Corte di cassazione Sezione III civile Sentenza 12 febbraio 2004, n. 2698
Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 12 febbraio 2004, n. 2698
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.
«Con atto di citazione ritualmente notificato l’avvocato Palumbo chiamava in giudizio il Comune di Perugia in
persona del sindaco legale rappresentante pro-tempore per sentirlo condannare al pagamento di lire 200.000 o
nella misura che il giudice, in via equitativa, ritenesse opportuno liquidare a titolo di risarcimento dei danni
patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Esponeva l’attore che in data 25 settembre 1993 egli aveva trovato sul cruscotto della propria auto Fiat 126
targata PG451883, momentaneamente parcheggiata all’inizio di via Mazzini a Perugia, una contravvenzione
stradale per violazione dell’art. 158 c.d.s. (divieto di accesso in zona a traffico limitato).
L’avvocato Palumbo, individuato il vigile accertatore, gli faceva presente di essere munito di permesso per
accedere al centro storico; ma questi, nonostante la manifesta inesattezza della contestazione, rimaneva fermo
nella propria posizione.
Successivamente, con raccomandata del 27 settembre 1993, allegata agli atti, l’attore comunicava al Comando
dei Vigili Urbani che la contravvenzione per divieto di accesso non poteva essere operante dal momento che egli
era munito di regolare permesso per accedere al centro storico.
Il Comando dei Vigili urbani con lettera del 20 ottobre 1993, stampata su modello precostituito, genericamente
rispondeva insistendo nella fondatezza della contestazione, ed in data 14 dicembre 1993 l’Ufficio notifiche del
Corpo di Polizia Municipale notificava all’avvocato Palumbo un verbale di contravvenzione per violazione dell’art.
158 c.d.s.
L’avvocato Palumbo con lettera del 14 ottobre 1995 tentava ancora una volta ed in via bonaria di evidenziare la
illegittimità della contravvenzione motivandone le ragioni, ma il Comando dei Vigili urbani persisteva nella
propria posizione.
Per tali motivi l’attore si vedeva costretto a proporre ricorso al Prefetto di Perugia avverso al verbale, ed il
Prefetto, riconosciuta la fondatezza della opposizione proposta, disponeva l’archiviazione del verbale impugnato.
Per la non corretta condotta tenuta dal Comando dei Vigili Urbani l’avvocato Palumbo riteneva di aver subito
danni patrimoniali (redazione dell’atto di opposizione, posta) e danno non patrimoniali causati dallo stress
dovuto alla illegittima contestazione che gli aveva provocato ansia e disagio.
Si costituiva il Comune di Perugia in persona del Sindaco pro-tempore e contestava la ricostruzione dei fatti così
come descritti nell’atto di citazione dell’avvocato Palumbo: in particolare evidenziava che agli atti del Comune
non risultava traccia dello scambio di note 27 settembre 1993 e 20 ottobre 1993 tra lo stesso avvocato
Palumbo ed il Comando dei Vigili Urbani relativo alla contravvenzione del 25 settembre 1993. Inoltre rimarcava
che la lettera del 14 aprile 1995 (doc. n. 3 dell’atto di citazione) era stata rimessa dopo l’inoltro del ricorso al
Prefetto e quindi, presumibilmente, andava riferita ad altra contravvenzione.
In ogni caso il Comune sosteneva che da quanto denunciato dall’attore non potesse ravvisarsi un danno
risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Inoltre, ai sensi dell’art. 7 c.p.c., il Comune convenuto riteneva che il G.d.p. fosse competente per le cause di
risarcimento del danno prodotto dalla circolazione degli autoveicoli purché il valore della controversia non fosse
superiore a lire 30.000.000. Pertanto il danno di cui l’attore pretendeva il ristoro, non attendendo alla
circolazione dei veicoli, non era di competenza del giudice adito.
Il Comune, nel merito, aggiungeva che l’interessato, una volta proposta opposizione al verbale in sede
amministrativa, aveva ottenuto, con l’archiviazione, il pieno soddisfacimento della propria pretesa, pertanto nel
comportamento della P.A. convenuta non poteva ravvisarsi una colpa costituiva dell’illecito civile di cui all’art.
2043 c.c. D’altro canto nel caso in specie, pur ammettendo che l’Amministrazione comunale avesse posto in
essere un atto illegittimo (verbale di contravvenzione), successivamente, secondo le regole di buona
amministrazione, non aveva dato esecuzione allo stesso, ma aveva provveduto a sospendere la riscossione
della relativa somma. Quanto al pregiudizio patrimoniale, i danni di cui l’attore chiedeva il risarcimento non
erano stati dimostrati dallo stesso, anche perché il ricorso al Prefetto può essere consegnato a mani proprie
dell’interessato, senza dover sostenere alcun onere economico. Ancor più difficile, secondo il convenuto, la
dimostrazione dell’insorgere di un “danno biologico” in un soggetto che, esercitando la professione di avvocato,
abituato a gestire le liti, non doveva aver subito “disagio e stress” in seguito alla notifica di una contravvenzione
al codice della strada».
