Contendersi il minore può costare la perdita dello stesso alle famiglie naturali Cassazione civile , sez. I, sentenza 31.03.2010 n° 7961
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 31 marzo 2010, n. 7961
Svolgimento del processo
1.11
tribunale per i minorenni di Torino, con decreto 5 giugno 2007
dichiarava lo stato di adattabilità della minore V.A., nata il ****
dall’unione fra V.Y. e L.D.. La minore era stata inizialmente
riconosciuta solo dalla madre e il tribunale per i minorenni ne aveva
disposto, stante la carenza della situazione familiare, il ricovero
insieme alla madre presso una struttura comunitaria. Il ricovero veniva
attuato e, dopo risultati iniziali abbastanza positivi, interrottasi la
relazione fra i genitori della minore, la madre abbandonava la comunità
e tornava dai propri genitori. Il tribunale confermava il ricovero
della minore presso la comunità, con la madre o da sola, per il periodo
di un anno e rigettava la domanda di affidamento avanzata dal padre. Il
tribunale disponeva l’apertura del procedimento per la dichiarazione
dello stato di adottabilità sospendendo la potestà genitoriale, mentre
i nonni paterni ed il padre insistevano per l’affidamento della
bambina, in una situazione di conflitto fra i genitori della minore ed
i rispettivi gruppi familiari. Disposta CTU, questa confermava
sostanzialmente l’impossibilità per la minore di essere proficuamente
affidata alla madre o ai nonni materni, che non si mostravano a ciò
disponibili a differenza di quelli paterni. Veniva disposto un
approfondimento della situazione dal quale emergeva la possibilità di
un affidamento della minore ai nonni paterni, per cui il tribunale
sospendeva la procedura e affidava la bambina ai nonni paterni,
disponendo in ordine agli incontri con la madre e i nonni materni.
Sorgevano peraltro problemi in ordine a tali incontri, per cui la nonna
paterna ne chiedeva l’eliminazione, entrando anche in contrasto con i
servizi sociali. Le modalità degli incontri venivano quindi modificati,
dal tribunale, mentre gli accertamenti disposti sulle condizioni
psicoevolutive della bambina non davano esito positivo. Il tribunale
dichiarava allora, con decreto del giugno 2007, lo stato di
adottabilità della minore e ne disponeva il collocamento prima presso
una struttura comunitaria e poi presso una famiglia affidataria.
Avverso il decreto proponevano opposizione i nonni paterni della
minore, la madre, il padre, nonchè i nonni materni, contestando
l’esistenza dello stato di abbandono. Il tribunale, con sentenza del
maggio 2008, rigettava l’opposizione e confermava l’inserimento presso
una famiglia affidataria, sospendendo i rapporti con i parenti.
Rilevava in particolare, che il padre della minore, L.D., si era
rivelato incapace di assumere il ruolo paterno, restando il rapporto
con la figlia marginale e poco significativo. Escludeva che i nonni
paterni potessero essere affidatari della minore, avendo avuto il
relativo esperimento esito negativo, secondo gli accertamenti del CTU,
anche in relazione alla loro incapacità di mantenere adeguati rapporti
con la madre della bambina, i nonni materni e gli stessi servizi
sociali. La sentenza veniva impugnata dai genitori, dai nonni paterni e
materni. La Corte d’appello di Torino, con sentenza depositata il 18
febbraio 2009, rigettava l’impugnazione. Avverso la sentenza i nonni
paterni, P.P. e L.R., ricorrono con ricorso notificato il 28 marzo
2009. Ricorre con separato ricorso anche il padre della minore L.D.. Il
curatore speciale della minore resiste con controricorso notificato il
6 maggio 2009. P.P. e L.R. hanno anche depositato memoria.
Motivi della decisione
1. I ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
2.1.
Con il primo motivo del ricorso del padre della minore L.D. si denuncia
la violazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8. Si deduce al
riguardo che tali articoli privilegiano il diritto del minore di
crescere nella sua famiglia naturale, costituendo l’adozione “extrema
ratio”, potendosi ricorrere ad essa solo al fine di evitargli un
pregiudizio grave al corretto sviluppo psicofisico ed ove non sia
possibile un recupero delle capacità genitoriali, attraverso un idoneo
percorso di sostegno. La sentenza impugnata, secondo il ricorrente, non
avrebbe compiuto l’accertamento di una simile situazione, ma si sarebbe
soffermata soprattutto sull’inidoneità a svolgere un ruolo genitoriale
da parte della nonna paterna, trascurando la sua figura di padre della
minore e le sue capacità genitoriali anche nel loro aspetto potenziale
a seguito d’interventi di sostegno.
