel condannare la Maria S. al pagamento del doppio della caparra ricevuta, trattandosi del legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda originaria di risoluzione del contratto.
Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la Maria S.
Resiste con controricorso Vittorio C.
La Maria S. ha depositato memoria
Motivi della decisione
Deduce la ricorrente a motivi di impugnazione.
1) La violazione degli artt. 1362, 1363, 1324, 1360 c.c., vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello nell’affermare che la diffida 13.03.1986 inviata alla Maria S. si riferiva solo all’esecuzione di quei lavori previsti nella clausola aggiuntiva, di risanamento del quartiere per i danni provocati dalle infiltrazioni di acque luride dal piano sovrastante; e che da tale diffida non si evinceva la pretesa del Vittorio C. di eseguire opere esorbitanti dall’obbligo assunto, erroneamente, a favore di una clausola formulata in termini generici, senza alcuna specificazione dei lavori necessari e sufficienti allo scopo di risanare il quartiere da quei danni, proceduto ad una interpretazione pedissequamente letterale e parziale della diffida, non tenendo conto delle premesse costituenti parte integrante della stessa dalle quali si evinceva, secondo le conclusioni del C.T. di parte, che le infiltrazioni avevano gravemente danneggiato parte dei solai in legno (in particolare dell’ex cucina), danno escluso poi dal C.T.U., omettendo ogni indagine sulla comune intenzione delle parti ed ogni valutazione del comportamento delle stesse, anche posteriore alla conclusione del contratto; trascurando di interpretare le clausole contrattuali le une per mezzo delle altre.
2) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. e 184 c.p.c. il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per aver la Corte di Appello, nonostante l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. sollevata dalla Maria S. nel 1° grado di giudizio oggetto di specifico motivo di impugnazione di appello, erroneamente omesso di procedere ad una valutazione comparativa del comportamento inadempiente delle parti, non accertando, da un lato, se i lavori di ripristino pretesi dal Vittorino C. fossero eccedenti le necessità di risanamento cui la Maria S. era tenuta e se tale pretese giustificasse il timore della Maria S. che il Vittorio C. si sarebbe astenuto dal pagamento: a) a negare che il Vittorio C. avesse avanzato pretese eccessive (sulla base di una interpretazione scorretta dalla diffida; b) a negare rilievo a tali ulteriori pretese e conseguentemente a ritenere inammissibile la prova sul punto; c) a ritenere, quindi, sufficiente, a respingere l’eccezione di inadempimento, la sola valutazione dell’inadempimento della Maria S.
3) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1455 c.c., nonché il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per aver la Corte di Appello erroneamente omesso ogni valutazione della gravità dell’inadempimento addebitato alla Maria S., nonostante tale valutazione fosse necessaria per il caso della risoluzione ex art. 1454 (diffida ad adempiere); e competesse d’ufficio al giudice
4) La violazione o falsa applicazione degli artt. 1385, 1453, 1454 c.c. il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello erroneamente ritenuto legittimamente liquidato al Vittorio C., a titolo di danno, il doppio della caparra nonostante l’esecuzione dagli oneri probatori relativi all’esistenza ed all’entità del danno sia prevista in caso di esercizio del diritto di recesso e non in caso di risoluzione di diritto del contratto, avvenuta come nella specie con il decorso dei 20 giorni dalla diffida, in un caso, cioè in cui il contratto è già venuto meno ope legis e l’esercizio del diritto di recesso è ormai precluso.
I primi tre motivi di ricorso, strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente. Essi sono infondati.
Corretta è, infatti, la decisione della Corte di Appello che, a fronte di una totale inattività della promettente venditrice, che pur era contrattualmente obbligate ad effettuare lavori di ripristino per rendere abitabile l’appartamento oggetto del preliminare danneggiato dalle infiltrazioni d’acqua (ed all’uopo era stata espressamente diffidata con concessione di un termine ulteriore per adempiere) ha ritenuto di confermare la decisione di palese e totale inadempimento della Maria S., formulata dal primo giudice, considerando irrilevante indagare sulle ulteriori pretese che il Vittorio C. avrebbe avanzato in difformità dei patti assunti.
Accertato, infatti, dalla Corte territoriale che la Maria S. si era astenuta dall’eseguire qualunque lavoro di ripristino e che il Vittorio C. era tenuto al pagamento della seconda rata di prezzo solo alla immissione in possesso dell’appartamento reso abitabile, cioè in un momento successivo all’adempimento dalla promettente venditrice, questa non poteva opporre l’eccezione di inadempimento per giustificare la sua inattività, se non dimostrando l’evidente pericolo di perdere la controprestazione, pericolo che la Corte di Appello ha ritenuto di escludere ribadendo la volontà di adempiere del Vittorio C. espressa con l’intimazione di cui alla diffida ad adempiere dallo stesso inviata alla controparte.
