Conti correnti: milleproroghe non si applica a ripetizione di indebito oggettivo
Con la sentenza 12 maggio 2011, n. 43 il Tribunale di Verbania
(sezione distaccata di Domodossola) ha disapplicato la novella
legislativa introdotta dal Parlamento (Legge n. 10 del 2011, che ha convertito il d.l. n. 225 del 2010) che ha stabilito “In
ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935
del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa
ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal
giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla
restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto legge”.
Si tratta di una delle prime pronunce, cui ne sono seguite recentemente
altre, che ha affrontato la norma del Milleproroghe disciplinante la
decorrenza del termine di prescrizione in materia di ripetizione di
indebito nei conti correnti bancari. La sentenza interessa
potenzialmente un numero estremamente rilevante di soggetti che nel
corso degli anni hanno pagato alle banche spese e interessi non dovuti e
che hanno intrapreso o intendono iniziare una causa civile per ottenere
quanto illegittimamente addebitato e pagato nei conti correnti.
Il Tribunale (Giudice Dott. Vinicio Cantarini) ha stabilito che la
norma introdotta dal Governo, e convertita dal Parlamento, non è
applicabile alle cause di ripetizione di indebito oggettivo in materia
di c/c bancari, rilevando che in precedenza la Cassazione a S.U. aveva
affermato che il termine prescrizionale, per ottenere la restituzione di
quanto pagato indebitamente pagato alle banche a titolo di anatocismo
interessi ultralegali cms e spese non dovute, incomincia a decorrere
dalla data del pagamento e che questo avviene solo con la chiusura del
conto corrente e non con l’annotazione. Ne consegue, ex art. 2033 c.c.,
che solo al momento della chiusura del conto sorge il diritto per il
correntista di ripetere (cioè di vedersi restituito) ciò che è stato
pagato e, dunque, da questo momento incomincia a decorrere il termine di
dieci anni di cui all’art. 2946 cc.
Da qui l’assoluta irrilevanza giuridica della previsione contenuta nel
Milleproroghe, dato che il presupposto della decorrenza del termine
prescrizionale è rappresentato ovviamente dal pagamento (estintivo del
rapporto) e non dall’annotazione. In altri termini il tenore letterale
della norma formulata dal Governo, che fa riferimento al concetto di
annotazione (che non corrisponde alla costituzione di crediti o di
debiti, ma è semplicemente un modo di rappresentare le modificazioni
oggettive e quantitative che subisce un unico rapporto obbligatorio nel
corso del suo svolgimento), non è in grado di incidere sul contenzioso
in atto, dato che le Sezioni Unite fanno espresso rimando, ai fine del dies a quo
del termine prescrizionale, alla nozione di pagamento (estintivo del
rapporto di c/c), in quanto l’annotazione non ha carattere solutorio e
come tale non è idonea a determinare la decorrenza del termine
prescrizionale. Secondo il Tribunale, invece, volendo attribuire un
significato conforme ai principi civilistici alla stessa “infelice”
formulazione legislativa, la prescrizione indicata va piuttosto riferita
ad altri e diversi diritti nascenti dall’annotazione sul conto –, e
cioè diversi da quelli della ripetizione di un indebito pagamento – come
ad esempio concernenti rettifiche di irregolarità contabili (gli errori
di scritturazione e di calcolo, omissioni e duplicazioni, di cui parla
l’art. 1832 cc), non conosciute e/o non conoscibili dal correntista
nell’invio dell’estratto conto non impugnato nel termine di sei mesi.
Il Tribunale, accogliendo le tesi del legale della correntista, ha
condannato l’istituto di credito a corrispondere quanto domandato
dall’attrice a titolo di ripetizione di indebito, stabilendo altresì che
gli interessi anatocistici andranno eliminati per tutta la durata del
rapporto e dunque anche dopo il 22 aprile 2000 in quanto la
capitalizzazione degli interessi può ritenersi consentita solo per i
contratti stipulati dopo il 22 aprile 2000, secondo quanto concretamente
pattuito per iscritto dalle parti (e sempre che, comunque, vi sia la
stessa periodicità di capitalizzazione per gli interessi debitori e
creditori); per i contratti già in essere alla data del 22 aprile 2000,
come quello esaminato dal Tribunale, l’art. 7 della delibera Cicr, che
prevedeva che le clausole di capitalizzazione trimestrale degli
interessi per i contratti in corso potevano divenire efficaci a partire
dal 1° luglio 2000 a
condizione che venissero adeguate alle regole della delibera stessa
(medesima periodicità e fossero previste per iscritto) ha perso ogni
validità ed efficacia in quanto in seguito alla sentenza n. 425/2000
della Corte Costituzionale è venuto meno l’art. 25 comma 3 del D.Lgs.
