Danno esistenziale se vi è un colpevole ritardo nel permettere il pensionamento Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 10.02.2010 n° 3023
Per un ritardo di otto anni – causato da imperizia della Cassa
Nazione di Previdenza ed Assistenza a favore dei Geometri – la Corte di
Cassazione conferma la condanna di quest’ultima ad un risarcimento di
30.000,00 euro nei confronti del geometra che non ha potuto andare in
pensione a tempo debito: è stata indebitamente compressa la libertà di
adottare una legittima scelta di vita.
Fatto
Un
geometra, che chiameremo Tizio, esercita la propria professione
iscrivendosi alla relativa Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza,
e versandone i relativi contributi (di seguito “Primo Periodo”).
Qualche
anno dopo Tizio viene assunto alla dipendenze di un Comune e dunque
assoggettato ad un differente regime di assistenza e previdenza
obbligatoria.
Da ciò si determina il fatto che Tizio
rimane comunque iscritto al Collegio dei Geometri, ma deve versare
contributi alla relativa cassa in forma ridotta, come previsto dalla
legge.
Molti anni dopo Tizio fa domanda di riscatto dei
versamenti inerenti il Primo Periodo, ovvero quei versamenti a
contribuzione “piena” fatta alla Cassa Nazione di Previdenza ed
Assistenza a favore dei Geometri.
Detta operazione di
riscatto serviva a Tizio al fine di una ricongiunzione delle annualità
corrisposte ai fini pensionistici. La ricongiunzione avrebbe permesso
di anticipare l’ottenimento dei requisiti per la propria messa a
riposto nella sua qualità di dipendente pubblico e dunque la
possibilità per Tizio, una volta ottenuto il riposo, di dedicarsi ad
altre e differenti attività, anche e soprattutto lavorative (pare
infatti che avesse avuto proposte interessanti come consulente di un
casinò).
La Cassa Geometri negava tuttavia la domanda di
riscatto in base ad una interpretazione della normativa in materia – in
vero complessa – interpretazione poi disattesa dal Giudice adito che ha
stabilito il pieno diritto al riscatto di Tizio.
Detta
vicenda ha causato – con altre concause – un fatto: Tizio non riusciva
ad andare in pensione se non con circa otto anni di ritardo.
Il
ritardo di quasi una decade ha determinato la ferma intenzione di Tizio
a chiedere un cospicuo risarcimento alla Cassa Geometri, colpevole, a
detta del primo, di aver agito illegittimamente e di avergli causato un
grave danno.
Il Tribunale di prime cure rigettava la richiesta di risarcimento di Tizio.
La
Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto da Tizio
avverso l’iniqua decisione, riconosceva a quest’ultimo di aver patito
un danno per non aver potuto esercitare una legittima scelta di vita –
ovvero di essere stato “costretto” a continuare a lavorare nel
precedente impiego senza potersi dedicare ad altro – liquidando il
danno, in via equitativa, la soma di euro 30.000.
Il ricorso in Cassazione
Avverso
tale decisione ricorreva in Cassazione la Cassa Geometri adducendo, per
quel che qui interessa, il fatto che non poteva esserci danno alcuno in
merito al fatto che un soggetto dovesse continuare il proprio lavoro. O
meglio, la Cassa ricorrente ebbe a sostenere che il giudizio di appello
aveva equiparato tout court il fatto che Tizio fosse stato costretto al
lavoro con il fatto – tutto da dimostrare – che detta situazione sia
comparabile, per ciò solo, ad un danno.
In via gradata,
poi, la Cassa ricorrente eccepiva che la Corte d’Appello non avesse
concretamente individuato il bene giuridico leso, bene giuridico di
rango costituzionale che, in quanto tale, deve rifarsi, in ogni caso, a
principi costituzionalmente tutelati.
La sentenza
La
Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, evidenziava anzitutto
come la Corte d’Appello non avesse affatto equiparato la necessità di
lavorare con un danno di per sé, ma anzi aveva evidenziato una
posizione ovvia quanto condivisibile: il danno risiedeva nel fatto che
Tizio non avesse potuto operare autonomamente le proprie opzioni di
vita dipendenti dalla volontà di lasciare – con pensione – il posto di
lavoro dipendente, come aveva il diritto di fare.