Con sentenza emessa e depositata il 26 aprile 2000 il G.d.p. di Perugia, definitivamente pronunciando,
condannava il Comune di Perugia a corrispondere la somma di lire 200.000 a favore dell’avvocato Umberto
Palumbo, a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali; condannava altresì la parte
convenuta al pagamento delle spese del giudizio che liquidava in complessive lire 500.000.
Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Perugia.
Ha resistito con controricorso l’avvocato Umberto Palumbo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico, articolato motivo di ricorso, la difesa del Comune, dopo aver premesso che intende gravarsi contro
la sentenza 115/2000, entro i limiti «cui è sottoposta l’impugnazione delle pronunce rese dal G.d.p. secondo
equità ai sensi dell’art. 113, secondo comma, c.p.c.», espone le seguenti doglianze. Non sussisteva – e
comunque non ne è stata fornita la prova – alcuno degli elementi costituitivi: fatto colposo dell’amministrazione,
danno e nesso eziologico. La sentenza impugnata ha violato i seguenti ineludibili principi:
a) violazione di norma costituzionale: l’art. 28 Cost. impone l’applicazione – tra le altre – delle disposizioni
contenute nel libro quarto, titolo IX, del c.c., tra cui – per quanto interessa in questa sede – l’art. 2043: nel caso
che ci occupa la norma appare violata in quanto nella presente fattispecie nessuno degli elementi costituitivi di
cui all’art. 2043 c.c. è riscontrabile ed è stato riscontrato dal giudice di prime cure. Pertanto la condanna
dell’ente pubblico contrasta con il precetto costituzionale sopra richiamato.
A1. In punto di colpa dell’amministrazione.
Nella sentenza della Corte di cassazione 500/1999 l’elemento soggettivo in capo alla P.A. che ha consumato il
fatto illecito viene rinvenuto non in via presuntiva dalla mera caducazione di un atto amministrativo (che può
rappresentare, se del caso, un presupposto “minimo”), ma deve necessariamente incentrasi nella «violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi». A ciò si aggiunga che la dottrina circoscrive tale violazione ai casi di vera e
propria “mala amministrazione” inconciliabile con i precetti di cui all’art. 97 Cost.
Orbene nella fattispecie oggetto di giudizio:
– l’atto amministrativo (verbale di contravvenzione) è stato caducato solo per ragioni formali (omessa
specificazione del comma dell’art. 158 del c.d.s.), nel mentre è pacifico che era stata contestata all’attore in
prima sede sia la mancata esposizione del permesso z.t.l. sia la sosta su area vietata;
– sussiste la prova in atti della legittimità sostanziale dell’amministrazione, in quanto mai lo stesso avvocato
Palumbo ha negato di essersi trovato in sosta nella predetta zona vietata;
– la condotta serbata dal Comune di Perugia anche nel mantenere ferma la sanzione adottata appare dunque
scevra da critiche, attesa la piena legittimità del proprio operato; inoltre nessun estenuante tentativo di
soluzione bonaria della vicenda è stato mai posto in essere dalla controparte;
– infine, l’atto – quand’anche possa ritenersi illegittimo – non è stato eseguito dall’amministrazione.
A2. In punto di danno e nesso eziologico.
Parimenti non è dato riscontrare in atti alcun elemento da cui possa derivarsi l’esistenza di un danno ovvero del
nesso eziologico tra comportamento (asseritamente) colposo dell’amministrazione e (pretesa) lesione.
B) Violazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico (“onere della prova”); norme processuali in punto
di prova (art. 116 c.p.c.) e norme sostanziali necessariamente presupposte (art. 2697 c.c.).
Il giudice di prime cure ha violato il precetto di cui all’art. 2697 c.c., in forza del quale, nel caso di
responsabilità aquiliana, spetta all’interessato dimostrare gli elementi costitutivi della fattispecie.
Altro principio fondamentale violato – anche in dispregio del disposto di cui all’art. 116 c.p.c. circa la valutabilità
del contegno delle parti – è quello per cui la prova di un fatto può essere desunta anche dalla mancata
contestazione di un assunto avversario.
