COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO ANTE CODIFICAZIONE: CRITICA AL TENTATIVO DI “SALVATAGGIO”
di Carlo Sangermani Ritella
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le diverse “letture” della clausola – 3. I sospetti di nullità della clausola con riferimento agli artt. 1325 e 1346 c.c. – 4. Gli interventi della Corte Regolatrice ed il tentativo di parte della giurisprudenza di merito di salvare la CMS – 5. Conclusioni
1. La validità del patto contenente la commissione nel periodo antecedente alla sua codificazione costituisce ancora materia di contenzioso di notevole rilevanza, visto che sono innumerevoli le fattispecie concrete che necessitano di una decisione sul punto (tra primo grado, appello e procedure in fase di mediazione).
Qui si intende muovere critica al tentativo di convalidare la cms con una distorsione (ad avviso di chi scrive) dell’approdo degli ermellini sulla natura dell’onere (sentenza del Tribunale di Lucca oltre citata).
2. Prima della promulgazione della legge n. 2/09 che ha convertito, con modifiche, il DL 185/08, non esisteva una definizione normativa della commissione di massimo scoperto (non potendo assurgere ad elemento normativo la descrizione operata dalla Banca d’Italia).
Dalla ricognizione della giurisprudenza sulla natura della commissione ante codifica non emergono punti fermi.
Una prima interpretazione vuole la funzione della CMS quale strumento di remunerazione, nel contratto di apertura di credito o comunque nella concessione del credito sotto qualsivoglia forma, per l’impegno assunto dalla banca di mantenere a disposizione del cliente una liquidità pari a quella degli importi affidati e quindi dell’impossibilità (da parte della banca stessa) di gestire fruttuosamente la predetta somma.
La commissione dovrebbe allora essere conteggiata sull’importo affidato e non utilizzato dal cliente (dal che la denominazione corretta in “commissione di affidamento”).
Altra ipotesi formulata è quella di compensare la banca, attraverso la CMS, del rischio connesso al crescente utilizzo di fondi da parte del correntista.
L’aumento dell’esposizione debitoria farebbe accrescere la eventualità di un mancato recupero del credito.
Una terza possibilità è quella di considerare la CMS un mero elemento accessorio degli interessi.
In questo senso depone il fatto che normalmente il conteggio avviene in proporzione al picco dell’esposizione debitoria nel trimestre.
3. Il patto contenente la CMS è sospettato di nullità sotto una duplice prospettiva.
La carenza causale (art. 1325 c.c.) e l’indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto (art. 1346 c.c.).
Sulla scorta della predetta classificazione di accessorio degli interessi parte della giurisprudenza ne ha riscontrato la nullità poiché privo di causa, dato che le utilizzazioni del cliente sono già compensate dagli interessi passivi.
In tal senso si sono espressi tra gli altri il Tribunale Milano (04/07/02), il Tribunale di Lecce (11/03/05), il Tribunale di Monza (07/04/06), il Tribunale di Patti (sentenza n.d. 155/06) ed il Tribunale di Salerno (n. 1412 del 12/06/09).
Altri giudici di merito (Tribunale di Teramo n. 84/10 e Tribunale di Mondovì n. 70/09) affermano che la dicitura “commissione di massimo scoperto” può essere riferita soltanto allo sconfinamento rispetto al credito concesso e che, per consentire l’applicazione della CMS sulle somme fruite entro il limite del fido, la clausola dovrebbe non solo contenere una apposita previsione in tal senso, ma anche precisare la giustificazione causale dello spostamento patrimoniale.
In caso di sconfinamento un compenso sarebbe quindi dovuto alla banca, oltre agli interessi pattuiti, perché necessarie ulteriori valutazioni sulla solvibilità del correntista ed in ragione dell’esposizione della banca alla revocatoria fallimentare quanto ai versamenti fatti dal debitore per rientrare nei limiti del fido (dette rimesse sono da considerarsi solutorie e non ripristinatorie della provvista).
Questo secondo orientamento è di notevole interesse, quando si consideri che la commissione proporzionata all’utilizzo entro l’affidato deve essere tacciata di carenza causale perché la banca non affronta nessun rischio non preventivato, dato che ha già ritenuto il soggetto affidabile entro il limite dell’accordato.
Neppure è sostenibile che il rischio di mancato soddisfo aumenti con l’accrescere dell’esposizione, perché se la banca ha concesso una certa quota di credito ha delibato favorevolmente le capacità economiche del cliente di “muoversi” all’interno del confine stabilito.
A ciò si aggiunga che, qualora la banca percepisca il cliente come divenuto scarsamente affidabile, ha un potere di recedere estremamente ampio (è sufficiente leggere la regolamentazione del diritto di recesso contenuta da ogni contratto bancario).
Questa giurisprudenza, che ha il merito di analizzare a fondo l’aspetto causale della questione, è forse criticabile nella mancata considerazione del fatto che nella prassi lo sconfinamento del cliente è già bilanciato da un notevole incremento degli interessi passivi.