Per quanto riguarda il danno morale conseguente, la Corte di Cassazione rileva come esso consista “in
quella somma di ripercussioni di segno negativo conseguenti alla
condotta posta in essere dalla Cassa, che aveva comportato la lesione
di specifici interessi costituzionalmente protetti, fra cui quello di
poter realizzare liberamente una propria, legittima, opzione di vita.”
Tenendo ben a mente, infatti, l’art. 2059 c.c. a seguito delle notissime sentenze n. 8827 e n. 8828
del 31 maggio 2003, con l’allargamento della previsione di danno
risarcibile anche al di fuori delle ipotesi di danno non patrimoniale
derivante da reato, quello che qui ci occupa è – a detta della Corte –
un evidente esempio di danno non patrimoniale inquadrabile come danno esistenziale, inerente la “sfera realizzatrice dell’individuo ed attinente al fare del soggetto offeso”, categoria distinta e differente dal danno morale o danno soggettivo puro, “riconducibile alla lesione dell’integrità psico-fisica e cioè alla compromissione della salute”.
Sulla
quantificazione del danno, poi, essendo materia di merito, nulla è
detto. La congruità dei trentamila euro per gli otto anni di ritardo,
dunque, rimane decisione ascrivibile alla sola Corte d’Appello.
Se
dunque non è qui possibile sostenere una sorta di parametro o di
“tabellizzazione” del danno esistenziale, si consiglia vivamente,
qualora si intraprenda un percorso processuale analogo, di spendere
tutto il proprio ingegno professionale a dimostrare, nel concreto e nel
modo più rigoroso possibile, la dimensione del pregiudizio subito.
Diversamente
(come a me pare nel caso di specie) il rischio è quello – dopo anni di
processo – di spuntare una vittoria alla Pirro, perché se otto anni di
lavoro “extra” valgon, in via equitativa meno di 4mila euro per anno –
e con spese legali parzialmente compensate – non so se il gioco valga
la candela.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 10 febbraio 2010, n. 3023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente
Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere
Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere
Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17175/2006 proposto da:
CASSA
ITALIANA DI PREVIDENZA E ASSISTENZA DEI GEOMETRI LIBERI PROFESSIONISTI,
in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA GREGORIO VII 108, presso lo studio
dell’avvocato SCONOCCHIA BRUNO, che la rappresenta e difende unitamente
all’avvocato CINELLI MAURIZIO, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
S.L.;
– intimato –
e sul ricorso 21167/2006 proposto da:
S.L.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio
dell’avvocato VESCI GERARDO, che lo rappresenta e difende unitamente
agli avvocati PUGLIESE ANTONIO, SARTORE LIVIO giusta delega a margine
del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
CASSA ITALIANA DI PREVIDENZA E ASSISTENZA DEI GEOMETRI LIBERI PROFESSIONISTI;
– intimata –
avverso la sentenza n. 390/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 01/06/2005 R.G.N. 393/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/12/2009 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;
udito l’Avvocato SCONOCCHIA BRUNO;
udito l’Avvocato SCHITTONE NICOLO’ per delega VESCI GERARDO;
udito
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI
Marco, che ha concluso per: accoglimento del ricorso principale,
rigetto dell’incidentale.
Svolgimento del processo
Con
ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Sanremo, ritualmente
notificato, S.L., premesso di essere iscritto al Collegio dei Geometri
della Provincia di Imperia sin dal 17.1.1961 ed alla Cassa Nazionale di
Previdenza ed Assistenza a favore dei Geometri sin datì1.1.1967,
esponeva che in data 1.3.1969 era stato assunto dal Comune di Sanremo
ed assoggettato quale dipendente pubblico ad altre forme di assistenza
e previdenza obbligatorie (CPDEL), pur mantenendo l’iscrizione al
Collegio dei Geometri ed alla Cassa Nazionale di Previdenza ed
Assistenza e pur continuando a versare, in maniera ridotta, i
contributi previdenziali dovuti alla predetta Cassa.
Aggiungeva
che in data 13.9.1990 aveva presentato alla Cassa Geometri domanda di
riscatto delle annualità pregresse dall’1.1.1961 al 31.12.1966, e,
contemporaneamente, domanda di ricongiunzione dell’intero periodo
assicurativo dall’1.1.1961 al 28.2.1969 a quello successivo maturato
presso la CPDEL; ciò in quanto era sua intenzione chiedere il
collocamento a riposo quale dipendente pubblico per riprendere ad
esercitare la sua professione di geometra oppure per intraprendere
l’attività di consulente esterno del Casinò Municipale di Sanremo.
