Compensi fuori busta ed onere probatorio
Gli elementi probatori, ancorchè presuntivi, debbono possedere il
carattere di gravità, univocità e rilevanza per addivenire a livello di
prova.
Tale principio è stato ribadito dalla Sezione Tributaria
della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 28 ottobre 2009, n.
22769; nel caso di specie, il datore di lavoro doveva provare che
determinate somme di denaro erano state versate ai lavoratori come
“compensi fuori busta”.
La norma di riferimento è l’art. 2697
c.c., il quale stabilisce che chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Si
tratta, infatti, di una norma di carattere generale che trova
sicuramente applicazione anche nella materia tributaria.
In
particolare, nelle azioni di rimborso, l’onere della prova del
pagamento di imposte che si pretende indebito ricade senz’altro sul
contribuente e riguarda innanzitutto il fatto storico della
duplicazione del pagamento, di cui si chiede la restituzione.
Ovviamente, tale prova può essere più o meno difficoltosa con
riferimento alle modalità attraverso le quali i versamenti vengono
effettuati, ma non può sostenersi che di essa si può fare a meno
(perché sarebbe assolutamente irrilevante), poiché in questo modo le
affermazioni di chi formula una pretesa avrebbero un automatico valore
di prova.
I poteri della Commissione Tributaria
Nel
procedimento tributario, in cui ampi sono i poteri di iniziativa e di
impulso delle Commissioni giudicanti, le stesse hanno ampi poteri
istruttori e di indagine ad esse testualmente conferiti, dapprima, dal
D.P.R. n. 636 del 1972, artt. 35 e 36, comma 3, nonchè dal D.P.R. 3
novembre 1981, n. 739, art. 23, e, successivamente, dal D. Lgs. n. 546
del 1992, art. 7. Il comma 3 di quest’ultimo articolo, che prevedeva “è
sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti
il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della
controversia”, è stato abrogato dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3 bis, comma 5, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 248.
Ma
la novella legislativa non ha inciso sulla connotazione propria della
giurisdizione tributaria. Alle Commissioni tributarie, infatti, è
attribuito un potere di indagine che possono esercitare qualora dagli
atti non risultino sufficienti elementi di giudizio e sempre che non
ritengano di avere acquisito sufficienti elementi di giudizio, il tutto
nei limiti dei fatti dedotti dalle parti (art. 7 cit.).
Al
riguardo, nel processo tributario, l’esercizio dei poteri di
acquisizione d’ufficio, attribuiti, dall’art. 7 citato, alla
Commissioni Tributarie, costituisce, come ritiene la presente sentenza,
una facoltà discrezionale del Giudice, fermo restando che tali poteri
istruttori – anche alla luce della riforma dell’art. 111 Cost. – non
hanno la funzione di sopperire al mancato assolvimento dell’onere
probatorio delle parti, le quali, fra l’altro, non possono dolersi
dell’uso che di essi il Giudice abbia fatto, quanto quella di garantire
la parte che si trova nell’impossibilità di esibire documenti
risolutivi in possesso dell’altra parte (Cass. 8439/2004; Cass.
7129/2002).
Le Commissioni Tributarie, nell’espletamento delle
loro funzioni giurisdizionali, hanno la facoltà di compiere gli atti di
istruzione previsti dal D.P.R. n. 636 del 1972, art. 35 al fine di
conoscere i fatti rilevanti per la decisione, ma godono al riguardo di
ampia discrezionalità, in quanto nessuna norma stabilisce l’obbligo di
compiere determinate attività ma, legittimamente, una Commissione
Tributaria, in tema di prova, pone a base di una sua decisione quella
prova logica e indiretta che è la presunzione, di larga applicazione in
materia tributaria (Cass. civ., Sez. V, 13 settembre 2006, n. 19593;
Cass. civ. Sez. V, 17 novembre 2006, n. 24464).
Caso in esame
In
sintesi, nel caso in esame, la sentenza si uniforma al principio
generale indicato nell’art. 7, comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, il
quale assegna alle Commissioni Tributarie la “facoltà” di ordinare alle
parti “il deposito” di documenti ritenuti necessari per la decisione.
Ora, proprio perché si tratta di una “facoltà”, c’è da ritenere che il
suo esercizio ha natura discrezionale e non è sindacabile in sede di
legittimità (questo principio è stato già affermato nella sent. n.
16171/2000 con riferimento ai poteri istruttori previsti in generale
dall’art 7 citato). In ogni caso, l’art. 7, D.Lgs. n. 546 del 1992, che
attribuisce alle Commissioni Tributarie ampi poteri istruttori di
ufficio, costituisce una norma che non può essere utilizzata ed
invocata quale rimedio per le lacune probatorie delle parti.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Sentenza 28 ottobre 2009, n. 22769
Svolgimento del processo
C.S.
impugnava l’avviso di accertamento ai fini dell’IRPEF per il periodo
d’imposta 1991 emesso, in relazione a compensi “fuori busta”
corrispostigli quell’anno come lavoratore dipendente dalla spa Italcave
di ****, a seguito della verifica eseguita presso quest’ultima dalla
Guardia di finanza di Como.
La Commissione tributaria provinciale di Imperia accoglieva il ricorso.
Rilevava
che, evidenziatosi, in sede di verifica presso la società un rilevante
ammanco, erano state raccolte le dichiarazioni prima dell’impiegata
R.I. e quindi, a distanza di mesi, dei responsabile amministrativo
della spa Italcave, dalle quali era emerso che parte delle some
mancanti erano state corrisposte, come compensi fuori busta, ai
dipendenti di vari cantieri, fra cui quello di ****. I documenti
extracontabili esibiti, posti a fondamento dell’accertamento, di
univoca provenienza da persone addette e preposte all’amministrazione
della società indagata, venivano ritenuti, infatti, “costituire una
semplice presunzione che, in mancanza di riscontri più diretti facenti
capo al contribuente, non poteva assumere il valore di prova
dell’effettiva riscossione di compensi fuori busta e quindi
dell’evasione contestata”.