Infatti nel caso che ci occupa:
– quanto al danno il Comune di Perugia ne ha negata la sussistenza e l’avvocato Palumbo non ha fornito un
benché minimo principio di prova (come, ad esempio, un certificato medico comprovante l’alterazione della
propria sfera psico-emotiva);
– quanto alla colpa dell’amministrazione il giudice ne ha desunto la sussistenza dalla mera caducazione dell’atto
e dall’indimostrata affermazione attorea di avere profuso chissà quali e quante energie per ottenere
l’annullamento in parola; invero non solo l’avvocato Palumbo non ha dimostrato tale elemento soggettivo, ma
per converso il Comune ha fornito la prova della legittimità del proprio operato (controparte ha violato le norme
in materia di soste e lo ha pure ammesso), ha dimostrato di avere ricevuto una sola richiesta di archiviazione
del verbale ed ha offerto di poter provare anche per testimoni l’esistenza della violazione contestata (cfr.
memoria autorizzata del 6 marzo 2000, pag. 3).
Lo stesso va affermato con riferimento al nesso eziologico che pure è rimasto sfornito di supporto probatorio.
C) Vizio motivazionale; violazione di principi generali e processuali.
In primo luogo il mancato rispetto delle norme in materia di prova e il non avere ammesso i mezzi istruttori
richiesti dal convenuto su un punto fondamentale (colpa o legittimità dell’operato amministrativo) è ex se
fondante il vizio denunciato. La pronuncia non fornisce comunque alcuna logica contezza circa tutti gli elementi
costituitivi della fattispecie aquiliana.
D) Violazione di norma processuale (art. 91 c.p.c.) e di norma sostanziale necessariamente sottesa (Dm Gg
585/1994).
È il caso infine di evidenziare altro capo illegittimato della pronuncia, vale a dire quello relativo alla
quantificazione delle “spese” di lite in lire 500.000, a fronte di un danno equitativamente liquidato in lire
200.000. Infatti alla norma processuale invocata in epigrafe è sottesa la vigente disciplina delle tariffe in forza
della quale, per il citato valore di causa, possono riconoscersi al massimo onorari per lire 150.000, oltre alle
funzioni dello scaglione minimo (lire 4000).
Il motivo non può essere accolto.
Circa i vizi denunciabili in sede di ricorso per cassazione contro sentenza del G.d.p. resa ex art. 113 cit. va
precisato che secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte «le sentenze pronunciate dal G.d.p. in
controversie di valore non superiore a due milioni (sentenze da ritenersi sempre pronunciate secondo equità,
anche quando il giudice abbia fatto applicazione di una norma di legge, con o senza espressa indicazione della
sua rispondenza all’equità) sono ricorribili in cassazione per violazione delle norme processuali ai sensi dell’art.
360, primo comma, nn. 1, 2 e 4, c.p.c. (in quest’ultimo caso anche con riferimento alle ipotesi di inesistenza
della motivazione), nonché ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cit., con riferimento alle sole ipotesi equiparabili a
quella di inesistenza della motivazione e cioè solo allorquando quest’ultima, pur sussistendo formalmente,
debba considerarsi meramente apparente per la concreta impossibilità di comprenderne la ratio decidendi (ad
esempio a causa di radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione), mentre la censura di violazione
della legge sostanziale ai sensi del n. 3 del citato art. 360 è consentita soltanto in caso di inosservanza o falsa
applicazione della Costituzione e delle norme comunitarie (se di rango superiore a quelle ordinarie). Ne
consegue che è pertanto inammissibile la denunzia della violazione della norma di cui all’art. 1189 c.c., in tema
di pagamento al creditore apparente, non trattandosi né di norma costituzionale, né di disposizione comunitaria
di rango superiore alla norma ordinaria» (Cassazione 9393/2003; con riferimento ai vizi di violazione di legge
denunciabili, v. anche Cassazione, Sezioni Unite, 8223/2002: «La pronuncia secondo equità resa dal G.d.p. in
controversie non eccedenti il valore di due milioni di lire, non più soggetta ai principi regolatori della materia ed
ai principi generali dell’ordinamento (art. 113, comma secondo, c.p.c., nella riformulazione introdotta dall’art.
21 della l. 374/1991), è sottoposta soltanto all’osservanza delle norme costituzionali e delle norme comunitarie
di rango superiore a quelle ordinarie, nonché delle norme processuali ai sensi dell’art. 311 c.p.c.»).
Ciò premesso si osserva che il motivo di ricorso in esame è inammissibile (per le ragioni che verranno esposte)
prima ancora che privo di pregio (essendo l’impugnata decisione immune da vizi che siano
contemporaneamente denunciati nel ricorso e denunciabili nella presente sede; ed in particolare non essendo
comunque ipotizzabili nella specie le denunciate violazioni di legge processuale e di norme costituzionali).
Tali ragioni di inammissibilità sono le seguenti: a) al di là della formale denuncia di violazione dell’art. 28 Cost.
