Corte di Cassazione S.U. n° 794/09 – dicitura “light” sul pacchetto di sigarette non è di per se ingannevole- onere della prova spetta al consumatre -15.01.09
La Corte di
Cassazione, nella sentenza in oggetto ha stabilito che la dicitura
“Light” sui pacchetti di sigarette non è di per sé ingannevole:” Il
consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una
pubblicità ingannevole ed agisca, in base all’art. 2043 del codice
civile, per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere
probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è
tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra
pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la
pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione
di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate
conseguenze dannose”
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VINCENZO CARBONE – Presidente di sez. – Dott. GIACOMO TRAVAGLINO ha pronunciato la seguente SENTENZA
sul ricorso 34881-2006 proposto da: BRITISH
AMERICAN TOBACCO-B.A.T. ITALIA S.P.A.(GIÀ’ ENTE TABACCHI ITALIANI –
E.T.I. S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro-tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo
studio dell’avvocato P. CARMINE, che la rappresenta e difende
unitamente agli avvocati P. R., Z. GIAN PAOLO, R. NICOLA, giusta delega
a margine del ricorso; – ricorrente –
contro S. L.; – intimato – avverso la sentenza n. 7/2005 del GIUDICE DI PACE di NAPOLI, depositata il 04/11/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/11/2008 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO; uditi gli avvocati Carmine P., Roberto P.;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. VINCENZO N. che
ha concluso per la giurisdizione dell’ago, nel merito il rigetto.
Il giudice
di pace di Napoli ha condannato la M. al pagamento di una somma di
danaro in favore del B. a titolo di risarcimento del danno, per aver
colpevolmente prodotto, commercializzato e pubblicizzato confezioni di
sigarette con l’utilizzo della dicitura «Light», atta ad indurre in
errore il consumatore medio in ordine alla presunta minore pericolosità
e nocività di tali prodotti rispetto a quelli «normali». Errore nel
quale – secondo il giudice – incorse l’attore, il quale ne subì sia il
danno da perdita della chance di scegliere liberamente una soluzione
alternativa «rispetto al problema fumo», sia il danno esistenziale
dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo
stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi danni
all’apparato cardiovascolare o respiratorio.
La M.
propone ricorso per la cassazione della sentenza del giudice di pace di
Napoli a mezzo di sette motivi. Non si difende l’intimato nel giudizio
di cassazione. La M. ha depositato memoria per l’udienza. La stessa
società ha dichiarato di rinunziare al sesto motivo di ricorso.
Motivi della decisione
A) La giurisdizioneI motivi secondo e terzo, attinenti alla giurisdizione, vanno preliminarmente trattati. Con
il secondo motivo di ricorso la società ricorrente, ai sensi
dell’articolo 360 c.p.c., n. 1, pone, in sintesi, il seguente quesito: se
la controversia instaurata dal singolo consumatore per danni subiti a
causa dell’utilizzo della dicitura «Light», da parte del produttore di
sigarette, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario o nella
giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi del Decreto
Legislativo 25 gennaio 1992, n. 74, articolo 7, comma 12, (oggi Decreto
Legge 6 settembre 2005, n. 206, articolo 26, comma 13), dal momento che
si tratta di pubblicità assentita con provvedimenti amministrativi,
emanati, nell’espletamento delle loro funzioni di controllo e
vigilanza, sia dall’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIBM), che
autorizza la registrazione del relativo marchio, sia
dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), che
autorizza l’inserimento in tariffa, delle sigarette, previa verifica,
tra l’atro della regolarità delle etichettature. Con
il terzo motivo la società ricorrente, ai sensi dell’articolo 360
c.p.c., n. 4, censura la sentenza per violazione dell’articolo 112
c.p.c., in relazione all’omessa pronunzia di difetto di giurisdizione
nei confronti dell’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o
del Prefetto. Quest’ultimo
motivo può essere subito dichiarato inammissibile sul rilievo che non è
prospettabile, sotto il profilo degli articoli 112 e 360 c.p.c., n. 4,
la censura di omessa pronuncia in tema di giurisdizione, posto che
l’aver deciso il giudice il merito della causa (come s’è verificato nel
caso in esame) costituisce implicita accettazione della giurisdizione.
Venendo al secondo motivo di ricorso, la relativa risposta presuppone l’identificazione della domanda proposta dall’attore.
