Dare del pazzo al proprio capo non è reato
(Cassazione penale, sez. V , sentenza 7 maggio 2010, n. 17672)
Il fatto
La frase era ascoltata anche da Sempronio, capo dell’ufficio contabilità, e una dipendente dello studio riferiva il tutto a Caio con una lettera.
Caio querelava Tizio per diffamazione, ma, in primo grado il tribunale, con sentenza del luglio 2004, lo assolveva per insussistenza del fatto, poiché veniva ritenuta credibile la versione dei fatti fornita dal teste Mevio, secondo cui la frase incriminata era stata pronunciata in termini ipotetici, e, per quanto molto polemica, era una semplice critica all’organizzazione dello studio. La sentenza veniva appellata. La Corte di Appello, con sentenza emessa nel dicembre 2008, riteneva, invece, maggiormente attendibile la dipendente che aveva informato per lettera Caio del giudizio poco lusinghiero su di lui espresso da Tizio, escludeva che la frase fosse ipotetica, ed affermava la portata diffamatoria della frase ed in particolare dell’epiteto “pazzo”. Tuttavia, dichiarava estinto il reato per prescrizione e condannava l’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separata sede.
Tizio faceva ricorso ai giudici della Cassazione, con due motivi di censura.
Col primo lamentava la violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 546 c.p.p., comma 1, ed il vizio di motivazione perchè era stata ritenuta dalla Corte di merito più attendibile la dipendente con cui lui aveva parlato e che poi aveva riferito con lettera all’avvocato Caio. Col secondo, lamentava violazione dell’art. 595 c.p., non essendo sussistenti gli elementi costitutivi del reato contestato, e ciò sia perchè l’intera frase non era riferibile a Caio, sia perchè la stessa non era idonea a lederne la reputazione, in quanto “pazzo” è oramai termine di uso comune. Inoltre il ricorrente poneva in evidenza che non era cosciente di comunicare con più persone e lamentava che sul punto la motivazione fosse carente. Pertanto chiedeva che la sentenza appellata fosse annullata.
La normativa
Codice penale
Art. 595. Diffamazione.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Codice di procedura penale
Art. 125. Forme dei provvedimenti del giudice.
1. La legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell’ordinanza o del decreto.
4. Il giudice delibera in camera di consiglio senza la presenza dell’ausiliario designato ad assisterlo e delle parti. La deliberazione è segreta.
5. Nel caso di provvedimenti collegiali, se lo richiede un componente del collegio che non ha espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l’indicazione del dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell’ufficio.
6. Tutti gli altri provvedimenti sono adottati senza l’osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente.
Art. 546. Requisiti della sentenza.
1. La sentenza contiene:
a) l’intestazione «in nome del popolo italiano» e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti private;
c) l’imputazione;
d) l’indicazione delle conclusioni delle parti;
e) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie;
f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
g) la data e la sottoscrizione del giudice.
2. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Se, per morte o altro impedimento, il presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell’impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l’estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell’impedimento, provvede il solo presidente.
3. Oltre che nel caso previsto dall’articolo 125 comma 3, la sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del giudice.
In particolare affronta il caso di un avvocato, Tizio, collaboratore del titolare dello studio, verso il quale, in presenza di altre persone che lavoravano anch’esse, a vario titolo nello stesso studio, si lasciava andare ad apprezzamenti verso il capo, definito “pazzo” perché era uso circondarsi di “yesmen”, nuocendo così all’organizzazione del lavoro interna allo studio.
Querelato dal suo avvocato, veniva assolto in primo grado per insussistenza del fatto.
In secondo grado, veniva riconosciuta la condotta criminosa di Tizio, il cui reato era prescritto, ma non così i suoi obblighi risarcitori verso la parte lesa, da liquidarsi in sede civile.
La soluzione accolta dalla suprema Corte
La Cassazione accoglie il ricorso.
Dopo aver ricostruito i fatti, e cioè che Tizio dava del pazzo al suo capo perché si circondava di collaboratori che, per quieto vivere, gli davano sempre ragione, definiti da lui “leccaculo” (ma che non querelavano Tizio, pur essendo stati evidentemente da lui diffamati) i giudici ritengono che le parole incriminate non vanno valutate in ragione dell’ utilizzo (se in termini ipotetici o assertivi), come era accaduto nei giudizi di merito, poiché l’ipoteticità o l’assertività, in rebus ipsis, nulla toglierebbero alla sussistenza del reato, posto che erano state pronunciate in presenza di più persone.
Ed invece, occorre valutare il loro significato e la loro scaturigine.
Infatti, Tizio aveva parlato nei termini ricordati perché esasperato da un lungo pregresso di disaccordi con Caio sull’organizzazione dello studio, laddove i suoi colleghi, ed altri lavoranti, non dissentivano mai.
Dunque, Tizio aveva diffamato i suoi colleghi, definiti ex abrupto, “leccaculo” ma non aveva diffamato nessuno quando aveva dato del “pazzo” al suo capo, usando una parola ormai divenuta, come “scemo” e “cretino”, di uso comune, avendo perso, con l’uso, la carica diffamatoria.
Per Tizio, “pazzo” era una definizione che si riferiva al fatto che il capo si circondava di “leccaculo”, con ciò rinunciando ad avere un confronto franco con i suoi collaboratori a danno dell’attività lavorativa nello studio. Dando del “pazzo” a Caio, insomma, intendeva stigmatizzare un comportamento del suo capo non improntato alla discussione e all’accettazione delle critiche, volte a migliorare i criteri organizzativi dello studio.
E per quanto l’espressione non sia né raffinata né elegante, ed abbia espresso in maniera rozza il suo pensiero, cionondimeno non si può affermare che abbia connotato le sue parole di valenza diffamatoria. E ciò tenuto conto sia delle modalità che della finalità che si proponeva di raggiungere con le sue parole.
Pertanto, correttamente, la sez. V penale della Corte di Cassazione accoglie il ricorso, annullando la sentenza senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.