Corte di Cassazione n° 4712/08 –risarcimento danni – danno esistenziale – ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite – 25.02.08
La Terza Sezione
Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza in oggetto, dopo aver
ripercorso le questioni affrontate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, sulle svariate tematiche del danno non patrimoniale ed
in particolare sulla categoria del danno esistenziale, ha sollecitato
l’intervento delle Sezioni Unite, in primo luogo, affinchè le stesse
risolvano l’irredimibile contrasto di giurisprudenza insorto
all’interno della stessa terza sezione, proprio sul danno esistenziale,
in secondo luogo, per ottenere conferme, sulla base della
propria giurisprudenza, su diverse proposizioni in tema di danno
patrimoniale, danno biologico, danno morale ed esistenziale.
CORTE DI CASSAZIONE
Sezione terza civile
Presidente Preden – Relatore Travaglino
In fatto e in diritto
Caio
e Tizio, insieme con Caia, ricorrono per la cassazione della sentenza
con la quale la corte di appello di Roma, in parziale accoglimento
della loro domanda giudiziale, aveva condannato Mevio e la compagnia
assicuratrice “Nuova Tirrena” al risarcimento del danno biologico e
morale da essi subito in conseguenza della morte – in un incidente
stradale – del congiunto Sempronio.
Tra
i motivi di censura mossi alla sentenza, la difesa dei ricorrenti ha
sottoposto a questo collegio la questione della risarcibilità del c.d.
danno esistenziale – di cui si opina, nella articolata illustrazione
della relativa doglianza, una irriducibile disomogeneità morfologica
rispetto alle categorie del danno morale soggettivo e del danno
biologico – lamentandosene, nella specie, la omessa liquidazione in
sede di giudizio di merito.
All’odierna
udienza di discussione, il procuratore generale, nel rassegnare le
proprie conclusioni, e nel sottolineare l’esistenza di un ormai
irredimibile contrasto di giurisprudenza insorto in seno a questa
stessa sezione sul tema del cd. “danno esistenziale”, ha
preliminarmente chiesto che la causa venisse rimessa al Primo
Presidente, per la eventuale assegnazione alle sezioni unite della
Corte.
Il collegio ha provveduto in conformità, sulla base delle considerazioni che seguono.
1)
È noto come, nella ampia motivazione delle sentenze di cui a Cass. nn.
8827 e 8828 del 2003, si sia consapevolmente evitato di attribuire
autonomo rilievo semantico alla categoria del danno esistenziale (che
pure è stato, nell’ultimo decennio, il vero protagonista, in dottrina e
in giurisprudenza, del dibattito culturale sul contenuto ultimo del
danno non patrimoniale, segnando profondamente alcuni itinerari del
definitivo approdo al “nuovo” sistema risarcitorio di cui all’art. 2059
così come re-intepretato da quelle stesse sentenze).
2)
In particolare, al folio 24 di entrambe le pronunce, si legge che “il
danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia,
comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla
persona”, per poi discorrersi, ancora “di una tutela riconosciuta al
danno non patrimoniale nella sua accezione più ampia di danno
determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non
connotati da rilevanza economica” (pare opportuno precisare, al
riguardo, come la corte abbia utilizzato – del tutto consapevolmente –
i termini “valori/interessi” della persona, piuttosto che il sintagma
“diritto soggettivo inviolabile”).
Riaffermata, poi, l’accezione
di danno non patrimoniale in termini di vulnus ai valori inerenti alla
persona, preciseranno ancora gli estensori di quelle pronunce che “non
sembra proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria
specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che
rileva, ai fini dell’ammissione al risarcimento, è l’ingiusta lesione
di un interesse inerente alla persona dal quale conseguano pregiudizi
non suscettivi di valutazione economica”, per poi concludere (folio
38): “si risarciscono così danni diversi da quello biologico e da
quello morale soggettivo, pur se anch’essi, come gli altri, di natura
non patrimoniale”, il che “non impedisce che la valutazione equitativa
di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una
distinzione – bensì opportuna, ma non sempre indispensabile – tra
quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo, quanto a
titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto, se una
lesione dell’integrità psico-fisica sia riscontrata, e quanto a titolo
di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza
psichica”, e ciò perché (f. 43) “il danno biologico non è configurabile
se manchi una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni
fissati dalla scienza medica: in tal senso si è orientato il
legislatore con gli artt. 13 del decreto legislativo 23.2.2000 e 5 e 38
della legge 57/01, prevedendo che il danno biologico debba essere
suscettibile di accertamento o valutazione medico-legale”.