La
Cassa Geometri tuttavia non aveva accolto la domanda sulla base di una
interpretazione della normativa in materia rivelatasi errata in sede
giurisdizionale atteso che il Tribunale di Sanremo, con sentenza
passata in giudicato, aveva definitivamente accertato il diritto del
ricorrente ad ottenere il riscatto delle annualità pregresse e la
ricongiunzione ai fini pensionistici dell’intero periodo assicurativo.
Ciò
aveva comportato, a seguito di ulteriori ritardi dovuti al blocco
introdotto con la finanziaria 1997, che il pensionamento di esso
ricorrente era avvenuto solo nell’anno 1998.
Ritenendo
pertanto che l’illegittimo comportamento della Cassa gli avesse
arrecato ingenti danni, chiedeva la condanna della predetta al relativo
risarcimento.
Con sentenza in data 2.4.2003 il Tribunale adito rigettava la domanda.
Avverso
tale sentenza proponeva appello il S. lamentandone la erroneità sotto
diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con
il ricorso introduttivo.
La Corte di Appello di Genova,
con sentenza in data 27.4.2005, in parziale accoglimento del gravame,
condannava la Cassa appellata al pagamento della somma di Euro
30.000,00, liquidata equitativamente, a titolo di risarcimento del
danno per non avere il ricorrente potuto esercitare una legittima
scelta di vita; rigettava per il resto l’appello proposto e poneva a
carico della Cassa metà delle spese di entrambi i gradi del giudizio,
compensando tra le parti la restante metà.
Avverso
questa sentenza propone ricorso per cassazione la Cassa di Previdenza
ed Assistenza dei Geometri con tre motivi di impugnazione.
Resiste con controricorso l’intimato, che propone a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo di gravame.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente
va disposta la riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c., dei due ricorsi
perchè proposti avverso la medesima sentenza.
Col primo
motivo di gravame la Cassa lamenta violazione degli artt. 1218, 1223,
2059, 2697, 2727 e 2729 c.c., e degli artt. 112, 414 e 437 c.p.c.,
(art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
In particolare rileva
la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto
l’esistenza di un danno non patrimoniale alla persona per non avere il
S. potuto “esercitare una legittima scelta di vita”, non avendo
rilevato che il predetto aveva omesso di indicare in concreto il bene
della vita del quale assumeva il pregiudizio, e che il relativo capo
della domanda era stato formulato per la prima volta nell’atto di
appello.
Col secondo motivo di gravame la Cassa
ricorrente lamenta vizio di motivazione sotto i profili della
insufficienza, della illogicità e della contraddittorietà (art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5).
In particolare rileva che la
Corte territoriale, nel ritenere la “lesione di un interesse di rango
costituzionale inerente alla persona”, non aveva indicato il precetto
costituzionale violato, nè l’individuazione di esso era altrimenti
ricavabile.
E rileva altresì che in maniera illogica e
contraddittoria la Corte territoriale aveva ritenuto che il danno in
questione risultasse provato dall’avere il S. per otto anni protratto
la propria attività lavorativa, ritenendo, in maniera aprioristica ed
aberrante, il “lavoro” come “danno”.
Col terzo motivo di
gravame la Cassa ricorrente lamenta violazione degli artt. 1176, 1175,
1218, 1225 e 1227 c.c., e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3
e 5).
Rileva in particolare che erroneamente la Corte
territoriale aveva ritenuto l’esistenza del dedotto danno alla persona,
avendo la Cassa operato nel pieno rispetto dei propri compiti
istituzionali, tra i quali sicuramente rientrava anche quello di
procedere, specie a fronte di casi dubbi, alle opportune verifiche,
affinchè la legge potesse trovare puntuale applicazione e l’interesse
pubblico, affidato alla sua cura, non venisse leso; nè poteva ritenersi
indicativa di alcuna responsabilità per colpa a carico della ricorrente
la circostanza che in sede giurisdizionale i giudici di merito avessero
disatteso la tesi sostenuta dalla Cassa.