Essa risulta caratterizzata dai seguenti elementi: a)
l’attore, premesso di essere un fumatore abituale di sigarette con un
normale contenuto di nicotina e condensato, di averne contratto
patologie respiratorie e cardiovascolari e di non riuscire a smettere
di fumare, sostiene di essere passato al consumo di sigarette
pubblicizzate come del tipo «Light», con un minor contenuto di nicotina
e condensato, sulla presunzione che esse fossero meno nocive e
pericolose; b)
tuttavia, nonostante il consumo di queste sigarette, le sue condizioni
di salute, anziché migliorare, peggiorarono, essendo quasi raddoppiato
il numero di sigarette da lui fumate; c)
egli era divenuto, pertanto, vittima di una pubblicità ingannevole,
illusoria, insidiosa, artificiosa e fuorviante, produttrice di danni
per la sua salute, nonché di ansia per il pericolo di rimanere affetto
da cancro, con conseguente serio turbamento della sua qualità di vita; d)
di qui la domanda risarcitoria, nei confronti della società produttrice
delle sigarette in questione, connessa a danni patrimoniali (la
restituzione del prezzo pagato per l’acquisto dei pacchetti di
sigarette da lui fumati) e non patrimoniali.
I riferimenti normativi utilizzati dall’attore sono quelli di cui al
Decreto Legislativo n. 74 del 1992, articolo 5 coordinato con il
Decreto del Presidente della Repubblica n. 224 del 1998 sulla
responsabilità del produttore. Così
riassunti i presupposti di fatto, nonché la pretesa esercitata, è
possibile desumere che nella specie l’azione esercitata è quella
aquiliana di cuiall’articolo 2043 c.c. [1], con riferimento a danni
patrimoniali e non patrimoniali, considerati tra questi ultimi sia il
danno alla salute, sia il danno, più generale, «alla qualità della
vita».
Significativo, in tal senso è il riferimento al Decreto Legislativo n.
74 del 1992, articolo 5 a norma del quale «è considerata ingannevole la
pubblicità che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo
la salute e la sicurezza dei consumatori, ometta di darne notizia in
modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di
prudenza e vigilanza». In
questi stessi termini la vicenda risulta essere stata trattata dal
giudice, il quale ha accertato «una chiara situazione di illegittimità
del comportamento tenuto dalla M. con riferimento all’utilizzo
artificioso della dicitura Light sui pacchetti di sigarette… che non
può assolutamente… trovare una valida giustificazione».
L’individuazione dei danni verificatisi è stata limitata: a) alla «perdita di chance da parte dell’attore di scegliere liberamente una soluzione alternativa rispetto al problema fumo»; b)
al «danno c.d. esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della
vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio di
verificarsi gravi danni all’apparato cardiovascolare o respiratorio».
Il giudice non ha, dunque, fatto menzione, tra i danni da lui ritenuti
risarcibili, al danno alla salute, che (benché sotto forma di
aggravamento rispetto alle sue preesistenti patologie) l’attore aveva
pure lamentato. Neppure
la ricorrente, oggi, pone in discussione che la controversia sia
dibattuta in ambito aquiliano; tuttavia, essa invoca il disposto del
Decreto Legislativo 25 gennaio 1992, n. 74, articolo 7, comma 12, per
sostenere che la causa rientri nella giurisdizione del G.A., in ragione
del fatto che la pubblicità della quale si discute era all’epoca
assentita con provvedimenti amministrativi. Il
Decreto Legislativo 25 gennaio 1992, n. 74, articolo 7 menzionato (nel
testo allora vigente, ossia, come sostituito dal Decreto Legislativo 25
febbraio 2000, n. 67, articolo 5, comma 1, e prima di essere modificato
dalla Legge 6 aprile 2005, n. 49), sotto il titolo «Tutela
amministrativa e giurisdizionale», attribuisce ad una serie di soggetti
(i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni,
il Ministro dell’Industria ed ogni altra P.A. che ne abbia interesse)
la possibilità di chiedere all’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole ritenuta
illecita ai sensi del decreto stesso, la loro continuazione e che ne
siano eliminati gli effetti. Lo stesso articolo detta la procedura che
deve seguire l’Autorità, il suo potere di sospensione provvisoria della
pubblicità ingannevole, i provvedimenti che può emettere all’esito
dell’istruttoria (vietare la pubblicità non ancora iniziata o la
continuazione di quella già iniziata), la sanzione penale per
l’operatore pubblicitario che non ottempera al provvedimento
dell’Autorità. Lo
stesso articolo, poi, stabilisce: che i ricorsi avverso le decisioni
definitive dell’Autorità rientrano nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo (comma 11); che, ove la pubblicità sia stata
assentita con provvedimento amministrativo, preordinato anche alla
verifica del carattere non ingannevole della stessa o di liceità del
messaggio di pubblicità comparativa, la tutela dei concorrenti, dei
consumatori e delle loro associazioni e organizzazioni è esperibile
solo in via giurisdizionale con ricorso al giudice amministrativo
avverso il predetto provvedimento (comma 12);
che è comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario, in
materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’articolo 2598 c.c.
nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di
atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d’autore
protetto dalla Legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni
e del marchio d’impresa protetto a norma del Regio Decreto 21 giugno
1942, n. 929, e successive modificazioni, nonché delle denominazioni di
origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi
di imprese, beni e servizi concorrenti (comma 13). La
lettura della disposizione consente, dunque, di affermare che la tutela
alla quale essa si riferisce è quella di carattere inibitorio, ossia
quella tendente al divieto di iniziare o di continuare a porre in
essere atti di pubblicità ingannevole ritenuti illeciti in base alle
altre disposizioni del decreto stesso.
Essa non contempla, invece, le azioni proposte (anche dal singolo
consumatore) per il risarcimento del danno che si assume essersi
verificato come diretta conseguenza dell’atto pubblicitario
ingannevole; azione diretta al riconoscimento del diritto soggettivo al
risarcimento del danno ingiusto ex dall’articolo 2043 c.c. come tale
rientrante nella giurisdizione del G.O. Tenuto, altresì, conto che
nella specie si controverte di tutela della salute, di adeguata
informazione e di corretta pubblicità, ossia di quelli che il Codice
del consumo (cfr. articolo 2) considera diritti fondamentali del
consumatore. In
tutt’altro ordine di idee si muove, invece, la disposizione quando
configura, ai menzionati fini inibitori, la generale attribuzione
amministrativa dell’Autorità Garante, la giurisdizione esclusiva del
G.A. in sede di ricorso avverso le decisioni definitive dell’Autorità
stessa e la giurisdizione del G.A. nel caso in cui la tutela inibitoria
venga richiesta avverso atti pubblicitari assentiti con provvedimento
amministrativo. Quest’ultima,
da intendersi come ordinaria giurisdizione di legittimità del giudice
amministrativo (dunque, non esclusiva, come, peraltro, erroneamente
afferma la ricorrente), è giustificata dal fatto che il provvedimento
amministrativo, con il quale (in specifici casi) viene assentita la
pubblicità, consolida nel privato il diritto soggettivo a diffonderla;
sicché, la relativa inibizione presuppone il ricorso giurisdizionale
innanzi al G.A. tendente alla demolizione del provvedimento
amministrativo che l’atto pubblicitario ha assentito.
La
disposizione alla quale s’è fatto finora riferimento è stata poi, senza
sostanziali modificazioni ai fini che qui riguardano, trasfusa
nell’articolo 26 del Codice del consumo (Decreto Legislativo 6
settembre 2005, n. 206) e poi successivamente traslata nell’articolo 27
del Codice stesso, a seguito delle modifiche a quest’ultimo apportate
dal Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146, attuativo della
direttiva 2005/29/CE.
In
conclusione, deve essere affermato il principio secondo cui: «Rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario – e non del giudice
amministrativo, ai sensi del Decreto Legislativo 25 gennaio 1992, n.