3)
La Corte costituzionale, dal suo canto, pochi mesi dopo la
pubblicazione delle sentenze “gemelle” del 2003, menzionerà
espressamente la nuova categoria di danno in un passaggio della
sentenza n. 233, tributandogli, in seno al “nuovo” art. 2059 c.c., un
espresso riconoscimento, anche semantico, al fianco del danno biologico
e del danno morale subbiettivo, in un sistema risarcitorio dei danni
ormai definitivamente riconosciuto come sistematicamente bipolare
(danno patrimoniale/danno non patrimoniale) e sottosistemicamente
pentapartito (lucro cessante/danno emergente, da un canto; danno morale
subbiettivo/danno biologico in senso stretto/danno “derivante da
lesione di altri interessi costituzionalmente protetti”, dall’altro).
Il
giudice delle leggi, difatti, diversamente dalla Corte Suprema,
discorre espressamente di un “danno, spesso definito in dottrina e in
giurisprudenza come esistenziale, derivante dalla lesione di altri
interessi di rango costituzionale inerenti alla persona diversi da
quello all’integrità psichica e fisica della persona conseguente ad un
accertamento medico, ex art. 32 della Costituzione”.
4)
Articolati, approfonditi (e non sempre benevoli) furono i commenti
riservati a questa sentenza dai molti commentatori specializzati (e
non) nella materia dell’illecito civile. In realtà, la trasformazione
dell’art. 2059 {operata da questa stessa Corte e dalla Corte
costituzionale) in un vero e proprio art. 2059 bis del codice civile
era parso ai più indiscutibilmente funzionale, al di là di questioni
ormai meramente terminologiche, all’individuazione di una terza (sotto)
categoria di danno non patrimoniale, la cui esistenza e la cui
autonomia appariva ormai poco seriamente contestabile, al di là degli
apparenti ostacoli (in realtà, di carattere soltanto lessicale) posti
dalla sentenza 8827 del 2003.
Alla luce delle (sostanzialmente)
omogenee e (largamente) condivise posizioni assunte da entrambe le
Corti, pareva (e pare ancor oggi) oltremodo difficile, se non
impossibile, immaginare, nella (finalmente riattivata) dimensione
bipolare del danno così come scolpita ai massimi livelli giudiziari, un
totale ripudio della nuova categoria, una radicale e definitiva
smentita alla stessa “esistenza” del danno esistenziale, pur
correttamente circoscritto (e conseguentemente ricondotto) alle sole
ipotesi di vulnera arrecati a valori/interessi costituzionalmente
garantiti.
5)
Gli sforzi ermeneutici di tutti gli operatori del diritto avrebbero,
allora, potuto più proficuamente volgersi a nuovi e più fecondi
approdi, prefigurati in nuce dalle sentenze del 2003, e costituiti: a)
dall’analitica identificazione di una tavola di “valori/interessi”
costituzionalmente protetti suscettibili di risarcimento; b)
dal(l’altrettanto rigorosa) individuazione di regole probatorie il più
possibile certe, funzionali alla legittima predicabilità di un diritto
al risarcimento del danno esistenziale inteso come vulnus al fare
a-reddituale del soggetto da lesione “costituzionale”; c) nella (non
agevole) determinazione di criteri non arbitrari (e comunque
equitativi) di quantificazione complessiva di quel danno.
