Dequalificazione del dipendente pubblico: sì al danno esistenziale
Si al risarcimento del danno esistenziale nel caso di dequalificazione del dipendente pubblico. Lo ha stabilito la Sezione Lavoro del Tribunale di Brindisi, con la sentenza 10 febbraio 2012, n. 561.
Il caso vedeva una lavoratrice, dipendente pubblico, rientrare al lavoro dopo una lunga assenza giustificata da una malattia, ed essere destinataria di un demansionamento, con conseguente dequalificazione, che l’avevano portata ad un pensionamento anticipato con disturbo depressivo cronico e conseguenti sofferenze psichiche ed alterazioni delle proprie abitudini di vita.
La donna, che, dal momento del demansionamento, non era più riuscita a guidare l’automobile, a coltivare amicizie e ad evitare qualsiasi occasione di dialogo, agiva in giudizio chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale, sotto forma del danno esistenziale e del danno biologico.
I giudici brindisini premettono come, in fase di riorganizzazione generale di un servizio e di soppressione di precedenti uffici, l’impiegato non possa rivendicare un diritto soggettivo ad un incarico piuttosto che ad un altro, ma solo pretendere il rispetto della professionalità acquisita che, non avendo ancora preso funzioni in concreto, il giudice può valutare solo con riferimento al confronto dell’equivalenza delle mansioni descritte e della correttezza e lealtà delle relazioni lavorative in cui la trasformazione organizzativa è avvenuta.
Una volta provato il demansionamento, la dequalificazione professionale ben può comportare la lesione della dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.
Già la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Lav., sent. n. 19785 del 17.09.2010), ebbe modo di statuire come, in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
Infatti, “mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni”.
In merito alla quantificazione di tale voce di danno, il tribunale giunge alla conclusione che “la situazione di mortificazione e frustrazione in termini di disagio oggettivo che consegue all’inadempimento datoriale ben può essere misurata attendibilmente facendo riferimento alla retribuzione, quest’ultima essendo indice anche dell’apprezzamento della professionalità, in senso lato, del lavoratore, e non solo del prezzo della prestazione resa”.
In conclusione, i giudici ritengono che la ricorrente abbia diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdurante dequalificazione con particolare riferimento alle ripercussioni nella vita personale e relazionale.