Delitto Magic World, i supertestimoni ritrattano le accuse in aula
Il colpo di scena arriva pochi attimi prima della fine del processo, quando la Corte d’assise era pronta a ritirarsi in camera di consiglio. Dall’ingresso del Tribunale arriva una notizia che spiazza tutti: sono presenti e hanno chiesto di essere interrogati i due testimoni oculari dell’omicidio del Magic world.
Qualcosa in più di un colpo di teatro, che per pm e giudici va ricondotto al clima di minacce, intimidazioni, violenza personale e «finanche a una non improbabile dazione di denaro in cambio di una ritrattazione». Aula 116, 9.30, i due supertesti ci sono: mamma e figlio, fino a ieri autentici «fantasma» in fuga da possibili vendette dalla camorra. Lui, ancora minorenne, lei che chiede e ottiene di essere interrogata.
Mamma e figlio – formalmente irreperibili dallo scorso 23 settembre – parlano e ritrattano le accuse rese subito dopo l’omicidio di Nunzio Cangiano, messo a segno il dieci agosto del 2007 all’esterno del Magic world di Licola. È servito a poco, se non a raccontare un’altra pagina sinistra della camorra di Secondigliano.
Dopo una camera di consiglio di poche ore, la Corte d’assise (presidente Adriana Pangia) non ha creduto a una parola della affannosa ritrattazione dei due testi e accoglie in pieno le conclusioni del pm anticamorra Luigi Alberto Cannavale, al termine delle indagini del colonnello Fabio Cagnazzo in forza a Castello di Cisterna: ergastolo per l’imputato Mario Buono, ritenuto killer di fiducia del clan Di Lauro.
Ergastolo, dunque, al di là della versione raccontata ieri dai due testi last minute che, non senza contraddizioni, hanno fatto di tutto per cancellare le accuse rese due anni fa, pochi minuti dopo l’omicidio. Ci ha provato prima la donna: «Sono analfabeta, non so cosa ho firmato quel pomeriggio, non ricordo nulla». E ripensando all’incidente subito un anno fa, minimizza: «Non sono stata investita, finii in ospedale in modo accidentale. Fu una caduta e venni soccorsa da un ragazzo in moto».
Il pm Cannavale la incalza, chiedendo le ragioni «dell’improvviso sussulto di giustizia». E la donna va fino in fondo: «Non sapevo che i carabinieri mi cercavano, sono venuta oggi perché mio figlio mi ha detto che aveva dei dubbi su quanto dichiarato ai carabinieri, il resto (compresa la data dell’udienza di oggi) l’ho appreso dai giornali e dalla televisioni che hanno lanciato la notizia della nostra fuga. Non siamo mai scappati, siamo stati un po’ all’estero, io e i miei tre figli, poi sono tornata a Napoli, dove vivo facendo pulizie a domicilio, non so altro».
Il pm ribatte: «Parole dettate da paura, da probabili intimidazioni. A voler essere cattivi, sono stati pagati per ritrattare». Inevitabile la denuncia per false dichiarazioni al pm. Poi Tocca al penalista Diego Abate, difensore di Buono: «La signora è in uno stato psicologico penoso, non c’è contezza delle presunte minacce e intimidazione. Ha appreso dalla stampa del processo che la riguardava ed è venuta a dire che lei di questa storia non ricorda granché».
Ma il clou è nell’intervento del ragazzino: ha quindici anni, due in più di quando era in fila per una giornata di svago all’esterno dell’acquapark. Fisicamente cresciuto, fortemente turbato, si sforza di recitare un copione che avrà ripassato a mente chissà quante volte: «Non ricordo niente, sto qua perché me l’ha detto mamma.
Faccio il barista, non so come si chiama il bar, non ricordo di aver accusato i killer». Unico ricordo certo: «Li ho visti di spalle: erano alti un metro e ottantacinque e molto robusti (l’esatto contrario di Buono, alias topolino, che non è alto ed è mingherlino, ndr). Tutto falso quello che dissi due anni fa e comunque non ricordo altro».
L’ultima scena, tocca ancora al minorenne, che posa il microfono, si volta per lasciare l’aula e incrocia per un attimo lo sguardo del presunto killer dietro le sbarre. I due si fissano dopo la ritrattazione, si guardano per pochi attimi il teste smemorato e l’imputato di omicidio.
Cinque ore dopo, la sentenza: «Buone le prime dichiarazioni dei testimoni – fa capire il giudice – il resto è frutto di pressioni o dazioni di denaro. Così in primo grado, dunque: carcere a vita per il killer, fine pena mai».