6)
Si è viceversa assistito, in dottrina e in giurisprudenza, ad ulteriori
ripiegamenti, a reiterati (e non di rado preconcetti) arroccamenti su
posizioni nuovamente contrapposte (talvolta in modo del tutto acritico,
tanto da evocare l’idea kantiana di giudizio analitico a priori), quasi
che il danno esistenziale, novella categoria metagiuridica di pensiero,
dovesse corrispondere all’idea che ciascuno degli interpreti del
pianeta dell’illecito civile si era comunque formato “a priori”,
piuttosto che rappresentare il terreno di coltura e di analisi, sul
piano positivo (e sulla base dell’esistente, del de iure condito, del
diritto vivente), di una nuova categoria di danno del terzo millennio.
7)
Sono così andate fronteggiandosi, negli ultimi anni, due contrapposte
scuole di pensiero, definite, rispettivamente, “esistenzialista” e
“anti-esistenzialista”. Tralasciando l’analisi (che in questa sede
risulterebbe un fuor d’opera) delle singole posizioni dottrinarie, si è
assistito al fiorire, da un canto, di un primo filone di giurisprudenza
esistenzialista, che interpreta il danno esistenziale, di volta in
volta (sull’onda di una copiosa giurisprudenza di merito, il più delle
volte di equità), come categoria aperta anche ai disagi, ai turbamenti
psichici e agli stress, talvolta spingendosi altresì ad individuare
nella lesione della serenità personale e nella violazione in sé di un
bene costituzionalmente tutelato (ad esempio, la personalità,
l’immagine, la reputazione, l’autostima) la prova dell’esistenza del
danno in esame.
Sia la I sezione di questa stessa corte, sia la
sezione lavoro (rispettivamente, con le sentenze 9009/2001 e 7713/2000)
ricondurranno, difatti, il danno esistenziale a “tutte le
compromissioni delle attività realizzatrici della, persona umana
(impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente
salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della
propria vita lavorativa)”: al pari dei pregiudizi alla salute, i
pregiudizi attinenti alla dimensione esistenziale, comprensivi dei
“disagi e turbamenti di tipo soggettivo”, non potevano ritenersi privi
di tutela risarcitoria sulla scorta della “lettura costituzionalmente
orientata del sistema della responsabilità civile”.
Secondo tale
impostazione – sposata da questa stessa corte, dunque, ancor prima del
2003 – la categoria del danno esistenziale rendeva risarcibile
(naturalmente, ex art. 2043 c.c., ratione temporis) ogni pregiudizio,
anche solo soggettivo, che riguardasse la sfera della persona e
derivasse dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante:
“l’art. 2043 c.c., correlato agli artt. 2 e ss. Cost., va così
necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo
dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno
potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona
umana” (così, testualmente, la sentenza 7713/2000).
Unico limite
posto, sotto il profilo naturalistico, ai pregiudizi risarcibili a
titolo di danno esistenziale era costituito dalla rilevanza del “mero
patema di animo interno” siccome distinto dai disagi e turbamenti di
tipo soggettivo: il danno esistenziale si poneva quindi, in tale
prospettiva, come una sorta di “danno morale civilistico”, sempre di
più ispirato al modello del francese “dommage moral” (e in molte
sentenze della giurisprudenza di merito l’apertura della categoria del
danno esistenziale a disagi, stress e perturbamenti risulterà ancora
più evidente).