74, articolo 7, comma 12, (successivamente articolo 26 del Codice del
consumo, comma 13, di cui al Decreto Legislativo n. 206 del 2005 poi
articolo 27 del Codice del consumo, comma 14 come introdotto dal
Decreto Legislativo n. 146 del 2007 attuativo della direttiva
2005/29/CE) – la controversia promossa da un consumatore per
conseguire, ex articolo 2043 c.c., il risarcimento del danno
patrimoniale e non patrimoniale (sotto forma di danno alla salute o
danno «esistenziale» dovuto al peggioramento della qualità della vita
conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi
di gravi malattie), facendo valere come elemento costitutivo
dell’illecito la pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie
sigarette del tipo «Light»), recante sulla confezione un’espressione
diretta a prospettarlo come meno nocivo». Giova,
sul punto ricordare che, alla medesima conclusione (quanto alla
giurisdizione del G.O.) sono già pervenute queste Sezioni Unite
nell’escludere, sempre rispetto all’azione risarcitoria da pubblicità
ingannevole, la giurisdizione dell’Agcm (cfr. Cass. sez. un. 6 aprile
2006, n. 7985, sempre in tema di sigarette «Light»; Cass. sez. un. 29
agosto 2008, n. 21934, quanto all’asserita illegittimità della
pubblicità di un prodotto nel corso di una trasmissione televisiva).
Infine, per
esaurire il tema anche con riferimento alla competenza, è opportuno
porre in evidenza che questa Corte ha già escluso che essa, in siffatta
azione, appartenga alle sezioni specializzate in materia di proprietà
industriale ed intellettuale, istituite presso i tribunali e le Corti
d’appello di alcune città dal Decreto Legislativo n. 168 del 2003 (cfr.
Cass., sez. 3, 13 febbraio 2007, n. 3086, non massimata), considerato
che è un elemento assolutamente accidentale ed irrilevante nella
fattispecie che la descrizione «Light» sia contenuta nel marchio
registrato e non in altra parte della confezione di sigarette.
B) Il merito della vicenda
Con il primo
motivo il ricorso censura la sentenza per violazione e falsa
applicazione del criterio di giudizio equitativo (articolo 113 c.p.c.,
comma 2), per avere il giudice di pace adottato un giudizio di tipo
intuitivo e non sillogistico, come stabilito da Corte Cost. n.
206/2004. In particolare, la ricorrente si riferisce al punto della
sentenza in cui il giudice, pur dando atto dell’intervento in materia
della Corte Costituzionale, sostiene che resta, tuttavia, valido il
principio fondamentale in virtù del quale ciò che caratterizza e
contraddistingue l’equità del giudice di pace è la natura squisitamente
intuitiva dell’iter logico della motivazione, potendo egli sostituire
con siffatto ragionamento la norma giuridica sostanziale in astratto
applicabile, formandola sul caso concreto sottoposto al suo esame.
Sostiene, dunque, la ricorrente che, così argomentando, il giudice si
sarebbe sottratto all’osservanza dei principi informatori della materia
in tema di responsabilità civile.
Nel quarto
motivo è censurata la violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione
all’omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione delle pretese
anteriori al quinquennio o al decennio (con riferimento a
responsabilità extracontrattuale o di altro genere). Il
quinto motivo censura la sentenza per avere omesso di accertare la
sussistenza o meno degli elementi costitutivi della responsabilità
aquiliana, i quali, comunque, non sarebbero riscontrabili nella
fattispecie in esame.
Sostiene, infatti, la ricorrente che la propria condotta non potrebbe
qualificarsi illecita, in quanto l’accertamento della natura
ingannevole della dicitura Light, ad opera dell’Autorità Garante, non
esplica nessun effetto diretto in ordine all’accertamento della
responsabilità civile e, comunque, la dicitura in questione è stata
vietata solo dal settembre 2003, sicché per il periodo precedente la
relativa condotta non può essere considerata illecita, tanto più che i
pacchetti di sigarette Light riportavano, in modo identico ad ogni
altro tipo di sigarette, le avvertenze imposte a salvaguardia della
salute dei consumatori. Mancherebbe, inoltre la prova sull’elemento
soggettivo dell’illecito civile, non essendo stato dimostrato che, con
quella dicitura, la M. mirasse a presentare le sigarette in questione
come meno dannose per la salute.
Il settimo
motivo censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dei
principi informatori in tema di individuazione e prova del danno
risarcibile. In particolare, secondo la ricorrente non esisterebbero né
la prova, né l’accertamento sia in ordine alla perdita della chance da
parte dell’attore di scegliere una soluzione alternativa rispetto al
«problema fumo», sia in ordine ad un peggioramento della qualità di
vita, sia in ordine allo stress ed al turbamento che avrebbero
determinato tale peggioramento.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte fondati.