La Commissione tributaria
regionale di Genova, adita in appello dall’ufficio finanziario,
rigettava il gravame. Riteneva infatti fosse assente qualsiasi prova,
non essendo stato prodotto “il processo verbale, con eventuali allegati
oltre alle dichiarazioni degli interrogati… anche unitamente ad uno
stralcio o una fotocopia, sia pure incompleta, del brogliaccio”, che
avrebbero consentito al contribuente una più adeguata presa di
conoscenza, ed eventualmente una difesa di merito, e quindi ad esso
giudice d’appello “la possibilità di esame di un materiale probatorio
più o meno esaustivo sul quale esprimere il proprio convincimento”.
L’ufficio
finanziario si era invece limitato “ad una labiale asserzione dei
fatti, mai allegando supporti documentali”. Attese altresì le doglianze
generiche dell’appellante circa il “negato rilievo probatorio della
documentazione extra-contabile, mai messa peraltro a disposizione” del
giudice nè in primo grado che in appello, “gli elementi, probatoria sia
pur presuntivi, vengono a mancare di quel carattere di gravità,
univocità e rilevanza che debbono contraddistinguerli per addivenire a
livello di prova”.
Avverso la decisione propongono
ricorso per cassazione i Ministero delle finanze e l’Agenzia delle
entrate sulla base di un motivo.
Il contribuente non ha svolto attività difensiva nella presente sede.
All’udienza
del 7 dicembre 2007 veniva disposta la riunione al ricorso,
originariamente rubricato al r.g.n. 7635 del 2001, e già fissato in
Camera di consiglio – a seguito della quale era disposta ex art. 291
cod. proc. civ., la rinnovazione della notifica, ritualmente eseguita
agli eredi del contribuente, deceduto nel **** -, dell’atto relativo
alla rinnovazione della notifica, che per un disguido, al momento del
deposito, era stato iscritto a ruolo con il numero di r.g. 23017 del
2006, come se si trattasse di un nuovo ricorso.
Motivi della decisione
I
ricorsi, del tutto identici, essendo l’iscrizione a ruolo del “secondo”
frutto di errore, vanno riuniti per essere definiti con un’unica
decisione.
Con l’unico motivo l’amministrazione
ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n.
546 del 1992, art. 7, commi 3 e 4, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973,
art. 39, in relazione all’art. 360 cod. proc.
civ., n. 3″,
censura la sentenza sostenendo, per un verso, che il D.P.R. n. 600 del
1973, artt. 38 e 39, conferirebbero valore di prova, in relazione alla
rettifica del reddito, anche a contabilità informale ed occulta, sicchè
il rinvenimento di una seconda contabilità informale costituirebbe
indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza di imponibili non
registrati nella contabilità ufficiale, valido per sorreggere
l’accertamento induttivo ai fini delle imposte dirette e dell’IVA;
per
altro verso, per avere la CTR omesso di chiedere, ai sensi del D.Lgs.
n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, il deposito dei documenti emergenti
dagli allegati all’avviso di accertamento, ivi compreso il verbale di
sommarie informazioni a carico di R.I. che richiamava tutta una serie
di documenti comprovanti la fondatezza dell’accertamento.
Il ricorso è infondato.
Quanto
all’asserita violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del
1973, art. 39, invero, il giudice d’appello non ha affatto negato
l’utilizzabilità degli atti indicati (processo verbale con eventuali
allegati, dichiarazioni degli interrogati R. e dell’amministratore
della società, fotocopia sia pure incompleta del brogliaccio) – dai
quali emergerebbe la “seconda contabilità informale” -, atti che
secondo l’amministrazione conterrebbero la prova della maggiore pretesa
avanzata con l’atto impositivo – da parte del giudice d’appello, al
fine dichiarato di formare, in base agli stessi, il proprio
convincimento. Ma si è, piuttosto, limitato a riscontrare l’omessa
produzione di tale seconda contabilità informale, definendo di
conseguenza del tatto privi di qualsiasi supporto probatorio gli
elementi indiziari posti dall’ufficio a fondamento della sua pretesa.
La
mancata esibizione di idonea documentazione è stata inequivocabilmente
avvalorata dall’amministrazione con la censura concernente la
violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 3 e 4, ovverosia
per il mancato esercizio di poteri istruttori ufficiosi da parte del
giudice di secondo grado.
In proposito questa Corte ha
più volte affermato il principio secondo cui, a fronte del mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato il
giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in
forza dei poteri istruttori attribuitigli dal D.Lgs. n. 546 del 1992,
art. 7, perchè tali poteri sono meramente integrativi (e non
esonerativi)
dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare
attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel
processo, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di
esibire documenti in possesso dell’altra parte (Cass. n. 2847 del 2006,
n. 10267 del 2005, n. 4040 e n. 8439 del 2004, ex pluribus).
Alla
stregua di tale principio è corretta la sentenza impugnata, la quale ha
ritenuto che l’appello andava rigettato in assenza di qualsiasi prova,
attese altresì le doglianze generiche in ordine al negato rilievo
probatorio della documentazione extra contabile, mai messa peraltro a
disposizione della commissione di primo e secondo grado, di talchè gli
elementi probatori, ancorchè presuntivi, “venivano a mancare di quel
carattere di gravità, univocità e rilevanza che debbono
contraddistinguerli per addivenire a livello di prova”.
In base a queste considerazioni il ricorso va rigettato.
Non occorre provvedere in merito alle spese di giudizio, atteso che la parte vittoriosa non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2009.