8)
Sul versante opposto, insieme con altrettanto numerose decisioni di
merito, due pronunce di questa sezione, di segno radicalmente opposto
rispetto a quelle poc’anzi ricordate, risulteranno espressamente
contrarie alla figura del danno esistenziale: secondo Cass. 15449 del
2002 e, soprattutto, Cass. 15022 del 2005, i principi applicabili al
tema del danno non patrimoniale dovevano ritenersi quelli secondo cui:
a) mentre per il risarcimento del danno patrimoniale il riferimento al
“danno ingiusto” comporta una atipicità dell’illecito ex art. 2043,
come ribadito dal Cass. ss. uu. 500/1999 in tema, di risarcibilità
degli interessi legittimi, eguale principio di atipicità non può essere
affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile; b) la lettura
costituzionale dell’art. 2059 limita oggi il risarcimento dei danni non
patrimoniali ai casi previsti dalla legge ed a quelli di lesioni di
specifici valori costituzionalmente garantiti della persona; c) di
conseguenza, appare illegittimo ogni riferimento ad una generica
categoria di danno esistenziale nella quale far confluire fattispecie
non previste dalla norma e non necessitate dall’interpretazione
costituzionale dell’art. 2059 cc. perché questo comporterebbe la
atipicità anche del danno non patrimoniale; d) quanto, poi, al
risarcimento del danno da uccisione del congiunto per la definitiva
perdita del rapporto parentale, questo sarebbe legittimo perché il
relativo interesse si concreta nell’interesse alla intangibilità della
sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della
famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle
attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare
formazione sociale costituita dalla famiglia la cui tutela è
ricollegabile agli artt. 2, 29, 30 Cost.: essa si colloca nell’area del
danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 e si distingue sia
dall’interesse al bene “salute” (protetto dall’art. 32 e tutelato
attraverso il risarcimento del danno biologico) sia dall’interesse
all’integrità morale (protetto dall’art. 2 della Costituzione e
tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo).
9)
Nell’ottica dell’adozione di una posizione per così dire “intermedia”
(pur non discorrendo espressamente di danno esistenziale), merita
ancora menzione la pronuncia di cui a Cass. 6732/2005, secondo la quale
la lesione di diritti inviolabili o fondamentali e di interessi
giuridici protetti perché inerenti a beni della vita o essenziali per
la comunità, come l’habitat, l’inquinamento, l’ambiente di lavoro,
comporta una eterogeneità di situazioni che rendono difficile una
classificazione categoriale generale, ma, ciononostante, la lesione
della reputazione dell’imprenditore derivante dall’illegittimo
protesto, in quanto incidente su valori fondamentali della persona,
determina, un danno non patrimoniale che risulta risarcibile ai sensi
dell’art. 2059 anche in assenza dell’accertamento di un fatto reato.
10)
La nuova architettura dell’illecito così come disegnata nel 2003
troverà, peraltro, una ulteriore, autorevole conferma nella sentenza
delle stesse sezioni unite di questa Corte suprema del marzo 2006: sia
pur in relazione ad una specifica e peculiare vicenda come quella del
demansionamento e della dequalificazione di un lavoratore subordinato,
si affermerà, difatti, verbis apertis (e in una linea di ideale
continuità con le pronunce del 2003) benché a livello di obiter dictum
che “il danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di
lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione
del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della
sua personalità nel luogo di lavoro è tutelato dagli artt. 1 e 2 della
Costituzione”; si specificherà, in relazione a tale vicenda di danno,
che esso consiste in ogni pregiudizio che l’illecito (datoriale)
provoca sul fare a-reddituale del soggetto, alterando le sue abitudini
di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la
sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e
realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”; si aggiungerà
ancora che “peraltro, il danno esistenziale si fonda sulla natura non
meramente emotiva e interiore propria del cd. danno morale, ma
oggettivamente accertatile del pregiudizio”, per concludere, avuto
riferimento al profilo probatorio in relazione al quale era insorto il
contrasto di giurisprudenza, che “non è sufficiente la prova della
dequalificazione dell’isolamento e della forzata in operatività… ma è
necessaria quella di tutto ciò che concretamente ha inciso in senso
negativo nella sfera del lavoratore”, con la sola differenza, rispetto
al danno biologico, che, “mentre questo non può prescindere
dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può essere
verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva che
dimostri, nel processo, i concreti cambiamenti che l’illecito ha
apportato in senso peggiorativo della qualità della vita del
danneggiato: non meri dolori, ma scelte di vita diverse”.