Il tema
risulta già trattato e risolto da alcune pronunzie di questa Corte, che
le Sezioni Unite condividono (cfr. la già citata Cass., sez. 3, 13
febbraio 2007, n. 3086, nonché, soprattutto, Cass., sez. 3, 4 luglio
2007, n. 15131). Indispensabile
premessa è che contro le sentenze del giudice di pace in cause di
valore non superiore ad euro 1100,00, e perciò da decidere secondo
equità, il ricorso per Cassazione è stato ammesso (fino alla novella di
cui al Decreto Legislativo n. 40 del 2006) solo per il mancato rispetto
delle regole processuali, per violazione di norme costituzionali e
comunitarie (in quanto di rango superiore alla legge ordinaria), ovvero
per violazione dei principi informatori della materia, e per carenza
assoluta o mera apparenza della motivazione o di radicale ed insanabile
contraddittorietà, non essendo invece ammissibile il ricorso per
violazione o falsa applicazione di legge, a norma dell’articolo 360
c.p.c., n. 3 (Cass. sez. un. 15 ottobre 1999, n. 716, coordinata con la
sentenza additiva della Corte Cost. 14 luglio 2004, n. 206). Sbaglia,
dunque, il giudice quando, pur dando atto dell’intervento sul tema
della Corte costituzionale, ritiene di poter sostituire, attraverso un
iter logico squisitamente intuitivo, la norma giuridica in astratto
applicabile, formandola o adattandola al caso concreto sottoposto al
suo esame.
Così ragionando egli trascura del tutto il doveroso rispetto degli imprescindibili principi informatori della materia. Ripetutamente
la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’articolo 2043 c.c.
fissa i principi informatori della responsabilità civile, ai quali
anche il giudice di pace nel giudizio di equità deve attenersi.
Principi che possono riassumersi nella necessaria ricorrenza, al fine
del riconoscimento della responsabilità risarcitoria, dell’ingiustizia
del danno, del nesso causale tra questo e l’azione, dell’elemento
psicologico doloso o colposo a sostegno dell’azione. Elementi, tutti,
la cui prova è posta a carico di chi esercita la pretesa risarcitoria,
secondo l’ordinario canone di cui all’articolo 2697 c.c. (soltanto per
inciso va detto che è inapplicabile nel giudizio ordinario l’inversione
dell’onere della prova che l’articolo 27 Cod. cons., comma 5, prevede
nel procedimento innanzi all’Autorità Garante, laddove assegna al
professionista l’onere di provare, con allegazioni fattuali, che egli
non poteva ragionevolmente prevedere l’impatto della pratica
commerciale sui consumatori).
Esclusione,
dunque, di ogni automatismo tra fatto dannoso e danno risarcibile,
nella considerazione, soprattutto, che l’allegazione del provvedimento
inibitorio dell’Autorità Garante può tutt’al più fornire al giudice
indicazioni in ordine alla natura astrattamente ingannevole della
pubblicità (natura che, comunque, deve essere idoneamente provata dalla
parte e sufficientemente motivata dal giudice), ma non può certamente
fornire la prova dell’ingiustizia del danno, il cui onere rimane pur
sempre a carico di chi sostiene che la scorrettezza del messaggio gli
abbia arrecato un danno ingiusto (nella specie, abbia leso la salute o
l’interesse ad autodeterminarsi liberamente e consapevolmente).
A tal ultimo
riguardo occorre fornire risposta a quel profilo del quinto motivo
laddove la società sostiene che, essendo vietata la dicitura ««Light»
solo dal settembre del 2003, la propria precedente condotta non
potrebbe essere considerata illecita ai fini risarcitori.
La tesi è infondata.
