DENTRO LE AULE PROCESSI CHE NON FINISCONO MAI: 3.612 ISTRUTTORIE CONTRO LE TOGHE E 3.612 ASSOLUZIONI
di Gian Antonio Stella
Cosa avete in agenda il 27 febbraio 2020? «Che razza di domanda!», direte
voi. Eppure un paio di braccianti pugliesi, quel giovedì che arriverà fra
dodici anni abbondanti, quando sarà un vecchio rottame (calcisticamente)
perfino il baby Pato, hanno dovuto segnarselo su un quaderno: appuntamento
in tribunale. Così gli avevano detto: se il buon Dio li manterrà in salute
(hanno già passato la settantina: forza nonni!), se quel giorno non verranno
colpiti da un raffreddore, se il giudice non avrà un dolore cervicale, se il
cancelliere non sarà in ferie, se gli avvocati non saranno in agitazione, se
l’Italia non sarà bloccata da uno sciopero generale con paralisi di tutto,
se non mancherà qualche carta bollata, se non salterà la corrente elettrica,
Sua Maestà la Giustizia si concederà loro in udienza. E potranno finalmente
discutere della loro causa contro l’Inps.
Dopo di che, auguri. Di rinvio in rinvio, col ritmo delle nostre vicende
giudiziarie, già immaginavano una sentenza tra il 2025 e il 2030. Magari
depositata, cascando su un giudice pigro, verso il 2035. Già centenari.Ma
niente paura: sulla base della legge Pinto avrebbero potuto ricorrere in
Appello contro la lentezza della giustizia. E ottenere l’«equa riparazione »
per avere aspettato tanto. Certo, avrebbero dovuto avere pazienza: da 2003
al 2005 i ricorsi di questo tipo sono infatti raddoppiati (da 5.510 a
12.130) e in certi posti come Roma ci vuole già oggi un’eternità (due anni)
per vedersi riconoscere di avere atteso un’eternità. Quanto ai soldi del
risarcimento, ciao. Le somme che lo Stato è costretto a tirar fuori ogni
anno continuano a montare, montare, montare.
E per quella lontana data non è detto che ci sia ancora un centesimo. Il
presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, del resto, l’ha già detto: «Se lo
Stato italiano dovesse risarcire tutti i danneggiati dalla irragionevole
durata dei processi, non basterebbero tre leggi finanziarie». Diagnosi
infausta confermata il mese scorso dal ministero dell’Economia. Secondo il
quale i cittadini che hanno «potenzialmente diritto all’indennizzo» per i
processi interminabili sono «almeno 100mila» l’anno. Mettete che abbiano
diritto a strappare in media 7 mila euro ciascuno e fate il conto. Erano già
rassegnati, i due braccianti, a darsi tempi biblici quando il Tribunale, per
evitare una figuraccia, li ha in questi giorni richiamati: era tutto un
errore, l’appuntamento è solo nel 2013. Ah, solo nel 2013! Solo fra cinque
anni! Ecco com’è, il libro sulla giustizia italiana scritto da Luigi
Ferrarella e titolato, con un malizioso richiamo alla dannazione eterna,
«Fine pena mai»: un libro sospeso tra il ridicolo e l’incubo.
Un formidabile reportage su un pianeta che tutti pensiamo di conoscere e che
scopriamo di non conoscere affatto. Almeno non fino in fondo. Fino agli
abissi di numeri e situazioni incredibili. Un racconto che trabocca di
storie, aneddoti, personaggi curiosi e surreali ma che allo stesso tempo non
concede un grammo al populismo, alla demagogia, al qualunquismo. E che
proprio grazie a questa sobrietà ricca di humour ma esente da ogni invettiva
caciarona, in linea con lo stile di Ferrarella che i lettori del Corriere
bene conoscono, rappresenta la più lucida, netta e spietata requisitoria
contro un sistema che rischia di andare a fondo. E di tirare a fondo
l’intero Paese. Sia chiaro: non ci sono solo ombre, nella giustizia
italiana. Di più: se ogni giorno si compie il miracolo di tanti processi che
arrivano in porto, tante udienze che vengono aperte, tanti colpevoli che
finiscono in galera e tanti innocenti che ottengono l’assoluzione, è merito
di migliaia di persone perbene, giudici, cancellieri, impiegati, fattorini,
che si dannano l’anima in condizioni difficilissime. Se non proprio
disperate.