Si formula il
seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se – alla luce della natura
derogatoria della L. n. 184 del 1983, art. 8, rispetto all’art. 1 della
medesima – in assenza della rigorosa valutazione di tutti gli indici di
giudizio indicati dalla giurisprudenza di legittimità, possa
dichiararsi sussistente lo stato di abbandono materiale e morale”.
Con
il secondo motivo si denunciano la violazione della L. n. 184 del 1983,
art. 17, nonchè vizi motivazionali. Si deduce in proposito che nella
sentenza mancherebbero i riscontri oggettivi circa l’inidoneità del
ricorrente a svolgere il ruolo paterno, provenendo gli elementi
probatori dai quali ciò è stato desunto essenzialmente da dichiarazioni
dei genitori del ricorrente, parti in causa a loro volta, da un
fraintendimento di dichiarazioni di esso ricorrente, da una CTU, le cui
affermazioni si sottopongono a critica, riguardante essenzialmente
l’idoneità dei nonni paterni a svolgere il ruolo di affidatari.
Il
ricorso è inammissibile, risolvendosi il primo motivo in una
sostanziale censura del merito della decisione adottata ed essendo
comunque assorbente la considerazione che esso non è accompagnato da un
idoneo quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., non rispondendo
quello formulato alla regola enunciata da questa Corte secondo la quale
il quesito di diritto deve essere formulato con specifico riferimento
alla fattispecie concreta, mettendo in evidenza la “ratio decidendi”
desumibile dalla decisione impugnata, le ragioni della sua dedotta
erroneità e la diversa regola di diritto che si deduca doversi adottare
(ex multis Cass. sez. un. 11 marzo 2008, n. 6420; Cass. 17 luglio 2008,
n. 19769; 30 settembre 2008, n. 24339). Il secondo motivo, a sua volta,
formulato con riferimento a violazione di legge ed a vizi
motivazionali, oltre a investire a sua volta elementi valutativi, non è
accompagnato da alcun quesito in relazione alla dedotta violazione di
legge nè, per quanto riguarda la censura riferentesi all’art. 360
c.p.c., n. 5, dalla sintesi richiesta dall’art. 366 bis c.p.c., (Cass.
sez. un. 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 18 luglio 2007, n. 16002; 7
aprile 2008, n.8897).
3.1. Passando all’esame del
ricorso proposto da P.P. e L.R., essi con il primo motivo denunciano la
violazione o falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8.
Deducono al riguardo che la Corte d’appello, pur avendo interpretato
esattamente tali norme – che privilegiano la crescita del minore nella
propria famiglia di origine, presso i propri genitori ovvero figure
parenterali sostitutive, considerando l’adozione “extrema ratio”, quale
rimedio al quale è possibile ricorrere solo nel caso in cui il minore
versi in stato di abbandono da parte dei genitori e dei parenti tenuti
a provvedervi, cioè risulti privo, da parte di costoro, delle cure
minime, materiali e psicologiche, necessarie per assicurarne il
corretto sviluppo psicofisico – ne avrebbe fatto, nel caso di specie,
erronea applicazione. Ciò tenuto conto che lo stato di abbandono non va
esaminato in astratto, bensì in base a riscontri obbiettivi circa
l’inidoneità delle figure parentali ad assicurare detto corretto
sviluppo, che non emergerebbe dalla sentenza impugnata, la quale si
baserebbe su mere valutazioni soggettive e indiziarie. I ricorrenti
deducono che la Corte ha fondato il proprio convincimento circa la loro
inidoneità a prendersi adeguata cura della nipote essenzialmente sulla
base dei difficili rapporti fra di essi ed il nucleo familiare materno,
conflittualità che nulla ha a che vedere con lo stato di abbandono
della minore che giustifica la dichiarazione dello stato di
adottabilità. Ciò a prescindere dall’ingiustificata negazione della
genuinità delle dichiarazioni delle parti circa il venir meno di tale
conflittualità, ricollegata a fatti ormai lontani nel tempo e
verosimilmente venuta meno anche per la cessazione della relazione fra
i genitori della minore. Si deduce che, comunque, in proposito, stante
la rilevanza delle circostanze sopravvenute nel corso del giudizio ai
fini della verifica dell’attualità dello “stato di abbandono”, la Corte
non avrebbe potuto dichiararlo senza idonee verifiche al riguardo. La
Corte, inoltre, non avrebbe dato adeguata valenza a tutto ciò che essi
ricorrenti avevano fatto per la nipote sin dalla nascita, prima
supportando la madre per quanto possibile e poi chiedendone
l’affidamento e prendendosene cura con affetto e premura; visitandola
costantemente quando era ospitata in comunità.
