Cucchi, i medici rischiano 8 anni "Certificarono la morte naturale"
Chiuse le indagini sul giovane detenuto morto il 22 ottobre. Cade l’ipotesi di omicidio colposo, ma è più grave quella di abbandono di incapace. Rischiano il processo 13 tra medici, infermieri e funzionari. Il medico di turno attestò falsamente la morte naturale
ROMA – Non c’è più l’omicidio colposo tra i reati
formulati dalla procura di Roma in relazione alla morte di Stefano
Cucchi, il ragazzo morto il 22 ottobre scorso, una settimana dopo
essere stato arrestato dai carabinieri per spaccio di droga. A
carico dei medici dell’ospedale Sandro Pertini, infatti, i pm
Vincenzo Barba e Maria Francesca Loi, che hanno depositato gli
atti, hanno contestato, a seconda delle posizioni, il
favoreggiamento, l’abbandono di incapace, l’abuso d’ufficio, e il
falso ideologico. Lesioni e abuso di autorità sono le ipotesi di
reato attribuite agli agenti della polizia penitenziaria.
Complessivamente, 13 persone rischiano di finire a processo, di cui
quattro nuovi indagati. Si tratta di sei medici del Pertini (Aldo
Fierro, Silvia Di Carlo, Bruno Flaminia, Stefania Corbi, Luigi De
Marchis Preite, Rosita Caponetti), tre infermieri (Giuseppe Fluato,
Elvira Martelli e Domenico Pepe), tre guardie carcerarie (Minichini
Nicola, Corrado Santantonio e Antonio Domenici) e un funzionario
del provveditorato regionale amministrazione penitenziaria (Claudio
Marchiandi).
Un’accusa più grave dell’omicidio colposo. I
magistrati, alla luce delle risultanze peritali, hanno modificato
le originarie ipotesi di accusa che erano di omicidio
preterintenzionale per gli agenti ritenuti responsabili del
presunto pestaggio avvenuto il 16 ottobre in una cella di sicurezza
del Tribunale di Roma, e di omicidio colposo per i medici del
reparto penitenziario del Sandro Pertini in cui fu ricoverato
Stefano Cucchi. L’accusa di omicidio colposo che decade ha un
importante valore simbolico nella vicenda, ma la morte di Stefano
Cucchi come conseguenza di “abbandono di persona incapace” non è
certo meno grave, perché per i medici e gli infermieri del Pertini
si profila un reato sanzionabile fino a 8 anni di reclusione, a
fronte dei 5 per l’omicidio colposo.
Picchiato dagli agenti. Per i i pm, i tre agenti
di polizia penitenziaria “fecero cadere a terra” Stefano Cucchi
causandogli un “politrauma” nella zona “sopracilliare sinistra”,
ferite alle mani e lesioni al gluteo destro e alla gamba sinistra
nonchè “l’infrazione della quarta vertebra sacrale”. E, “allo scopo
di far desistere Cucchi” dalle “reiterate richieste di farmaci e
alle continue lamentele”, sottoposero il detenuto a misure di
rigore non consentite dalla legge.
Un po’ di zucchero poteva salvare Cucchi. Nel capo
di imputazione, i pm scrivono che i medici e gli infermieri in
servizio dal 18 ottobre al 22 ottobre dello scorso anno
“abbandonavano Stefano Cucchi del quale dovevano avere cura” in
quanto “incapace di provvedere a se stesso”. Il ragazzo era in una
situazione fisica che lo poneva “in uno stato di pericolo di vita”,
“esigeva il pieno attivarsi dei sanitari” che invece “omettevano di
adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza”. Tra
questi, la somministrazione di un semplice cucchiaino di zucchero
“al riscontro di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl,
rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della
soglia ritenuta dalla letteratura scientifica come pericolosa per
la vita”. Lo zucchero, sciolto in un bicchiere d’acqua, avrebbe
potuto salvare Cucchi.
Medico attestò falsamente “morte naturale”.
L’accusa di favoreggiamento per i nove in servizio al Pertini, tra
medici e paramedici, assieme al funzionario del Prap, riguarda
l’aver aiutato i tre agenti della penitenziaria autori del
pestaggio “a eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria”
omettendo di trasferire, o di richiedere il trasferimento, in
reparto idoneo in relazione alle condizioni critiche del paziente.
Molto pesante l’accusa rivolta a Flaminia Bruno, medico di turno
nella struttura protetta dell’ospedale Pertini il 22 ottobre,
giorno del decesso. La dottoressa, nel certificato di morte di
Cucchi “avrebbe falsamente attestato che si trattava di morte
naturale, pur essendo a conoscenza delle patologie di cui era
affetto, perché ricoverato nel reparto nei cinque giorni
precedenti, ricollegabili a un traumatismo fratturativo di origine
violenta, che imponeva la messa a disposizione della salma
all’autorità giudiziaria”.
Cucchi, registrato come in “buone condizioni”. Il
funzionario del Prap Claudio Marchiandi è accusato di aver istigato
uno dei medici indagati, di turno il 17 ottobre, “a indicare
falsamente” nella cartella clinica redatta all’ingresso del
detenuto che le condizioni generali di Cucchi erano “buone”.
La famiglia: “Medici, vergognatevi”. In una nota,
la famiglia Cucchi esprime “soddisfazione per il grande lavoro
svolto dai pm. Quando è stato arrestato Stefano stava bene ed è
morto in condizioni terribili per il semplice fatto che stava male
perché picchiato dagli agenti di polizia penitenziaria. Ed è stato
picchiato perché si lamentava e chiedeva farmaci. Questa è la
tremenda verità che emerge chiaramente dal capo d’imputazione
particolarmente articolato. Non dimentichiamo che senza quelle
botte Stefano non sarebbe morto. I medici si devono vergognare e
non sono più degni di indossare un camice”.
Manconi: “Sparita la parola ‘omicidio'”. “La mia
prima valutazione, in attesa di conoscere meglio le decisioni prese
dalla procura, è decisamente negativa”, aveva dichiarato Luigi
Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”, tra i primi
a denunciare il caso Cucchi”. “C’è un elemento simbolico molto
importante che rischia di avere pesanti ripercussioni sull’opinione
pubblica. Stiamo parlando di un giovane uomo morto, e la parola
omicidio non compare nei capi di imputazione”. Parlando ai
microfoni di CNRmedia, Manconi ricorda che Cucchi fu “ricoverato
nel reparto detentivo del Pertini in quanto ha subito un pestaggio.
Questo nesso di causa ed effetto è stato ignorato”, continua
Manconi. “Questo è un errore estremamente grave che rischia di
compromettere l’andamento del processo”.