11)
All’indomani di questa pronuncia, autorevoli (benché non unanimi) voci
di dottrina rilevarono la necessità di convenire, anche solo in parte,
con chi aveva sempre sostenuto che la giurisprudenza di legittimità,
non intendendo mai negare cittadinanza ad una certa “area” ricoperta
dal danno esistenziale, aveva inteso ridefinirla sistematicamente,
accogliendone un’idea di “danno relazionale” alla salute anche in
mancanza del suo presupposto ex lege, e cioè di una lesione accertata
sul piano medico legale, in un anelito di ri-definizione del danno alla
salute complessivamente inteso in termini sempre più omogenei rispetto
a quelli affermati dall’organizzazione mondiale della sanità, e cioè di
“uno stato di completo benessere psico-fisico inteso non soltanto come
assenza di malattia”.
12)
L’armonia dell’iter ricostruttivo della fattispecie così come
ipotizzato dalle sezioni unite nel marzo 2006 si dissolve bruscamente
per effetto di due successive sentenze di questa stessa sezione (Cass.
17.7.2006 n. 15760; Cass. 9.11.2006 n. 23918), fortemente
idiosincratiche, già sul piano strettamente lessicale, rispetto al
sintagma “danno esistenziale”. A mente della seconda delle due pronunce
ora citata, difatti, ai fini dell’art. 2059, non può farsi riferimento
ad una generica, categoria di “danno esistenziale”, poiché attraverso
questa via si finisce per portare anche il danno non patrimoniale
nell’atipicità, sia pur attraverso l’individuazione dell’apparente
tipica figura categoriale del danno esistenziale. Per meglio intendere
la portata del principio di tipicità del danno non patrimoniale
predicato in sentenza, è necessario esaminarne ulteriormente la parte
motiva, ove si legge che, “mentre per il risarcimento del danno
patrimoniale, con il solo riferimento al danno ingiusto, la clausola
generale e primaria dell’art. 2043 c.c. comporta un’atipicità
dell’illecito, come esattamente affermato a seguito degli arresti della
S.C. nn. 500 e 501 del 1999, eguale principio di atipicità non può
essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile, infatti
la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non
patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge”.
Ulteriore
precisazione operata dalla sentenza in discorso, quella secondo cui,
nella comprensibile esigenza di “non contraddizione” con il dictum
delle sezioni unite, il danno esistenziale sarebbe confinato entro la
circoscritta dimensione del rapporto contrattuale, tale essendo stata
la fattispecie in concreto portata all’attenzione delle sezioni unite
della corte e risolta con la sentenza del marzo 2006. Sarebbe,
pertanto, identificabile un danno esistenziale da rapporto contrattuale
– quale quello di lavoro, che ripete la sua ragion d’essere dall’art.
2087 – e un danno da illecito extracontrattuale non definibile come
“esistenziale”, perché “ai fini dell’art. 2059 non può farsi
riferimento ad una generica categoria di danno esistenziale dagli
incerti e non definiti confini…”
13)
Da ascriversi, ancora, all’orientamento anti-esistenzialista post 2003,
le sentenze della stessa III sezione civile nn. 23918 del 2006, 9510 e
9514 del 2007, 14846 del 2007 (quest’ultima resa in tema di danno da
uccisione dell’animale di affezione). Nell’ambito del filone
“esistenzialista” troveranno viceversa spazio le pronunce 13546/2006 e
2311/2007, in un crescendo di sempre più marcata antinomia di posizioni
che hanno indotto una recente e fortemente critica dottrina a rilevare
come, addirittura, “accada che relatore di una sentenza dove trova
conferma il danno esistenziale nella forma di perdita della capacità di
avere rapporti sessuali per conseguita impotentia coeundi” sia
addirittura “lo stesso magistrato che, soltanto qualche mese prima si
era espresso negativamente sulla figura del danno esistenziale”.