È pur vero a norma dell’articolo 7 della direttiva 2001/37/CE (cui è
stata data attuazione per il tramite del Decreto Legislativo n. 184 del
2003) solo dal 30 settembre 2003 sono vietate diciture, denominazioni,
marchi, immagini o altri elementi che suggeriscono che un particolare
prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Tuttavia, tale circostanza
non esclude che la dicitura della quale si discute non possa costituire
il fatto integrante la responsabilità aquiliana antecedentemente a tale
data. E ciò in quanto nella struttura dell’articolo 2043 c.c. non
rileva l’illiceità del fatto, bensì l’ingiustizia del danno, ossia che
il fatto (assistito almeno dalla colpa) dell’agente abbia prodotto la
lesione di una posizione giuridica altrui, ritenuta meritevole
dall’ordinamento e non altrimenti giustificata (concetti, questi, che
risultano già espressi, in medesima fattispecie, da Cass. sez. 3, 4
luglio 2007, n. 15131). Rispetto
a tutto quanto finora posto in evidenza, la sentenza impugnata si
manifesta affatto carente. Essa manca, infatti, di qualsiasi
motivazione in ordine alla natura ingannevole della pubblicità,
sussistendo, in proposito, la mera citazione del provvedimento
dell’Autorità Garante (del quale non sono riportate neppure le ragioni)
ed il riferimento alle affermazioni dello stesso attore; manca, poi, la
motivazione in ordine all’esistenza del nesso di causalità tra la
propagazione del messaggio ingannevole ed il danno ingiusto lamentato. Manca, altresì, qualsiasi argomentazione in ordine all’atteggiamento psicologico della società convenuta.
Sul punto bisogna dire che la ricorrente ha, per un verso, ragione
quando sostiene che tale elemento della fattispecie risarcitoria debba
essere adeguatamente provato e motivato; tuttavia essa sbaglia, per
altro verso, quando ritiene che sia necessaria la dimostrazione di
avere essa mirato a presentare le sigarette in questione come meno
dannose per la salute.
Così argomentando la società finisce con il pretendere la dimostrazione
del dolo, ossia della volontà del comportamento diretto ad ingannare;
laddove, invece, è sufficiente presupposto risarcitorio la
dimostrazione della colposa diffusione di un messaggio prevedibilmente
idoneo ad insinuare nel consumatore il falso convincimento intorno alle
caratteristiche ed agli effetti del prodotto.
Manca,
infine, nella sentenza impugnata la sufficiente individuazione del
pregiudizio risarcibile. Essa – lo si è già visto in precedenza – non
accoglie la pretesa dell’attore relativa al danno alla salute, ma
limita il risarcimento alla «perdita di chance da parte dell’attore di
scegliere liberamente una soluzione alternativa rispetto al problema
fumo», nonché al «danno c.d. esistenziale dovuto al peggioramento della
qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il
rischio di verificarsi gravi danni all’apparato cardiovascolare o
respiratorio».
Al riguardo
bisogna porre in evidenza come la disciplina comunitaria relativa ai
consumatori, pur avendo all’origine lo scopo di proteggere il corretto
funzionamento del mercato, si sia gradualmente orientata verso la
protezione di specifici interessi del consumatore (in particolare la
salute: si pensi alla direttiva comunitaria in materia di sicurezza dei
prodotti e prodotti difettosi), fino ad individuarne i diritti e ad
attribuire ad alcuni di essi natura fondamentale.
Il messaggio ingannevole lede, appunto, il diritto del consumatore alla
libera determinazione intorno alla scelta ed all’uso del prodotto, in
altri termini «ad assumere una decisione di natura commerciale che non
avrebbe altrimenti preso» (articolo 21 Codice del consumo, comma 2,). In
alcuni casi, poi, siffatta pubblicità può incidere sul diritto alla
salute, costituzionalmente protetto e specificamente menzionato dal
Codice del consumo tra i diritti fondamentali del consumatore. Tant’è
che «è considerata scorretta la pratica commerciale che, riguardando
prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei
consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a
trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza» (articolo 21
Codice del consumo, comma 3, al quale ha fatto riferimento l’Autorità
Garante nel vietare l’utilizzo del termine «Light»).
Al di fuori
dei casi di danno alla salute (che il giudice, come s’è detto, in
questo caso ha escluso), in cui la tutela è piena ed incomprimibile, e
rispetto ai casi (come quello in esame) in cui sia lamentata anche una
generica lesione del diritto all’autodeterminazione consumieristica,
nonché il disagio conseguente alla scoperta di essere stato indotto a
tenere una condotta pericolosa (il fumatore sostiene di avere fumato un
maggior numero di sigarette «Light» in base all’erroneo convincimento
che esse fossero meno dannose per la salute), occorre procedere ad
un’attenta selezione dei danni risarcibili, che tenga conto della
gravità dell’offesa prodotta.