La sentenza, infatti, baserebbe la sua motivazione non su riscontri obbiettivi, ma su mere valutazioni soggettive.
Si
formula in proposito il seguente quesito di diritto: “Dica la Corte,
considerata la natura di extrema ratio dello strumento adozionale come
previsto dalla L. n. 184 del 1983; considerata altresì la necessità di
escludere la sussistenza dello stato di abbandono di cui all’art. 8, di
detta legge, laddove la famiglia di origine, tenuto conto delle
circostanze modificative intervenute durante il giudizio di opposizione
e/o di appello, appaia in grado di offrire un minimo di cure materiali
e morali tali da garantire un adeguato sviluppo psicofisico del minore,
se lo stato di abbandono di un minore possa e quindi debba escludersi
laddove emerga dagli atti di causa la seria disponibilità degli
ascendenti (nella fattispecie nonni paterni) a occuparsene e la loro
attuale capacità di offrire al minore quel minimo di cure materiali e
morali sufficienti a garantirne l’adeguato sviluppo psicofisico,
eventualmente facendo ricorso ai sostegni psicologici e sociali
opportuni nell’interesse del minore; dica in particolare se lo stato di
abbandono di un minore da parte degli ascendenti possa essere
dichiarato sulla base di un mero giudizio sui rapporti conflittuali tra
i nuclei familiari dei due genitori esistenti in epoca anteriore
all’instaurazione della causa. Dica, inoltre, la Corte se sussiste il
vizio di violazione della L. n. 184, artt. 1 e 8, laddove l’adozione
venga disposta pur in presenza di una famiglia di origine problematica
ma senza che tuttavia il minore corra un rischio di danno morale o
materiale”.
Il motivo è inammissibile, non rapportandosi alla effettiva “ratio decidendi” della sentenza.
Va
infatti considerato che la “situazione di abbandono” che rende
necessaria la dichiarazione di adottabilità, come ha sostanzialmente
ritenuto la sentenza impugnata, non consiste soltanto nel rifiuto
intenzionale e irrevocabile dell’adempimento dei doveri genitoriali e
parentali, ma anche in una situazione di fatto obiettiva che a
prescindere dagli intendimenti e desideri dei genitori e parenti,
impedisca o ponga in pericolo il sano sviluppo psicofisico del minore,
dovendosi prescindere da giudizi di responsabilità e colpevolezza a
carico di genitori e parenti e dovendosi invece guardare unicamente
alla situazione oggettiva e all’interesse esclusivo del minore.
In
tale ottica la sentenza impugnata ha accertato, in conformità a quanto
già fatto nel grado precedente – con giudizio e valutazioni che
rientrano nella competenza esclusiva del giudice del merito,
incensurabili in questa sede in quanto adeguatamente motivate – la
“perdurante incapacità degli appellanti a farsi carico dell’accudimento
della piccola A.” (pag. 13).
Con particolare riferimento
agli odierni ricorrenti, nonni paterni, la sentenza ha ritenuto – sulla
base di una lunga elencazione (pagg. 13 – 18) di fatti obbiettivi che
hanno contraddistinto negli anni i rapporti familiari sin dal sorgere
della relazione fra i genitori della minore – una non superata e non
superabile situazione di conflittualità con la madre della bambina e la
sua famiglia, che secondo le emergenze istruttorie si è rivelata
dannosa per il suo sereno sviluppo psichico. La sentenza ha
specificamente sottolineato (pagg. 17 – 18) l’emersione, nel corso
dell’esperito affidamento della minore, a causa di tale intollerabile
conflittualità, di una persistente volontà della nonna P.P.
d’interrompere ogni rapporto non solo fra la bambina e i nonni materni,
ma anche nei confronti della madre, considerando l’affidamento quale un
rapporto analogo all’adozione, in un’errata visione del proprio compito
e della relazione che la minore avrebbe dovuto conservare con la madre,
ritenuta dalla nonna oggettivamente non possibile, in relazione alle
profonde diversità fra le rispettive famiglie ed il loro modo di essere
e di vivere.