(in realtà neppure ipotizzabile nella specie) la norma realmente oggetto di doglianza è l’art. 2043 c.c. e cioè una
norma di legge ordinaria di carattere sostanziale; si è quindi di fronte ad una doglianza non ammissibile; una
ulteriore autonoma (e anch’essa già di per sé decisiva) ragione di inammissibilità è costituita dalla circostanza
che a ben guardare il motivo di gravame non contiene neppure vere doglianze concernenti la violazione di detta
norma sostanziale in quanto l’asserita mancanza degli «elementi costituitivi di cui all’art. 2043 c.c.» attiene in
realtà ad un giudizio di mero fatto concernente la valutazione del materiale probatorio; b) analoghe
considerazioni valgono anche con riferimento all’asserita violazione dell’art. 116 c.p.c., nel senso che al di là
della formale denuncia di violazione dell’art. 116 c.p.c. (comunque neppure ipotizzabile nella specie) la norma
realmente oggetto di doglianza è l’art. 2697 c.c. e cioè una norma di legge ordinaria di carattere sostanziale; e
che anche in tal caso in realtà il motivo di gravame non contiene neppure vere doglianze concernenti la
violazione di detta norma sostanziale in quanto l’asserita violazione dell’art. 2697 c.c. attiene in realtà ad un
giudizio di mero fatto concernente la valutazione del materiale probatorio; c) nei limiti in cui si fondano su
specifiche risultanze processuali le doglianze sono inammissibili anche perché, in violazione del principio di
autosufficienza del ricorso, non riportano integralmente il contenuto delle risultanze medesime (cfr. tra le altre
Cassazione 2838/1999; 3284/2003; Sezioni Unite 9561/2003); d) come si è già esposto, i vizi ex art. 360, n. 5
(ed i vizi di violazione di norme sostanziali) non sono denunciabili nella presente sede, e nella specie non è
ritualmente e chiaramente denunciato il vizio di motivazione insussistente ovvero meramente apparente (del
resto la motivazione sussiste in concreto e non è meramente apparente); né la doglianza concernente l’asserito
vizio di ultrapetizione è stata ritualmente supportata dalla indicazione degli atti e delle difese di controparte su
cui si fonderebbe, nonché dalla citazione dei brani rilevanti di tali atti e difese (cfr. con riferimento alla
circostanza che il principio di autosufficienza di applica anche nel caso di denuncia di errores in procedendo,
Cassazione 5148/2003: «Il ricorrente che denunzi un error in procedendo è tenuto – in ossequio al principio di
specificità ed autosufficienza del ricorso che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza
compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non
solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a
quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata e, soprattutto, è tenuto a
specificare puntualmente i singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale è stato commesso
l’errore che si adduce indicando, ai fini di un controllo mirato, i luoghi del processo ove rinvenire gli atti, le
pronunzie o le omissioni che si pongano in contrasto con la norma»; non sembra comunque inutile aggiungere,
per mera completezza ed anche se non sarebbe necessario, che la doglianza è in ogni caso pure priva di base in
fatto dato che nell’atto di citazione dell’avvocato Umberto Palumbo innanzi al G.d.p. di Perugia era stata
esposta una chiara richiesta di risarcimento anche del danno non patrimoniale, come si evince in particolare
dalle pagine 2 e 3); e) la doglianza concernente l’asserita violazione dell’art. 91 c.p.c. «e di norma sostanziale
necessariamente sottesa» è inammissibile in quanto non contiene la specifica indicazione voce per voce dei
singoli importi ritenuti dovuti in relazione agli importi in concreto liquidati; ed inoltre (trattasi di una ulteriore
autonoma ragione di inammissibilità, anch’essa decisiva già da sola) in quanto concerne in realtà non la
debenza o meno delle spese (le problematiche concernenti tale debenza concernerebbero effettivamente l’art.
91 c.p.c.), ma la quantificazione delle spese stesse («È inammissibile il motivo del ricorso per cassazione
avverso sentenza del G.d.p., in causa di valore inferiore a lire due milioni, con il quale si denunzi non la
debenza o meno delle spese – cioè la violazione dell’art. 91 c.p.c., norma processuale alla cui osservanza è
tenuto anche il G.d.p. -, ma la quantificazione delle spese stesse. In particolare, sono norme di carattere
sostanziale, che il G.d.p. non è tenuto ad osservare allorché pronunzia in controversie di valore inferiore a lire
due milioni, le disposizioni – contenute in leggi o in altre fonti del diritto (come le deliberazioni del Consiglio
nazionale forense che stabiliscono i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità
spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali) – relative al quantum delle spese che devono essere liquidate
in favore della parte vincitrice (ed a carico di quella soccombente)»: Cassazione 1185/2003).
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente e rifondere le spese del giudizio di cassazione liquidate
in euro 280 oltre euro 100 per spese vive e oltre spese generali ed accessori come per legge.