Ma certo, anche le luci mostrano quanto sia buio il contesto. Bolzano, che
nonostante un buco del 45% negli organici riesce ad aumentare la
produttività, ridurre l’arretrato e insieme dimezzare le spese abbattendo
addirittura del 60% i costi delle intercettazioni fa apparire ancora più
scandalosi i contratti stipulati separatamente dai diversi tribunali per
l’affitto delle costose apparecchiature necessarie al «Grande Orecchio »,
affitto che configurava «uno sconcertante ventaglio dei costi da 1 a 18 per
lo stesso servizio». Torino, «capace tra il 2001 e il 2006 di ridurre di un
terzo il carico pendente del contenzioso ordinario civile: una performance
che, se imitata da tutti i tribunali italiani, in cinque anni avrebbe
ridotto di 238 giorni il tempo medio di attesa di una sentenza civile»
dimostra quanto siano incapaci di una reazione all’altezza la stragrande
maggioranza degli altri uffici, dove si è accumulato un «debito giudiziario»
spaventoso: «4 milioni e mezzo di procedimenti civili e 5 milioni di
fascicoli penali». Una «macchina» sgangherata e infernale. Che «consuma più
di 7,7 miliardi di euro l’anno» e per cosa? «Per impiegare in media 5 anni
per decidere se qualcuno è colpevole o innocente; per far prescrivere da 150
a 200mila procedimenti l’anno, record europeo; per incarcerare ben 58
detenuti su 100 senza condanne definitive; per dare ragione o torto in una
causa civile dopo più di 8 anni, per decidere in 2 anni un licenziamento in
prima istanza; per far divorziare marito e moglie in sette anni e mezzo; per
lasciare i creditori in balia di una procedura di fallimento per quasi un
decennio; per protrarre 4 anni e mezzo un’esecuzione immobiliare».
Ma certo che ci sono raggi di sole. A Milano, per esempio, dall’11 dicembre
2006 si possono «emettere decreti ingiuntivi telematici. Il risultato del
primo anno è stato fare guadagnare a cittadini e imprese richiedenti dai 12
ai 14 milioni di euro: cioè i soldi fatti loro risparmiare, nella differenza
tra costo del denaro al 4% e tasso di interesse legale al 2,50%, dal fatto
di poter disporre con quasi due mesi d’anticipo dei 700 milioni di euro che
costituiscono il valore dei circa 3.500 decreti ingiuntivi emessi. Un
effetto leva pazzesco: 100mila euro spesi per investire nella tecnologia, ma
già 12-14 milioni di euro di ritorno per la collettività nel primo anno».
Qual è la lezione? Ovvio: occorre assolutamente investire sulle nuove
tecnologie. Macché. «Fine pena mai» dimostra che, dovendo tagliare e non
avendo il fegato di tagliare là dove si dovrebbe ma dove stanno le
clientele, le amicizie, le reti di interessi, hanno via via deciso di
tagliare in questi anni perfino le email, gli accessi a Internet, l’acquisto
di programmi elettronici, la messa a punto di software specifici,
l’assistenza informatica.
L’ultimo somaro sa che se non puoi contare su un’assistenza efficiente,
addio: il tuo computer può improvvisamente diventare inutile come un’auto
senza ruote. Bene: su questo fronte «la disponibilità del ministero per il
2006 copre appena il 5% del fabbisogno annuale ». Auguri. Per non dire del
casellario ancora aggiornato in larga parte manualmente e che dovrebbe
diventare totalmente informatico quest’anno (e vai!) nonostante dovesse
esserlo già dal 1989 (diciotto anni fa) e per questa sua arretratezza ha
consentito ad esempio a una nomade «fermata in varie città 122 volte per
furti o borseggi, e condannata a segmenti di pena di 6/9 mesi per volta» di
totalizzare «in teoria 20 anni di carcere senza mai fare nemmeno un giorno
in prigione». Colpa dei ministri di destra e di sinistra che si sono
succeduti ammucchiando «troppe riforme» spesso in contraddizione l’una con
l’altra. Del Parlamento che ha via via affastellato leggi su leggi votando
ad esempio 19 modifiche alla custodia cautelare in tre decenni.
Dei politici che non hanno mai trovato la forza, il coraggio, lo spirito di
servizio per dare «insieme» una nuova forma a un sistema giudiziario che
ormai è così sgangherato che riesce a recuperare «soltanto dal 3% al 5%»
delle pene pecuniarie, con una perdita secca annuale di 750 milioni di euro,
cioè sette miliardi in un decennio, «nonché di 112 milioni di euro di spese
processuali astrattamente recuperabili ». Così cieco che, taglia taglia,
offre per le spese agli uffici giudiziari di Campobasso 138 mila euro e poi
ne spende un milione, sette volte di più, per risarcire i cittadini vittime
della giustizia troppo lenta anche per mancanza di fondi. E i magistrati?
Tutti assolti? Ma niente affatto, risponde Ferrarella. Il quale non fa
sconti a nessuno. E se riconosce qualche buona ragione a chi tende a
inquadrare certi ritardi «nel contesto», contesto che è «il migliore
avvocato difensore » del giudice sotto accusa, non manca di denunciare
assurdità che gridano vendetta. Possibile che perfino chi si «dimenticò » in
galera 15 mesi un immigrato se la sia cavata con una semplice censura perché
«era la prima volta»? Che non abbia pagato dazio neanche chi ha depositato
sentenze «riguardanti cause decise più di sette anni prima»? Che 3.612
istruttorie aperte per accertare la responsabilità delle «toghe» in 3.612
casi di indennizzo per processi troppo lenti si siano concluse con 3.612
assoluzioni?
semplicemente… MI VIENE DA PIANGERE!! La dicitura in maiuscolo è causale e non casuale.