In relazione a tali emergenze la Corte
d’appello ha accertato, sulla base della CTU esperita, conseguenze
gravemente negative per la minore, in un contesto valutativo del suo
interesse – al quale unicamente deve farsi riferimento, essendo esso
prevalente per legge rispetto ai desideri e intendimenti, ancorchè
moralmente apprezzabili, degli altri soggetti coinvolti nella vicenda –
riservato in via esclusiva al giudice di merito. Il quale ha giudicato
(pag. 25) che “l’equilibrio psichico, le esigenze affettive, i bisogni”
della minore, sulla base degli elementi emersi “non troverebbero
risposta adeguata, come i fatti hanno già confermato, nell’affidamento
della bambina ai nonni paterni”. E ciò sulla base anche di una serie di
circostanze che si riportano specificamente (pag. 25 – 27) a
motivazione di detta valutazione conclusiva e di un esame della
situazione psicologica della minore (pagg. 28 e 32) che ha fatto
ritenere alla Corte, come già al tribunale, che l’interesse della
minore ad un sano e sereno sviluppo psicofisico richiedesse la
declaratoria dello stato di adottabilità.
Ne deriva che
il motivo formulato si palesa inammissibile, muovendo da presupposti
opposti a quelli accertati dalla sentenza impugnata e non censurandone
la “ratio decidendi” effettiva.
3.2. Parimenti
inammissibile è il secondo motivo, con il quale si denunciano vizi
motivazionali, nella sostanza censurando le valutazioni di merito della
sentenza impugnata, senza peraltro che il motivo si concluda con la
sintesi richiesta dall’art. 366 bis c.p.c. Cass. sez. un. 1 ottobre
2007, n. 20603; Cass. 18 luglio 2007, n. 16002; 7 aprile 2008, n.8897).
In relazione alla natura ed alle particolarità della causa si ravvisano giusti motivi per compensare le spese.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Riuniti i ricorsi li dichiara inammissibili.
Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2010.
E’ adottabile il minore nella ipotesi in cui
la famiglia di origine, compresi i nonni, ha conflittuali rapporti tra
loro tali da rendere impossibile la cura stessa del bambino.
Questo
è il principio adottato dalla sentenza 31 marzo 2010, n. 7961 della
Suprema Corte con cui i giudici di legittimità hanno dichiarato
inammissibile il ricorso avanzato dai nonni paterni contro il
provvedimento con cui la loro nipotina di quattro anni era stata
dichiarata adottabile.
chiarisce la legislazione in materia di affido familiare, sancendo che
il bene del minore deve venire prima di ogni altra cosa.
La
vicenda oggetto di contestazione risultava essere già abbastanza
complicata sin dall’inizio, in quanto la minore (riconosciuta solamente
dalla mamma) aveva problemi sia psichici che economici, ed era stata
inizialmente affidata alla madre, ricoverata, tra l’altro, in una
struttura di recupero.
La madre abbandonava,
però, la comunità di recupero e anche la figlia; in seguito a ciò,
quindi, gli assistenti sociali affidavano la minore ai nonni paterni,
che, in conflitto sia con la madre che con i nonni materni, non
permettevano loro di vedere la bambina; e nemmeno era possibile
affidare la minore al padre, in quanto disinteressato e “incapace di assumere il ruolo paterno, restando il rapporto con la figlia marginale e poco significativo”.
Da una simile situazione derivava, quindi, il collocamento della minore in una comunità con conseguente dichiarazione di adottabilità.
Secondo quanto ha avuto modo di precisarela Corte nella sentenza in commento, “a
prescindere da giudizi di responsabilità e colpevolezza a carico di
genitori e parenti, ciò che, in questi casi, deve assumere primaria ed
esclusiva rilevanza è l’interesse del minore ad un sano e sereno
sviluppo psicofisico.
Interesse che, valutate la serie
di vicende di cui la minore era stata oggetto, richiedeva, nel caso di
specie, lo stato di adottabilità.
Lo stato di abbandono – continua ancorala Suprema Corte –
si configura non solo con il rifiuto intenzionale e irrevocabile dei
doveri di genitore, ma anche quando le situazioni di fatto, a
prescindere dai desideri dei genitori e parenti, impediscano o pongano
in pericolo il sano sviluppo psicofisico del minore.
In
base a tali considerazioni, pertanto, i giudici hanno ritenuto
sussistente lo stato di adottabilità del minore così come previsto
dalla legge 184 del 4 aprile 1983, modificata con legge 149/2001, per
cui l’obiettivo è quello di assicurare al minore una famiglia che possa
accudirlo nella ipotesi in cui la sua non sia temporaneamente in grado di farlo.
I
giudici di legittimità, quindi, hanno convalidato la sentenza emessa
nel febbraio 2009 dalla Corte di Appello, ribadendo, altresì, che
l’affidamento non va confuso con l’adozione.