Aumento di remunerazione che andrà di per sé a compensare gli “incomodi” nei quali incorre l’istituto di credito per l’esposizione del correntista oltre l’accordato, con il pericolo di far cadere nuovamente la CMS nel vuoto causale dedotto da chi ne denunzia una sostanziale duplicazione della “voce” interessi.
Non meno intenso è stato il “fuoco di sbarramento” della giurisprudenza contro la clausola foriera della CMS per violazione dell’art. 1346 c.c.
La dizione “scoperto”, dal punto di vista lessicale, autorizzerebbe unicamente una interpretazione nel senso di un conteggio relazionato allo sconfinamento e mai all’utilizzo all’interno del fido (ancora Trib. Teramo e Mondovì citate).
Senza contare che nella concretezza dei rapporti banca – correntisti si registrano diverse procedure di addebito.
Senza pretesa di completezza la commissione è stata applicata:
1) sullo sconfinamento massimo dell’importo affidato in un dato periodo;
2) sul massimo utilizzo (ma nell’ambito degli importi affidati) in un dato periodo;
3) sul massimo utilizzo se il saldo del cliente è a debito per il protrarsi di un determinato periodo minimo.
La semplice indicazione della percentuale di calcolo priva di ulteriori specificazioni soggiace quindi alla nullità per indeterminatezza ed indeterminabilità della clausola ex art. 1346 c.c.
Anche i Tribunali che ne sostengono la legittimità, infatti, pretendono che i criteri per il calcolo siano determinati in modo puntuale (per tutti Tribunale Piacenza 309/11).
4. La Corte di Cassazione, con le sentenze n. 11772/02 e n. 870/06, ha identificato la funzione della commissione nella remunerazione della banca per la messa a disposizione di fondi non utilizzati (commissione di affidamento).
Ipotesi confortata in seguito dalla codificazione del 2009 che ne ha definito i termini proprio nel senso di una commissione di affidamento.
Seguendo fedelmente l’insegnamento della Suprema Corte, la CMS andrebbe espunta da tutte le contabilità antecedenti l’entrata in vigore della legge 2/09, dato che l’onere è sempre contabilizzato, anche se con modalità diverse, sulla quota di credito fruita.
Sorprende quell’orientamento che, dopo avere affermato che la CMS trova la sua causa nella messa a disposizione dei fondi come precisato dalla Cassazione (commissione di affidamento), ne giustifica il conteggio in proporzione rispetto alla quota di credito utilizzato.
Così il Tribunale di Lucca con il decisum del 10/05/13:
L’apertura di credito non è, quindi, un contratto a titolo gratuito ma è un contratto oneroso e la commissione di massimo scoperto è il corrispettivo di questo contratto; è il Corrispettivo della messa a disposizione del cliente di una somma di danaro, corrispettivo dovuto – come sopra si è detto – per il sol fatto della messa a disposizione a prescindere dall’utilizzo o meno della somma. Se il cliente utilizzerà la somma accreditatagli, allora pagherà anche i frutti civili (gli interessi), ma se non utilizzerà l’affidamento sarà comunque tenuto a pagare il corrispettivo della messa a disposizione del danaro.
Questo in linea di principio. Può accadere, ed è accaduto in passato, che la CMS non sia determinata avendo come parametro l’affidato (o accreditato, e cioè la somma messa a disposizione del cliente) ma l’utilizzato (e cioè la somma concretamente usata dal cliente nel periodo di riferimento, in genere il trimestre). Da ciò, però, non può desumersi la nullità della CMS per mancanza di causa.
Niente impediva alle parti, infatti, prima delle modifiche normative del 2009 e del 2011, di determinare il corrispettivo dell’apertura di credito avendo riferimento all’uno o all’altro parametro, sicché appare agevole ricavarne la conclusione che le modalità pattizie di determinazione del corrispettivo, non incidendo sulla causa della CMS, non ne determinano la nullità per difetto della funzione economico-sociale.
La tesi è passibile di critica.
Se la ragion d’essere è quella indicata dalla Corte, infatti, il conteggio della commissione sul massimo saldo dare è abnorme, poiché l’utilizzo dell’affidato è compensato con il pagamento degli interessi, mentre la banca è depauperata dalla quota di credito non goduta (per la quale resta senza compenso) ma tenuta a disposizione.
La causa individuata dalla Corte Regolatrice autorizza esclusivamente il conteggio della CMS sulla frazione di credito concesso e non utilizzato.
Calcolarla sul massimo saldo dare e quindi in misura direttamente proporzionale al godimento del fido è un non senso (partendo dalla qualificazione di “commissione di affidamento”), perché maggiore è la fruizione del credito e minore è la parte di disponibilità non utilizzata e quindi il quantum per cui la banca non percepisce remunerazione.
Sostenere che la commissione trova la sua causa nel fatto che la banca deve mantenere fermi dei fondi in prospettiva dell’utilizzo del cliente e applicarla in proporzione alla parte di credito utilizzata porta alla seguente contraddizione in termini:
in caso di prelievo zero da parte del correntista la banca non ottiene nulla.
Non sono dovuti gli interessi e neppure la commissione.
