Contro la Napoli violenta la Chiesa è l’ultima speranza.
Forum del “Roma” con i parroci della periferia nord. La Chiesa napoletana sta dimostrando lo stesso coraggio non-violento che i monaci buddisti della Birmania hanno sfoggiato recentemente.
Ogni giorno, i giornali napoletani riempiono le pagine della cronaca locale con il racconto dei morti per mano della camorra, delle rapine, dei furti, del crimine di strada, e della violenza a danno di turisti e residenti. I media riecheggiano e amplificano le notizie negative che arrivano da Napoli senza che alcun dirigente delle istituzioni locali riesca a difendere l’immagine della città, o per incapacità, o perchè, forse, non c’è molto da difendere. Non è solo la versione statistica e istituzionale del problema della violenza e dell’illegalità di massa che preoccupa. A Napoli si convive con questi fenomeni già da tanto tempo, e i crimini riportati dagli organi di stampa non fanno più notizia, così come le statistiche ufficiali non destano né meraviglia, né preoccupazioni aggiuntive. L’apprensione e l’angoscia per quello che sta succedendo nel Napoletano riguarda il livello psicologico e sociologico, vale a dire, i rapporti personali e interpersonali fra i cittadini, definito dalle migliaia d’interrelazioni che avvengono durante il normale svolgersi della vita quotidiana. La violenza e l’illegalità stanno prendendo il sopravvento nei rapporti fra le persone comuni, fra i “non criminali”, fra le persone “per bene”. Gli abitanti, man mano che la città va verso l’assuefazione a livelli di violenza e d’illegalità sempre più alti, manifestano più intolleranza nelle interrelazioni personali, che, a volte, sfocia in veri e propri atti di violenza gratuita. A volte basta un piccolo malinteso sulla precedenza a un incrocio, che subito volano insulti gravissimi e, sempre di più, si arriva ad atti di violenza fisica. Qualsiasi evento, che normalmente richiederebbe pazienza e comprensione, nella nostra città diventa fonte di rabbia, intolleranza, e, purtroppo, violenza personale. Il più delle volte, le vittime non provano nemmeno a denunciare quello che succede. Chi subisce il furto del motorino, della macchina, del cellulare, dell’orologio, può sperimentare il famoso “cavallo di ritorno”, definito da Wikipedia come “una pratica illegale, diffusa soprattutto in Campania, che prevede il pagamento di un riscatto da parte di chi ha subito un furto per riottenere la refurtiva”. Il “cavallo di ritorno” è all’ordine del giorno a Napoli, e quando va in porto, il furto non è conteggiato nelle statistiche ufficiali, perché una delle premesse di questa pratica è che chi subisce il furto non deve fare la denuncia, ma diventa complice di un’attività illegale. Il 15 e il 17 ottobre, diversi poliziotti sono finiti all’ospedale a causa d’aggressioni da parte della popolazione che, in due diverse zone, difendeva i malviventi. A Napoli manca una classe dirigente capace di riportare la città alla normalità auspicata dal ministro Amato, quando dichiara che “ci vorranno mille maestri, mille scuole, mille investimenti industriali, migliaia e migliaia di posti di lavoro perché Napoli possa vivere una vita diversa”. Chi dovrebbe fare quanto auspica il ministro? Il Comune? La Provincia? La Regione? A Napoli gli intellettuali non si fanno più sentire, già da prima della campagna elettorale per l’elezione del sindaco dello scorso anno, forse perché sono troppo intenti a corteggiare il potere locale per ottenere qualche consulenza d’oro. C’è un silenzio desolante. Sembra che solo la Chiesa abbia il coraggio di parlare e denunciare quello che sta succedendo alla città. Durante la visita del Santo Padre a Napoli, domenica 21 ottobre, il Cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, ha dichiarato che “il fenomeno della violenza, ancora più odiosa quando è esercitata in forme organizzate, ha trovato anche a Napoli un terreno fertile. La Chiesa non si stanca di affermare che la violenza è sempre un’offesa a Dio e un intollerabile sopruso nei confronti dell’altro”. Forse la Chiesa napoletana avrà bisogno di mostrare lo stesso coraggio non-violento che i monaci buddisti della Birmania hanno sfoggiato recentemente. La Chiesa che “scomunica” i camorristi, i violenti e tutta la teppaglia criminale, rifiutando di far entrare nei luoghi di culto i criminali e le loro famiglie, negando i sacramenti ai camorristi, condannando gli altarini votivi costruiti dai criminali per ottenere la protezione di qualche santo, darebbe un messaggio chiaro alla città e al resto del mondo. I criminali che oggi si sentono a posto con la loro coscienza perché, quando uccidono, hanno in tasca un santino, e accendono candele in chiesa, non troverebbero rifugio da nessuna parte. A Napoli, lo Stato non riesce a piegare i criminali, le istituzioni locali sono inefficaci, gli intellettuali sono assenti, la società civile è debole. All’ombra del Vesuvio ci sono pochissimi monaci buddisti, ma c’è sicuramente l’autorità morale ed istituzionale della Chiesa. Forse la Chiesa è l’ultima risorsa e speranza di una città che deve e vuole assolutamente tornare alla normalità.