Quanto al diritto all’autodeterminazione, esso può essere tratto dal
Codice del consumo che, all’articolo 2, riconosce come fondamentali i
diritti del consumatore ad una adeguata informazione e ad una corretta
pubblicità, nonché all’esercizio delle pratiche commerciali secondo
principi di buona fede, correttezza e lealtà.
Quanto alla
paura di ammalarsi, in dottrina è stato fatto riferimento al danno da
pericolo già elaborato da queste Sezioni Unite, quando, a proposito del
disastro di Seveso, è stato ritenuto risarcibile il danno morale
soggettivo lamentato da coloro che avevano subito un turbamento
psichico (non tradottosi in malattia) a causa dell’esposizione a
sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale
svolgimento della loro vita (Cass. sez. un. 21 febbraio 2002, n. 2515).
Tuttavia, non si può omettere di considerare che siffatta soluzione è
stata accolta in un caso in cui il danno lamentato era posto in
collegamento causale con un fatto costituente il reato di disastro
colposo e, dunque, in riferimento all’articolo 185 c.p. Sicché,
rispetto a tale ultima categoria di danni (che la sentenza impugnata
menziona genericamente come di tipo «esistenziale») occorre tener conto
delle conclusioni alle quali è recentemente pervenuta Cass. sez. un. 11
novembre 2008, n. 26975, che ha identificato il danno non patrimoniale
di cui all’articolo 2059 c.c. come quello determinato dalla lesione di
interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica,
composto in categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in
sottocategorie. Danno tutelato in via risarcitoria, in assenza di reato
ed al di fuori dei casi determinati dalla legge, solo quando si
verifichi la lesione di specifici diritti inviolabili della persona,
ossia in presenza di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Tenendo, dunque, conto dell’interesse leso e non del mero pregiudizio
sofferto o della lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante. Nello
svolgere l’indagine sopra prescritta, il giudice può anche servirsi
delle presunzioni, nei limiti e nei modi in cui le ammette il codice di
rito, ed, una volta individuato il danno, potrà procedere
equitativamente alla liquidazione del relativo risarcimento, purché
essa non sia simbolica o affatto svincolata dagli elementi di fatto
emersi. Un’ultima
annotazione riguarda la valutazione dell’esigibilità di un diverso
comportamento da parte della vittima, ossia l’applicabilità del
disposto dell’articolo 1227 c.c., comma 2, che esclude il risarcimento
per i danni che quella avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria
diligenza.
Ciò nella considerazione che l’attore sostiene di essere stato fumatore
di sigarette a pieno contenuto di nicotina e condensato prima di
passare al fumo di sigarette «Light», di essere stato già affetto da
malattie respiratorie e cardiovascolari connesse al consumo di
sigarette e di essere passato al consumo di quelle da lui ritenute meno
dannose per l’impossibilità di smettere di fumare.
In conclusione, da quanto premesso è possibile enucleare i seguenti principi:
1)
L’apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio
pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno
descrittivo «Light» sul pacchetto di sigarette) può essere considerato
come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha
commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall’esistenza di
una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti
l’espressione impiegata.
2) Il
consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una
pubblicità ingannevole ed agisca, ex articolo 2043 c.c., per il
relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando
la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l’esistenza
del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché
(almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa
nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio
sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose.
C) Le conclusioniPer
quanto riguarda la giurisdizione, per le ragioni esposte sub A),
respinto il secondo motivo di ricorso e dichiarato inammissibile il
terzo, deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
Quanto agli
altri motivi: deve essere accolto il primo, che lamenta il mancato
rispetto dei principi informatori della materia; il quarto motivo è
inammissibile, in quanto la ricorrente non specifica i termini ed i
modi con i quali sarebbe stata eccepita la prescrizione;
il quinto ed il settimo motivo (relativamente al sesto v’è rinunzia) vanno accolti nei limiti in precedenza spiegati. Il
ricorso deve essere, dunque, accolto, con rinvio al giudice di pace di
Napoli, il quale procederà ad un nuovo esame della causa, adeguandosi
ai principi sopra enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche
sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibile
il terzo e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Dichiara
inammissibile il quarto motivo. Accoglie il primo, il quinto ed il
settimo, cassa la sentenza impugnata e rinvia al giudice di pace di
Napoli, nella persona di diverso magistrato, il quale provvederà anche
sulle spese del giudizio di cassazione.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 15 GENNAIO 2009