Corte di Cassazione Sezioni Unite n° 18356/09 – danno non patrimoniale – liti bagattellari -danni non risarcibili- 19.08.09
“Come è noto
queste Sezioni Unite, con quattro contestuali sentenze di contenuto
identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11 novembre 2008)
hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale
del disposto dell’art. 2059 cc, da leggersi come
norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei
pregiudizi non patrimoniali sul presupposto dell’esistenza di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e
cioè: la condotta illecita, ‘ingiusta lesione di interessi tutelati
dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la
sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare
dell’interesse leso. In tale prospettiva la peculiarità del danno non
patrimoniale viene individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla
natura dell’art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti
dalla legge ovvero ai diritti costituzionali inviolabili
presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione in
quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare
l’interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che
la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì,
che la lesione sia grave e che il danno non sia futile”.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 19 agosto 2009, n. 18356 (pres. Carbone, rel. Mensitieri)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 9 novembre 2004 C.C. conveniva in giudizio
dinanzi al giudice di pace di Benevento la RAI Radiotelevisione
Italiana spa deducendo che in data 21.10.2004 le era stato inviato da
tale società sollecito di pagamento del canone televisivo;
che tale sollecito era stato preceduto da altri due inviati il 29
aprile e il 3 maggio dello stesso anno ai quali era stato risposto
compilando questionario – cartolina specificandosi che il suo nucleo
familiare già provvedeva a pagare annualmente il canone il cui
abbonamento era intestato ad uno dei componenti effettivi e conviventi
della famiglia;che la ricezione continua di detti solleciti, nonostante
le risposte inviate, le creava danni da disagio, discredito, ansia e
stress.
Chiedeva
pertanto, previa declaratoria di infondatezza della richiesta
inoltratale dalla convenuta, la condanna della medesima a titolo di
risarcimento danni al pagamento della somma ritenuta di giustizia,
anche facendo ricorso all’art. 1226 c.c., oltre interessi e
rivalutazione, il tutto da contenersi entro l’importo di Euro 1.000,00
e comunque entro i limiti di competenza per valore del giudice adito.
Instauratosi
il contraddittorio la RAI, deducendo la natura di imposta del canone di
abbonamento alla televisione di Stato, eccepiva preliminarmente il
difetto di giurisdizione del giudice adito in favore del giudice
tributario, l’incompetenza per materia e per territorio in favore della
competenza esclusiva della Commissione Tributaria di Torino, il proprio
difetto di legittimazione passiva per essere gli importi del canone
destinati all’Amministrazione finanziaria dello Stato e contestava nel
merito la fondatezza della pretesa avversaria perchè non provata e per
l’insussistenza comunque dei presupposti risarcitori di cui all’art.
2059 c.c..
Con sentenza
del 22 settembre 2005 il giudice di pace, dichiarata la propria
competenza, dichiarava la società convenuta responsabile del danno
esistenziale strettamente connesso alle ripetute e arbitrarie diffide
di pagamento indirizzate all’attrice e la condannava al pagamento in
favore della predetta della somma di Euro 199,20 a titolo di
risarcimento danni, oltre rivalutazione ed interessi dalla domanda al
soddisfo e alle spese processuali distraende in favore del procuratore
antistatario.
Avverso tale
decisione ha proposto ricorso per cassazione la RAI Radiotelevisione
italiana spa sulla base di cinque motivi, il primo dei quali attinente
alla giurisdizione.
Non ha spiegato attività difensiva in questa sede l’intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, in riferimento all’art. 360
c.p.c., nn. 1 e 5, difetto di giurisdizione del giudice ordinario
nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Osserva la
ricorrente che avendo la C. proposto la domanda risarcitoria, previa
declaratoria di infondatezza della richiesta inoltrata dalla convenuta,
quella domanda in tanto poteva essere scrutinata dal giudice di pace in
quanto fosse stata previamente accertata dal giudice “competente” vale
a dire dal giudice tributario (essendo il canone di abbonamento
un’imposta) l’insussistenza dell’obbligo di pagamento del canone
medesimo da parte della nominata C. e la conseguente illegittimità
delle relative richieste di pagamento.
La doglianza
è infondata giacchè correttamente il giudice “a quo” ha ritenuto la
propria giurisdizione avendo la C. proposto un’azione risarcitoria
fondata sull’illegittimità dei solleciti di pagamento del canone
televisivo dopo che vi erano state già comunicazioni di non essere
tenuta al detto pagamento.