14)
La dottrina non ha poi mancato di osservare come, a mente del capo III,
titolo X, D.lgs. 209/2005 (cd. “codice delle assicurazioni”), il
combinato disposto degli artt. 137 (danno patrimoniale) e 138/139
(danno biologico) potrebbe addirittura indurre a ritenere
legittimamente risarcibili soltanto tali voci di danno, dovendosi per
volontà dello stesso legislatore identificare ormai l’intero danno non
patrimoniale con il danno biologico, così abbandonando la triplice
configurazione prospettata nel 2003. Le
attuali posizioni giurisprudenziali (e ancor più dottrinarie),
caratterizzate da forti momenti di contrasto (e da non poca confusione)
sugli aspetti morfologici e funzionali del danno non patrimoniale
postula, dunque, un nuovo e non più rinviabile intervento delle sezioni
unite di questa corte, intervento, d’altronde, sempre più intensamente
auspicato in tutti gli ambienti (forensi, dottrinari,
giurisprudenziali) degli attuali operatori del diritto, onde fornire
definitiva risposta ai molteplici quesiti che il tema del danno non
patrimoniale tuttora pone, e che possono così sintetizzarsi:
1)
Rispetto alla tripartizione delle categorie del danno non patrimoniale
operata dalla corte costituzionale nel 2003, è lecito ed attuale
discorrere, a fianco del danno morale soggettivo e del danno biologico,
di un danno esistenziale, con esso intendendosi il danno derivante
dalla lesione di valori/interessi costituzionalmente garantiti, e
consistente nella lesione al fare a-reddituale del soggetto, diverso
sia dal danno biologico (cui imprescindibile presupposto resta
l’accertamento di una lesione medicalmente accertabile) sia dal danno
morale soggettivo (che attiene alla sfera dell’intimo sentire)?
2)
I caratteri morfologici del danno “esistenziale” così rettamente inteso
consistono nella gravità dell’offesa, del diritto costituzionalmente
protetto (come pur postulato da autorevole dottrina), ovvero nella
gravità e durevolezza delle conseguenze dannose scaturenti dal
comportamento illecito?
3)
Va dato seguito alla teoria che distingue tra una presunta “atipicità
dell’illecito patrimoniale” rispetto ad una presunta “tipicità del
danno non patrimoniale” (Cass. 15022/2005, secondo la quale, come si è
già avuto modo di ricordare in precedenza, mentre per il risarcimento
del danno patrimoniale, con il solo riferimento al danno ingiusto, la
clausola generale e primaria dell’art. 2043 c.c. comporta un’atipicità
dell’illecito, eguale principio di atipicità non può essere affermato
in tema di danno non patrimoniale risarcibile che sarebbe, dunque,
tipico in quanto la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il
risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla
legge”), o va piuttosto precisato che quello della atipicità
dell’illecito – di cui alla Generalklausel dell’art. 2043 – è concetto
riferibile all’evento di danno, inteso (secondo la migliore dottrina
che si occupa dell’argomento fin dagli anni 60) come lesione di una
situazione soggettiva giuridicamente tutelata, e giammai come
conseguenza dannosa dell’illecito, sì che il parallelismo con la
(pretesa, ma non dimostrata) “tipicità del danno non patrimoniale”
parrebbe confondere, anche rispetto a tale ultima fattispecie, il
concetto di evento di danno con quello di conseguenza dannosa
dell’evento?
4)
Deve, ancora, darsi seguito all’orientamento, espresso da Cass. n.
23918 del novembre 2006, secondo il quale il dictum di cui alla
sentenza a sezioni unite di questa corte del precedente mese di marzo
doveva intendersi limitato, quanto al riconosciuto danno esistenziale,
al solo ambito contrattuale, ovvero affermarsi il più generale
principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e
concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto
in quello del torto aquiliano?
5)
A quale tavola di valori/interessi costituzionalmente garantita pare
corretto riferirsi, oggi, per fondare una legittima richiesta
risarcitoria a titolo di danno esistenziale? In particolare, un danno
che non abbia riscontro nell’accertamento medico, ma incida tuttavia
nella sfera del diritto alla salute inteso in una ben più ampia
accezione (come pur postulato e predicato in sede sovranazionale) di
“stato di completo benessere psico-fisico” può dirsi o meno risarcibile
sotto una autonoma voce di danno esistenziale da lesione del diritto
alla salute di tipo non biologico dacché non fondato su lesione
medicalmente accertabile? (la questione trova una sua possibile,
concreta applicazione, tra le altre, nella vicenda dell’uccisione
dell’animale di affezione, di cui sopra si è dato cenno);
6)
Quali sono i criteri risarcitori cui ancorare l’eventuale liquidazione
di questo tertium genus di danno onde evitare illegittime duplicazioni
di poste risarcitorie? Possono all’uopo soccorrere, in parte qua (come
accade per il danno morale soggettivo) le tabelle utilizzate per la
liquidazione del danno biologico, ovvero è necessario provvedere
all’elaborazione di nuove ed autonome tabelle?