Nel momento di massima espressione della funzione della commissione (il cliente non ha riscosso somme non retribuendo la banca con gli interessi, ma questa ha dovuto tenere a disposizione la liquidità), l’importo della commissione è pari a zero.
Si tratta di una inammissibile estrinsecazione del patto in senso contrario alla sua giustificazione causale.
5. Gli scarni interventi della Corte di Cassazione, nonostante il ruolo di nomofilachia proprio degli ermellini, sono sempre stati estremamente sintetici ed inevitabilmente condizionati dalle peculiarità delle questioni sottoposte al Collegio.
La motivazione della sentenza del 2002 è la seguente:
Ed infatti o tale commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi – come potrebbe inferirsi anche dall’esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato – che solitamente è trimestrale – e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi passivi – ed è il caso di specie – o ha una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo – ed è questa la tesi della ricorrente – come sembra preferibile ritenere anche alla luce della circolare della Banca d’Italia del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c. d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto.
Ora, ribadito che in tale contesto la contabilizzazione direttamente proporzionale alla massima esposizione è insensata, non può che sottolinearsi il riverbero delle considerazioni degli ermellini sulla questione della determinabilità dell’oggetto ex art. 1346 c.c.
Quando è la stessa Corte Regolatrice ad ipotizzare due interpretazioni della clausola che hanno natura contrastante (il carattere accessorio degli interessi nulla ha a che vedere con la funzione di commissione di affidamento) non può che concludersi che la semplice dizione, nei contratti bancari, di “commissione di massimo scoperto” non mette in condizione di comprendere l’oggetto del contratto.
Senza considerare che il vocabolo “scoperto” insinua (come sopra riferito) il dubbio che si tratti di un onere che può essere applicato solo in caso di assenza di fido o sconfinamento rispetto ad esso.
Non rimane che concludere per l’indeterminatezza ed indeterminabilità della clausola.
Ogni sforzo di interpretazione si risolve nell’attribuire alle parti un pensiero che alle stesse è estraneo, con una non corretta lettura esegetica della volontà contrattuale.
Sul punto si ricorda la sentenza 541/08 della Corte di Appello di Firenze in materia di interpretazione della clausola compromissoria in bilico tra arbitrato rituale ed irrituale.
Per risolvere l’irrisolvibile enigma di formule che non depongono né a favore dell’una né dell’altra forma di arbitrato il giudice, secondo la Corte toscana, opera
“….. una ricostruzione per via presuntiva della volontà contrattuale, nello sforzo di ricavare ex aliunde, cioè da elementi esterni al processo gnoseologico e volitivo delle parti, il significato di una espressione letterale che quel significato di per sé non mostra di avere. Il risultato, nel singolo caso, è quello di una fictio iuris, o meglio, di una fictio iudicis, del giudice il quale deliberatamente interpreta e ricostruisce la volontà delle parti non in base al loro, ma in base al proprio pensiero”.
La Corte di Appello propende allora per la nullità della clausola ex art. 1346 c.c.
Lo stesso può dirsi per la commissione di massimo scoperto, un patto il cui significato dovrebbe essere racchiuso in quelle tre parole che poi gli interpreti analizzano dal punto di vista causale per ricostruirne il contenuto dell’oggetto.
Perché la giustificazione causale non può che incidere sulla individuazione dell’oggetto stesso.
Ma le diverse interpretazioni non fanno che confermare l’assoluta indeterminatezza dell’oggetto portato dal patto.
Come si è cercato di dimostrare il concetto di commissione di affidamento non può condurre alla applicazione di un peso in proporzione dell’utilizzato così come la valorizzazione del vocabolo “scoperto” produrrà il conteggio solo sull’extrafido.
Ne discende in modo inequivocabile che la sola menzione dell’applicazione alla contabilità di una “commissione di massimo scoperto” non può sfuggire alla sanzione di cui all’art. 1346 c.c.
Né varrebbe una chiarificazione derivante dalla concreta applicazione della cms, perché la determinatezza o determinabilità dell’oggetto deve sussistere al momento della conclusione del patto, non potendo desumersi l’oggetto da successivi comportamenti dei contraenti (C 14684/03).
NOTA DEL REDATTORE ED INTEGRAZIONE
Articolo del 2013 pubblicato dalla rivista giuridica online Persona e Danno a cura di Paolo Cendon.
Presenta, sia pure datato, profili di attualità poiché i problemi di giustificazione causale della commissione non sono del tutto sopiti ma soprattutto riguardo al modo di conformare la commissione nella clausola che la riguarda.
Si segnala la pronunzia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12965/16 secondo la quale, in buona sostanza e sia pure con stringata motivazione, le commissioni ante lege 2/09 potevano avere causa sia come oneri sull’accordato sia come oneri sull’utilizzo. In tale prospettiva, comunque non limpidissima, la clausola dovrebbe (per essere valida) specificare se la commissione sarebbe stata applicata sull’accordato (commissione di affidamento) oppure sull’utilizzo (ad integrare il costo degli interessi). In difetto si deve propendere per l’indeterminatezza dell’oggetto ex art. 1346 c.c. (esempio: “cms 0,25% trimestrale” non spiega a quale modello è da ricondursi il peso).