Del resto in
fattispecie del tutto analoga la Sezione Terza di questa Suprema Corte,
con sentenza n. 12885 del 4 giugno 2009, ha ritenuto la propria
giurisdizione, implicitamente rigettando l’eccezione della RAI di
difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
Con il
secondo mezzo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 2,
l’incompetenza per materia, e territorio del giudice adito, nonchè
omessa, contraddittoria e/o insufficiente motivazione sul punto.
Rileva parte
ricorrente la immotivata reiezione da parte del giudice “a quo” delle
proposte eccezioni di incompetenza per materia e per territorio.
Assume che
vertendosi in tema di imposta la competenza apparteneva alla
Commissione Tributaria di Torino, luogo dove era sorta e doveva
eseguirsi l’obbligazione di pagamento del canone da parte delle C..
Il motivo è infondato stante la testè ritenuta giurisdizione del giudice ordinario “in subiecta materia”.
Con il terzo
motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4,
violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa
motivazione in ordine all’eccezione di difetto di legittimazione
passiva.
Rileva la
ricorrente che il soggetto legittimato ad incassare le somme relative
al canone televisivo è l’Amministrazione Finanziaria dello Stato e
precisamente l’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Torino.
Non aveva
alcun rilievo, ai fini della legittimazione passiva sull’istanza
risarcitoria, la circostanza che l’invito al pagamento provenisse da
essa RAI, giacchè tali inviti venivano inoltrati ai soggetti inseriti
nell’elenco stilato e tenuto dall’Agenzia delle Entrate, con la quale
essa ricorrente collaborava per la riscossione del tributo.
Con il quarto mezzo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101, 102 e 113 c.p.c., art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 6, e dell’art. 2043
cc da cui desumere il principio dell’ordinamento applicabile anche in
sede di giudizio di equità, nonchè omessa e contraddittoria motivazione
su un punto decisivo della controversia.
Osserva
parte ricorrente che essendo l’A.F. sostanzialmente destinataria degli
effetti della sentenza del giudice di pace essa doveva assumere nel
giudizio il ruolo di necessario contraddittore. In
realtà l’A.F. era il vero ed effettivo soggetto titolare del rapporto
d’imposta mentre la RAI, mera “longa manus” era priva di legittimazione
sostanziale. L’A.F.
doveva considerarsi pertanto parte necessaria del giudizio in cui si
verteva sulla legittimità o meno dell’invio di comunicazioni che
facevano parte del procedimento tributario di accertamento della
debenza di un’imposta che andava a beneficio diretto del bilancio dello
Stato.
Mentre essa RAI, recapitando gli avvisi in parola, dai quali peraltro
nessun obbligo o sanzione scaturiva a carico dei destinatari, si
limitava a svolgere un’attività doverosa, di carattere materiale e
meramente strumentale rispetto alle funzioni di accertamento e
riscossione del canone di abbonamento televisivo, di esclusiva
competenza dell’A.F..
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente stante la loro stretta connessione, sono inammissibili.
Essi, invero, pur formalmente deducendo violazione di norme processuali
e di principi informatori del diritto, esulano dalle censure consentite
in sede di legittimità avverso le sentenze emesse secondo equità dal
giudice di pace.
Merita
puntualizzare che non è in discussione la “legitimatio ad causam”, che
è istituto processuale ricollegabile al principio di cui all’art. 81
c.p.c., e riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare
l’azione in giudizio ovvero nei cui confronti tale azione può essere
esercitata, bensì si eccepisce l’effettiva titolarità passiva della
pretesa risarcitoria, sul presupposto dell’estraneità al fatto dedotto
in giudizio.
Trattasi di una questione che comporta una disamina e una decisione
attinente al merito della controversia e non alle regole procedurali,
con la conseguenza che, in relazione ad essa, non è esperibile il
ricorso per cassazione, ammesso – avverso le sentenze pronunciate, come
quella in esame, dal giudice di pace secondo equità – oltre che per
violazione delle regole procedurali, solo per violazione di norme
costituzionali e comunitarie di rango superiore alle norme ordinarie o
dei principi informatori della materia e per carenza assoluta, mera
apparenza o radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione
e non anche per violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360
c.p.c., n. 3, (vedi sul punto la citata sentenza n. 12885/2009).