Quanto alla gravità dell’inadempimento imputato alla Maria S., la valutazione della Corte emerge dal rilievo della stessa dato al comportamento di totale inattività della ricorrente, venuta meno all’adempimento di una obbligazione, quella di consegnare l’immobile risanato dalle infiltrazioni, di primaria rilevanza per gli interessi della controparte.
I primi tre motivi di ricorso vanno, conseguentemente, respinti.
E’, viceversa, fondato il quarto motivo di ricorso.
La Corte di Appello, in infatti, nel confermare la condanna della Maria S. al pagamento di favore di Vittorio C. della somma di L. 40.000.000 pari al doppio della caparra da quest’ultimo versata alla stipula del preliminare, ha motivato tale decisione richiamandosi a quel filone giurisprudenziale di questa Corte, che ritiene applicabile il II° comma dell’art. 1385 c.c. e, quindi, esperibile il recesso dal contratto, con l’esercizio dei relativi diritti in ordine alla caparra confirmatoria, anche quando si sia agito per la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno.
Si ritiene, infatti, da detta giurisprudenza (V. sent. 7644/94), che in caso di versamento della caparra confirmatoria, chi ha agito per l’adempimento o per la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento danni, può far valere, anche in appello, i diritti di cui al II° comma dell’art. 1385 c.c., perché la modificazione della linea difensiva costituisce solo esercizio di una perdurante facoltà rispetto alla domanda di adempimento, ed una istanza più ridotta rispetto alla domanda di risoluzione, senza introduzione di domanda nuova ex art. 345 c.p.c.
Ora, se nel caso di proposizione della domanda di adempimento sostenere il perdurare della facoltà di recesso dal contratto, facoltà cui sono collegati i diritti relativi alla caparra confirmatoria, è del tutto conforme ai principi di diritto, considerato che il recesso non è altro che una forma di scioglimento dal contratto e si è, quindi, in linea con il disposto del II° comma dell’art. 1453 c.c.; nel caso di proposizione della domanda di risoluzione e risarcimento danni, per le quali dispone espressamente il III° comma dell’art. 1385 c.c. con il prescrivere, quanto al danno, la necessità che esso sia provato secondo le regole generali, limitarsi a ritenere ammissibile l’esercizio dei diritti relativi alla caparra confirmatoria, di cui all’art. 1385 II° comma c.c. (perché si tratterebbe di far valere una istanza di danni più ridotta, rispetto a quella maggiore che si suppone esercitata con le azioni di cui all’art. 1385 III° comma c.c.), è argomento che può ritenersi utile a negare, con riferimento alla richiesta di danni, al proposizione di una domanda nuova; ma non spiega come possa, giuridicamente ritenersi ammissibile l’esercizio dei diritti connessi alla facoltà di recesso, recesso che la già avvenuta risoluzione di diritto del contratto, reclude.
Nel caso di specie, infatti, con la proposizione della domanda di risoluzione, il Vittorio C. espressamente richiamando gli effetti della diffida ad adempiere e, quindi, l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto alla scadenza dei venti giorni concessi per adempiere e già decorsi al momento della proposta domanda di risoluzione, non poteva più esercitare il recesso e, quindi, far valere, con riferimento alla caparra confirmatoria, i diritti di cui all’art. 1385 II° comma c.c.
Né la natura dichiarativa della sentenza che accerta la già avvenuta risoluzione di diritto del contratto, consente di affermare (dal momento che non c’è stata contestazione sulla validità ed efficacia della diffida) che il diritto di recesso può ancora essere esercitato fino al passaggio in giudicato della sentenza di risoluzione, come sostiene parte della dottrina e giurisprudenza. Tale argomento, semmai, potrebbe essere valido relativamente alla sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c.; ma non per le sentenze dichiarative, come quella oggetto del presente giudizio.
Nella fattispecie di cui è causa, pertanto, il Vittorio C. non potendo esercitare il diritto di recesso non può pretendere ai sensi dell’art. 1385 II° comma c.c. il doppio della caparra conferita.
Egli ha, tuttavia, diritto ad ottenere dalla parte inadempiente la restituzione della somma conferita di L. 20.000.000, somma che non si configura più come liquidazione convenzionale anticipata del danno; ma come somma indebitamente trattenuta dalla parte inadempiente, una volta venuta meno, con la risoluzione del contratto, la causa giustificativa della dazione, in piena aderenza con gli effetti restitutori propri della risoluzione contrattuale (V. sent. 8630/98, 3828/00).
In accoglimento del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va, perciò, cassata con rinvio, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze che provvederà ad un nuovo esame della controversia, in relazione al motivo accolto, in applicazione dei principi esposti.
PQM
La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso;
accoglie il quarto motivo;
cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze.
Così deciso in Roma il 22.09.2004.
Depositato in cancelleria il 02.12.2005.