Denuncia il collega assente: scelta deplorevole, per il superiore. Che si becca una condanna per diffamazione
Un agente di Polizia municipale segnala la «assenza ingiustificata dal servizio» di un collega, e per questo è censurato dal Comandante, che definisce tale condotta «deplorevole». A far chiarezza provvede la giustizia, condannando il Comandante per il reato di diffamazione ai danni dell’agente (Cassazione, sentenza 10192/13). Casus belli, come detto, la scelta – di «grande senso civico», secondo i giudici – di un agente di Polizia municipale di portare alla luce il pessimo comportamento tenuto da un collega, assentatosi ingiustificatamente dal servizio.
Ma lo scontro, paradossalmente, non è tra i due componenti del Corpo, bensì tra l’agente che ha ‘segnalato’ il collega e il Comandante, che addirittura prende cara e penna per censurare al sindaco del Comune – e al medico del lavoro dell’Ente – l’azione compiuta dall’agente, che si è rivolto «ad autorità diversa da quella di appartenenza». Per il Comandante ci si trova di fronte ad un’azione «deplorevole», quella compiuta per denunciare il collega. Per i giudici, invece, a meritare una censura sono gli scritti del Comandante, dal chiaro tono diffamatorio: ecco spiegata la condanna a una multa (1.200 euro) e a risarcire i danni all’agente con un versamento di 4.000 euro. Semplice dovere professionale. Questa è la tesi che il difensore del Comandante della Polizia municipale sostiene dinanzi ai giudici della Cassazione, spiegando che le «note redatte e dirette prima al sindaco e poi al medico del lavoro dell’ente sarebbero estrinsecazione del potere-dovere di gestione del personale, in qualità di comandante della Polizia municipale».
Ma tale visione viene completamente smontata dai giudici, i quali, seguendo la linea emersa in Appello, evidenziano che sono «oggettivamente diffamatorie non solo le condotte» del Comandante ma anche «le parole concretamente utilizzate nelle note inviate al sindaco e al medico del lavoro», e che è lapalissiano che «l’operato del Comandante fosse volontariamente diretto a mettere in cattiva luce» l’agente, «insinuando persino il dubbio di problemi psichici». Esemplare è, secondo i giudici, il ricorso, da parte del Comandante, al termine ‘deplorevole’, utilizzato per qualificare negativamente la condotta dell’agente – che «denotava, invece, senso civico, segnalando l’assenza ingiustificata dal servizio del collega» –, per denigrarlo anche «attraverso l’insinuazione di una sua inidoneità al servizio per instabilità psicologica».
Quel termine, ‘deplorevole’, chiariscono infine i giudici – confermando la condanna emessa in Appello –, «non evoca solamente un comportamento non confacente alla buona organizzazione dell’ufficio» ma «individua piuttosto una condotta che merita oggettiva disapprovazione, anche sotto il profilo morale, in quanto riprovata da parte dei consociati».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it