Con il
quinto motivo si denunzia, infine, in riferimento all’art. 360 c.p.c.,
nn. 3, 4 e 5, violazione del principio del “neminem laedere” desumibile
dall’art. 2043 c.c., come principio dell’ordinamento applicabile anche
in sede di giudizio deciso secondo equità.
Osserva la
ricorrente che essendo assorbenti i rilievi svolti attinenti a
questioni meramente processuali doveva considerarsi superflua una
dettagliata analisi della gravata sentenza nella parte relativa al
merito della controversia, dovendo questa Suprema Corte cassare senza
rinvio.
Rileva, comunque, nel merito che il giudice “a quo” avrebbe potuto
qualificare in termini di illiceità anche ex art. 2043 c.c., o sulla
base di un più generale principio equitativo al quale tale norma si
riporta, la comunicazione di essa RAI soltanto qualora avesse
motivatamente dimostrato che tale comunicazione avesse caratteristiche
tali da integrare un”aggressione alla sfera psico-fisica di una persona
normale”.
Sotto tale
profilo era intuitivo, ad avviso della RAI, che una mera comunicazione
(dalla quale non conseguiva alcun effetto giuridicamente rilevante) non
aveva nè un carattere obbligante nè tanto meno coercitivo e quindi per
definizione non costituiva molestia.
Il motivo di
ricorso riguarda il punto della decisione che ha riconosciuto il
risarcimento a titolo di danno esistenziale identificato nella
costrizione indotta ripetutamente ad occuparsi delle problematiche
attinenti all’obbligatorietà dell’abbonamento alla televisione e nel
turbamento della quiete e tranquillità psichica della C., destinataria
di immotivate diffide, con prospettazione reiterata di accertamenti e
sanzioni, produttiva di un clima di intimidazione arbitraria, causa di
disagio, ansia e stress.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
Come è noto queste Sezioni Unite, con quattro contestuali sentenze di
contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11 novembre
2008)hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave
costituzionale del disposto dell’art. 2059 cc, ritenuto principio
informatore del diritto, come tale vincolante anche nel giudizio di
equità, da leggersi – non già come disciplina di un’autonoma
fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta
da quella di cui all’art. 2043 c.c. – bensì come norma che regola i
limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali
(intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è
possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva,
ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell’esistenza di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e
cioè: la condotta illecita, ‘ingiusta lesione di interessi tutelati
dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la
sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare
dell’interesse leso.
In tale
prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata
nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell’art. 2059 c.c.,
quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti
costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal
legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai
diritti costituzionali inviolabili presieduti dalla tutela minima
risarcitoria, con la precisazione in quest’ultimo caso, che la
rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il
pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del
pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia
grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai
doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a
dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura
meramente immaginario).
Ciò
precisato, si osserva che, nella specie, non sussiste un’ingiustizia
costituzionalmente qualificata, tantomeno si verte in un’ipotesi di
danno patrimoniale, risultando, piuttosto, la ritenuta lesione della
“quiete e tranquillità psichica” insuscettibile di essere monetizzata
siccome inquadrabile in quegli sconvolgimenti della quotidianità
“consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro
tipo di insoddisfazione” (oggetto delle c.d. liti bagatellari) ritenuti
non meritevoli di tutela risarcitoria (vedi la citata sentenza n.
12885/2009, nonchè Cass. Sez. 3^ n. 8703/2009).
In
conclusione, rigettati i primo quattro motivi, il quinto va accolto e,
ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, la sentenza impugnata va
cassata senza rinvio, posto che, non essendo necessari accertamenti di
fatto, va pronunciato nel merito e – in applicazione dei principi
affermati da queste Sezioni Unite sopra richiamati – la domanda di
risarcimento della C. va rigettata.
Le spese
dell’intero processo vanno integralmente compensate tra le parti avuto
riguardo al rigetto dei primi quattro motivi nonchè alla relativa
novità e alla natura delle questioni trattate con il quinto.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il quinto motivo del ricorso, rigetta gli altri;cassa, in
relazione al motivo accolto l’impugnata sentenza e decidendo nel merito
rigetta la domanda di risarcimento danni proposta da C.C.. Compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 26 maggio 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2009.