Rileva altresì
che le domande di riscatto e di ricongiunzione, proposte dal S., non
avrebbero potuto comunque essere immediatamente evase, stante la
necessità dello svolgimento della relativa procedura.
Col
ricorso incidentale proposto il S. lamenta violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., e degli artt. 414 –
416 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ed al parametro
reddituale minimo di cui alla L. n. 438 del 1992.
In
particolare rileva il ricorrente incidentale che erroneamente la Corte
territoriale aveva ritenuto non provata la intenzione di riprendere la
propria attività lavorativa, sebbene si trattasse di circostanza
pacifica tra le parti, di cui aveva dato atto la stessa Cassa nella
memoria costitutiva in appello; e ciò anche in considerazione del fatto
che il legislatore, con la previsione ai sensi della legge n. 438 del
1992 di un reddito minimo per l’iscrizione all’albo professionale,
aveva stabilito una presunzione vincolante circa la valutazione dello
svolgimento di attività professionale.
Il ricorso principale non è fondato.
Ed
invero, per quel che riguarda i primi due motivi di gravame, che il
Collegio ritiene di dover trattare congiuntamente avuto riguardo alla
stretta connessione esistente fra gli stessi, occorre osservare quanto
segue.
Deve innanzi tutto escludersi che la domanda di
risarcimento della suddetta forma di danno non patrimoniale sia stata
proposta per la prima volta in grado di appello ove si osservi che, per
come risulta dal contenuto del presente ricorso per cassazione, già nel
ricorso introduttivo del giudizio il ricorrente aveva lamentato “di
aver dovuto prolungare per quasi otto anni il rapporto di lavoro alle
dipendenze del Comune di (OMISSIS)”; e pertanto, la censura sollevata
in grado di appello di non aver potuto “realizzare una propria
legittima opzione di vita” costituisce evidente esplicazione della
dedotta compressione della propria sfera di autodeterminazione che, a
prescindere dalla terminologia adoperata, non modifica in alcun modo
l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia.
Osserva
in proposito il Collegio che la ratio della disposizione di cui
all’art. 112 c.p.c., è quella di impedire che possano trovare
accoglimento domande sulle quali controparte non è stata in grado di
difendersi, perchè proposte successivamente all’atto introduttivo del
giudizio, con il quale viene a delimitarsi il thema decidendum.
Devesi
in proposito evidenziare che nel processo del lavoro si ha introduzione
di una domanda nuova per modificazione della causa petendi, non
consentita in appello, allorchè si introducono elementi nuovi o quando
gli elementi prospettati in giudizio, se pur già esposti nell’atto
introduttivo, vengono dedotti in grado di appello con una differente
portata, atteso che in tal modo non viene in rilievo solo una diversa
qualificazione giuridica dei fatti, ma si introduce nel giudizio un
nuovo tema di indagine che altera l’oggetto sostanziale dell’azione ed
i termini della controversia, con conseguente violazione della lealtà
del contraddittorio ma soprattutto del principio del doppio grado di
giurisdizione (Cass. sez. lav., 23.3.2006 n. 6431; Cass. sez. lav.,
20.10.2005 n. 20265).
Siffatta situazione non ricorre
nel caso di specie in cui il ricorrente, prospettato in primo grado il
danno consistente nell’aver dovuto prolungare per otto anni la propria
attività lavorativa, in sede di gravame ha in buona sostanza
ulteriormente precisato che in tal modo non aveva potuto adottare una
legittima scelta di vita.
Quindi nessuna immutazione o novità della domanda può ravvisarsi nel caso di specie.
Per
quel che riguarda la censura concernente la ritenuta sussistenza di un
danno esistenziale, osserva il Collegio che una corretta impostazione
della questione in parola postula un sia pur breve richiamo alle
vicende che hanno riguardato la problematica del risarcimento del danno
non patrimoniale, quale conseguenza ex art. 2059 c.c., del fatto
dannoso.
E’ noto che con le sentenze del 31.5.2003, nn.