342/1999 che era il fondamento legittimante l’art. 7 , per cui esso,
quale atto di normazione secondaria attuativo di una norma non più
esistente perché dichiarata incostituzionale (per l’appunto l’art. 25
comma 3° del D.Lgs. 342/1999), ha perso ogni validità ed efficacia; ed
in ogni caso e cioé quand’anche per ipotesi scolastica della stessa
norma se ne facesse applicazione, non va sottaciuto che a mente del
comma 3° della norma “3. Nel caso in cui le nuove condizioni
contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni
precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela“,
mentre nella specie la banca non ha fatto sottoscrivere la nuova
condizione peggiorativa alla correntista, né appare dubitabile che la
nuova condizione di anatocismo sia peggiorativa, in particolare rispetto
ad una situazione precedente in cui la cliente non era tenuta a
corrispondere alcun interesse sugli interessi passivi, stante la
illegittimità e nullità degli addebiti in punto anatocismo praticati.
Ancora oltre, la sentenza ha stabilito che una volta dichiarata la
nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi,
questa non potrà essere convertita in capitalizzazione annuale o
semestrale né in altra tipologia di capitalizzazione composta (Cass. Sez. Unite n. 24418
del 2 dicembre 2010 e Cass. S.U. 17 luglio 2001, n. 9653), rilevando
molto brevemente che la nullità della capitalizzazione trimestrale degli
interessi, applicata dalla banca nel corso del rapporto, deriva non già
dal tipo di cadenza temporale della capitalizzazione, ma dalla mancanza
delle condizioni di cui all’art. 1283 c.c. (domanda giudiziale,
convenzione posteriore alla loro scadenza e interessi dovuti per almeno
sei mesi), il cui disposto, a differenza di quello della norma
successiva in tema di interessi ultralegali, non è derogabile neppure
per iscritto; infatti l’art. 1284 cc che, come è dato leggere in
rubrica, riguarda solo il saggio degli interessi, cioè l’entità del
tasso e la decorrenza degli interessi legali, non deroga in alcun modo
alla norma di cui all’art. 1283 cc, che è l’unica che stabilisce le
condizioni per la produzione degli interessi sugli interessi e della
quale è certa nel sistema la natura imperativa, contrariamente all’art.
1284 cc, la cui natura dispositiva giustifica la derogabilità del tasso
con la pattuizione di interessi convenzionali (con forma scritta, ad substantiam).
Sulla scorta di tali enunciati il Tribunale di Verbania, Sezione di
Domodossola, ha ritenuto che una volta dichiarata la illegittimità della
capitalizzazione trimestrale degli interessi, questa non possa essere
convertita in capitalizzazione annuale né in altra tipologia di
capitalizzazione composta, uniformandosi alla pronuncia delle Sezioni
Unite della Cassazione.
Molto interessante la pronuncia anche in tema di cms in quanto ha
stabilito che la relativa pattuizione agli atti (aliquota del 0,125 per
giorni non consecutivi superiori a 3) è indeterminata e indeterminabile
ex art. 1418, 1325, 1346 e 1284 del cc; infatti, anche volendo sottacere
la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria che affermano la nullità
di siffatte clausole in quanto prive di causa, sull’argomentazione che
il servizio reso dall’istituto di credito con l’apertura di credito
trova sufficiente remunerazione nella pattuizione degli interessi che
per volontà del legislatore sono la tipica remunerazione per le
prestazioni consistenti nel prestito di denaro, nondimeno ha rilevato
che non è indicato in contratto il criterio/modalità che in concreto va
applicato per il calcolo della cms, essendo risaputo che talvolta gli
istituti calcolano detto costo sulla somma eccedente il limite di fido
al netto dello stesso, altre volte sulla massima esposizione del
trimestre ed altre ancora sulla esposizione media rapportata al
trimestre/semestre o annualità.
Acclarata la nullità di tale clausola ne consegue, per il Tribunale,
che le somme corrisposte dall’attore durante il rapporto sono prive di
causa e quindi costituiscono indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., nella
specifica ipotesi di “conditio ob causam finitam” (cfr. Cass. 1 luglio
2005, n. 14084).