7)
Quid iuris, ancora, in ordine a quella peculiare categoria di danno cd.
“tanatologico” {o da morte immediata), la cui risarcibilità è stata
costantemente esclusa dalla giurisprudenza tanto costituzionale quanto
di legittimità, ma che pare aver ricevuto un primo, espresso
riconoscimento, sia pur a livello di mero obiter dictum, con la
sentenza n. 15760 del 2006 della III sezione di questa corte?
8)
Quali sono, in concreto, gli oneri probatori e gli oneri di allegazione
posti a carico del danneggiato che, in giudizio, invochi il
risarcimento del danno esistenziale (il problema si è posto in tutta la
sua rilevanza in fattispecie quali quella dell’uccisione di un figlio
minore: la relativa domanda risarcitoria è stata, difatti, negata, con
riferimento al caso di specie, da Cass 20987/2007, proprio in relazione
ad una vicenda di uccisione di una giovanissima figlia, per
insufficiente allegazione e prova, da parte dei genitori/attori, della
relativa situazione di danno, diversa da quella relativa al danno
morale soggettivo e da quella psicofisica di danno biologico).
Le
sezioni unite sono altresì chiamate a dare conferma (o, eventualmente,
a precisare o modificare), sulla base della propria stessa
giurisprudenza, in ordine ad alcune ulteriori proposizioni, che possono
così sintetizzarsi:
1)
il danno patrimoniale è risarcibile ex art. 2043 c.c., quello non
patrimoniale secondo il combinato disposto degli artt. 2043 + 2059 c.c.;
2) la categoria del danno patrimoniale si articola nelle due sottovoci del lucro cessante e del danno emergente;
3)
la categoria del danno non patrimoniale si articola a sua volta in un
sottosistema composto dal danno biologico in senso stretto, dal danno
esistenziale, dal danno morale soggettivo;
4)
il danno biologico e il danno esistenziale hanno morfologia omogenea
(entrambi integrano una lesione di fattispecie costituzionali, quella
alla salute il primo, quelle costituite da “valori/interessi
costituzionalmente protetti” il secondo) ma funzioni diversificate
(anche per volontà del legislatore ordinario), con conseguenti
differenze sul piano dei parametri valutativi delle poste risarcitorie;
5)
in particolare, il danno esistenziale attiene alla sfera del fare
a-reddituale del soggetto, e si sostanzia nella lesione di un
precedente “sistema di vita”, durevolmente e seriamente modificato,
nella sua essenza, in conseguenza dell’illecito;
6)
il danno morale soggettivo si caratterizza, invece, per una diversa
ontogenesi, restando circoscritto nella sfera interiore del sentire,
mai destinata all’obbiettiva esteriorizzazione;
7)
tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono
incondizionatamente risarcibili entro i limiti della riserva di legge
di cui all’art. 2059 c.c.;
8)
tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono
risarcibili anche oltre quei limiti se (e solo se) il comportamento del
danneggiante abbia inciso su valori/interessi costituzionalmente
tutelati (e il superamento del limite della riserva di legge vale tanto
per l’una quanto per l’altra categoria di danno, come si legge
testualmente nella sentenza 8828/2003 della S.C.);
9)
tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono
risarcibili se (e solo se) di entrambi il danneggiato fornisca la prova
(anche mediante allegazioni e presunzioni), non esistendo, nel nostro
sottosistema civilistico, “danni in re ipsa”.
PQM
La Corte rimette gli atti del procedimento al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.