8827/03 ed 8828/03, questa Corte di legittimità, partendo da un’analisi
storica dell’originario ambito di applicazione della norma di cui
all’art. 2059 c.c., dopo aver evidenziato come all’epoca
dell’emanazione del codice civile potesse essere risarcito soltanto il
danno non patrimoniale derivante da reato (e cioè il danno morale) ai
sensi dell’art. 185 c.p., ha operato una attenta ricostruzione del
nostro sistema dei danni non patrimoniali risarcibili, ed ha svincolato
l’ipotesi risarcitoria dalla concreta esistenza del fatto reato,
fissando al tempo stesso criteri idonei per evitare la sovrapposizione
delle diverse voci di danno create dalla prassi giurisprudenziale.
La
nuova dislocazione dei danni alla persona nell’ambito dell’art. 2059
c.c., appare senz’altro idonea non solo a far superare le difficoltà
relative alla selezione del danno non patrimoniale risarcibile, ma
anche a rendere possibile la soluzione di molti dei problemi che
sorgono con riferimento alle tecniche di valutazione e di liquidazione
del danno non patrimoniale.
Coerentemente al contenuto
di tali pronunce la giurisprudenza ha individuato, nell’ambito del
danno non patrimoniale risarcibile ex art. 2059 c.c., la categoria del
danno morale, o danno soggettivo puro, riconducibile alla sofferenza
morale soggettiva, quella del danno biologico, riconducibile alla
lesione dell’integrità psico-fisica e cioè alla compromissione della
salute, e quella del danno esistenziale, riconducibile alla sfera
realizzatrice dell’individuo ed attinente al “fare” del soggetto offeso.
Tale
premessa si appalesa indispensabile al fine di una corretta
ricostruzione sistematica, nella vicenda in esame, delle poste di danno
non patrimoniale risarcibili.
Orbene, nel caso di specie
il ricorrente ha lamentato l’esistenza del danno consistente nel non
aver potuto adottare una legittima scelta di vita. Non può pertanto
dubitarsi, siccome correttamente rilevato dalla Corte territoriale,
della esistenza del danno dedotto, consistente in quella somma di
ripercussioni di segno negativo conseguenti alla condotta posta in
essere dalla Cassa, che aveva comportato la lesione di specifici
interessi costituzionalmente protetti, fra cui quello di poter
realizzare liberamente una propria, legittima, opzione di vita.
Nè
può ritenersi che la Corte territoriale abbia omesso di indicare il
precetto costituzionale violato, che – secondo la prospettiva di parte
ricorrente – non sarebbe comunque altrimenti ricavabile, atteso che la
tutela dei diritti di libertà costituisce il fondamento e la base
primaria della nostra Carta costituzionale che dedica agli stessi la
parte iniziale recante appunto l’intestazione “diritti fondamentali”.
Da
rilevare infine che chiaramente inaccettabile si appalesa l’assunto di
parte ricorrente secondo cui, con motivazione illogica e
contraddittoria, i giudici di merito avrebbero ritenuto che la
protrazione dell’attività lavorativa costituisce una forma di danno,
ove si osservi che in realtà il danno ritenuto dalla Corte territoriale
consiste nella denegata possibilità da parte del S. di operare
autonomamente le proprie opzioni di vita, anche in campo lavorativo.
Sul punto il ricorso non può pertanto trovare accoglimento.
Del pari infondato è il terzo motivo del ricorso principale.
Osserva
il Collegio che l’interpretazione e la valutazione della sentenza che
aveva ritenuto la illegittimità della condotta posta in essere nel caso
di specie dalla Cassa ricorrente si risolve in un giudizio di fatto
eseguito dai giudici investiti della istanza risarcitola in esito alla
sentenza predetta, ed è censurabile in sede di legittimità solo se
siano violati i criteri giuridici che regolano l’estensione ed i limiti
del giudicato e se il procedimento interpretativo seguito dai giudici
del merito non sia immune da vizi logici o errori in diritto (Cass.
sez. 1^, 14.4.2004 n. 7062; Cass. sez. lav., 5.9.2002 n. 12901; Cass.
sez. 3^, 4.4.2001 n. 4978).
Orbene, nel caso di specie
la Corte territoriale, nel rilevare che la condotta della Cassa era
stata giudicata illegittima da due pronunce giudiziali assolutamente
uniformi con le quali la stessa era stata anche condannata al pagamento
delle spese processuali, ha evidenziato che il diniego frapposto alla
richiesta dal S. non risultava fondato su circolari interne, o su
precedenti giurisprudenziali, o su una prassi già adottata in casi
analoghi, ed è pertanto pervenuta alla conclusione che non poteva
parlarsi di adempimento diligente da parte della Cassa.
Di
conseguenza, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le
ragioni che rendevano pienamente contezza del proprio convincimento
esplicitando l’iter motivazionale attraverso cui era pervenuto alla
propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa
sede di legittimità.
Deve ritenersi pertanto che il
diniego, riconosciuto in sede giudiziale non giustificato, frapposto
dalla Cassa alla legittima richiesta dell’assicurato, costituisce una
forma di imperizia, e quindi di colpa, generatrice di responsabilità
sotto il profilo civilistico.
Del tutto irrilevante si
appalesa l’ulteriore rilievo concernente l’impossibilità di evadere
immediatamente le domande di riscatto e di ricongiunzione proposte dal
S. stante la necessità di una istruttoria in proposito, atteso che il
danno lamentato non è correlato al ritardo bensì al rigetto delle
domande proposte.
Da rilevare infine che l’esigenza di
congruo lasso temporale per l’espletamento delle richieste non rileva
neanche ai fini della quantificazione del danno, versandosi in tema di
liquidazione equitativa nella quale la Corte territoriale ha tenuto
conto – in una valutazione globale – di una serie di parametri, fra cui
il mancato pensionamento protrattosi per “circa” otto anni.
Il ricorso proposto dalla Cassa non può pertanto trovare accoglimento.
Del pari infondato è il ricorso incidentale proposto dal S..
Anche
in tal caso rileva il Collegio che trattasi di motivo che involge in
realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, valutazione non
consentita in sede di giudizio di legittimità.
Devesi
sul punto evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della
sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di
legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di
controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della
coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del
merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le
fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell’iter
logico – argomentativo seguito per giungere ad una determinata
conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto
il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della
stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel
ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente
del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia,
ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del
procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass.
sez. 1^, 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1^, 21.8.2006 n. 18214; Cass.
sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330;
Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3^, 15.4.2000 n. 4916).
E
sul punto deve altresì ribadirsi l’indirizzo consolidato in base al
quale la valutazione delle risultanze probatorie involge apprezzamenti
di fatto riservati al giudice del merito, il quale nell’adottare la
propria decisione non incontra altro limite che quello di indicare le
ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni
singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (Cass. sez.
lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez.
lav., 15.4.2004 n. 7201; Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933; Cass. sez.
lav., 9.4.2001 n. 5231).
In altri termini, il controllo
di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di
legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”,
ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una
determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione
siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione
del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe
affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di
legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal
ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente –
vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di
legittimità.
Orbene nel caso di specie la Corte
territoriale ha evidenziato che l’intenzione da parte del S. di
riprendere la professione era rimasta de tutto indimostrata. Nè tale
intenzione poteva in alcun modo ritenersi un dato acquisito agli atti
del processo in quanto riconosciuto dalla Cassa medesima, atteso che la
stessa aveva in realtà ritenuto non ipotizzabile il danno che il S.
pretendeva di aver subito per non aver potuto beneficiare della
pensione e svolgere una attività professionale; di talchè la Cassa si
era solamente limitata a prendere atto delle dichiarazioni del S. circa
l’intendimento di riprendere l’attività professionale, ma in realtà
siffatta intenzione non si era estrinsecata in alcun concreto
comportamento, essendo rimasta al livello di pura affermazione o
intendimento.
Del pari la Corte territoriale ha
correttamente posto in rilievo che nessun parametro concreto ed
oggettivo al quale ancorare una previsione di reddito futuro era stato
fornito dal ricorrente, non potendo valere “il riferimento effettuato
alla c.d. legge sulla minimum tax, dettata ad altri fini e con altri
presupposti” e, rileva il Collegio, non potendosi assolutamente
ritenere che la L. n. 438 del 1992, abbia fissato una presunzione
vincolante la discrezionalità del giudice circa la previsione di
reddito futuro.
In conclusione, il motivo si risolve in
parte qua in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del
giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da
esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav.,
28.1.2008 n. 1759).
Il ricorso incidentale va di conseguenza rigettato.
Ricorrono
giusti motivi, stante il mancato accoglimento di entrambe le
impugnazioni, principale ed incidentale, proposte, per dichiarare
interamente compensate tra le parti le spese relative al presente
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese relative al presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2010.