Dequalificazione professionale e danni
In caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del
lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cd.
esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegue in re
ipsa al demansionamento, oppure è subordinato all’assolvimento, da
parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio?
E’ questa la questione a cui risponde la Sezione Lavoro della Cassazione con la sentenza n. 4652 depositata il 26 febbraio 2009.
Invero
entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità
nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di
aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e
concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale,
ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o
presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature
quanto al regime della prova.
Sono ascrivibili al primo
indirizzo le pronunce di cui a Cass. civ., 16 dicembre 1992, n. 13299;
Cass. civ., 18 ottobre 1999, n. 11727; Cass. civ., 6 novembre 2000, n.
14443; Cass. civ., 12 novembre 2002, n. 15868; Cass. civ., 29 aprile
2004, n. 8271 le quali, ancorchè con motivazioni diversamente
articolate, hanno ritenuto che “In materia di risarcimento del danno
per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle
in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di tale
risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una
valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche in mancanza
di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto
la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli
elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura,
all’entità e alla durata del demansionamento, nonchè alle altre
circostanze del caso concreto”.
Sono ascrivibili al diverso
indirizzo che richiede la prova del danno – Cass. civ., 11 agosto 1998,
n. 7905; Cass. civ., 19 marzo 1999, n. 2561; Cass. civ., 4 giugno 2003,
n. 8904 – le quali enunciano il seguente principio “Il prestatore di
lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del
danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di
relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione
del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla
qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la
dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova
dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con
l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per
procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone,
infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo
rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale,
incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la
prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c.”.
Con
dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito
che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere
stata la dequalificazione fatta genericamente derivare dalla privazione
di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di
ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere
stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale,
non riparata dall’adempimento dell’obbligazione retributiva, ovvero una
lesione di natura non patrimoniale. La presente sentenza aderisce a
quest’ultimo indirizzo.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 26 febbraio 2009, n. 4652
Svolgimento del processo
Il
Tribunale di Napoli, in accoglimento della domanda proposta da I.A.,
F.F. e C.G. nei confronti della datrice di lavoro Poste Italiane
s.p.a., dichiarava l’illegittimità del provvedimento, in data 8
febbraio 1999, col quale i lavoratori erano stati adibiti a nuove
mansioni e condannava la suddetta società alla reintegrazione degli
stessi nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti
nonchè al risarcimento del danno professionale liquidato in un importo
pari ad un mese di retribuzione per ogni mese di adibizione a mansioni
non equivalenti.
La Corte d’appello di Napoli accoglieva
parzialmente il gravame proposto da Poste Italiane s.p.a. e per
l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava la
Poste Italiane s.p.a. al risarcimento dei danni subiti dai lavoratori
da quantificarsi per I.A. … omissis … per C.G. e F. F. nel 100%
della retribuzione mensile … omissis … solo per i primi tre anni
dal 8.2.99 e nella misura del 50% della detta retribuzione mensile per
il periodo successivo fino alla data della presente sentenza.
Rilevava
in primo luogo che dovevano considerarsi provate, in quanto
tardivamente contestate, le mansioni svolte dagli appellanti fino al 8
febbraio 1999 ed incontestate le nuove mansioni agli stessi assegnate
dopo la suddetta data. Riteneva che dal confronto delle suddette
mansioni fosse emersa in modo palese la dequalificazione professionale
atteso che le nuove mansioni, di tipo meramente esecutivo, non
corrispondevano alla professionalità acquisita in precedenza dai
lavoratori ed anzi non erano nemmeno riconducibili all’area operativa
nella quale gli stessi erano inquadrati. Affermava poi che il suddetto
comportamento aziendale non poteva trovare giustificazione in esigenze
tecnico-organizzative atteso che tali esigenze possono legittimare solo
un mutamento di mansioni equivalenti ma non certo l’adibizione a
mansioni inferiori.
Con riferimento alla richiesta di condanna
al risarcimento dei danni derivanti dal demansionamento, riteneva che
l’esistenza e l’entità del danno potessero desumersi in via presuntiva
tenuto conto anche della durata della dequalificazione e dell’anzianità
dei lavoratori, e procedeva pertanto ad una determinazione del danno in
via equitativa. In particolare affermava che l’avvenuto demansionamento
non poteva aver avuto la medesima incidenza lesiva per tutto il
periodo; ed infatti con il trascorrere del tempo il progressivo
processo di adattamento del lavoratore alla nuova situazione lavorativa
aveva certamente determinato una diminuuizione del danno.
Per la
cassazione della sentenza propone ricorso Poste Italiane s.p.a.
affidato a due motivi; i lavoratori resistono con controricorso; le
parti hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1.
Preliminarmente deve osservarsi che in corso di causa è stato
depositato un verbale di conciliazione in sede sindacale fra Poste
Italiane s.p.a. e I.A. concernente la controversia in esame.
Dal
suddetto verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dal
lavoratore interessato, oltre che dal rappresentante delle Poste
Italiane s.p.a., risulta che le parti hanno raggiunto un accordo
transattivo concernente la controversia de qua.
Ad avviso del
Collegio il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a
dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di
cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle
parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del
contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del
ricorso proposto nei confronti di I. in quanto l’interesse ad agire, e
quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui
è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della
decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda
originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U.
29 novembre 2006 n. 25278).
In definitiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Tenuto
conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti,
si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse
le spese del giudizio di cassazione.
2. Col primo motivo la
società ricorrente denuncia violazione degli artt. 2697 e 1223 cod.
civ. nonchè vizio di motivazione su punti decisivi della controversia.
Premesso che, in applicazione dei principi enunciati da Cass. S.U. 24
marzo 2006 n. 6572, il danno (e in particolare quello esistenziale)
conseguente al demansionamento deve essere provato dal lavoratore e può
essere risarcito solo in quanto conseguenza diretta ed immediata di
quella forma di inadempimento derivante dalla dequalificazione, censura
la sentenza impugnata sull’assunto che la stessa avrebbe disapplicato i
suddetti principi avendo ritenuto sussistere un collegamento automatico
fra demansionamento e diritto al risarcimento del danno. Osserva
altresì che la domanda dei ricorrenti era priva di allegazioni in
ordine all’esistenza di un pregiudizio effettivo di natura patrimoniale
direttamente derivante dal (presunto) demansionamento.
3. Il motivo è infondato.
Questa
Corte Suprema (Cass. 26 novembre 2008 n. 28274) ha recentemente
stabilito che, ove sia stato accertato il demansionamento professionale
del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto
incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere
l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via
equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione
della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi
alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla
natura della professionalità coinvolta, alla durata del
demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre
circostanze del caso concreto.
Nel caso di specie la Corte di
merito, lungi dal ritenere la sussistenza di un danno in re ipsa, come
erroneamente dedotto dalla società ricorrente, ha ritenuto provata, sia
pure in via presuntiva, l’esistenza del danno derivante dall’accertato
demansionamento. Ed infatti, dopo aver evidenziato gli aspetti
essenziali delle mansioni in precedenza svolte dai lavoratori,
qualificate dalle funzioni di coordinamento e dall’autonomia
organizzativa ed operativa nella soluzione dei problemi attinenti a
guasti concernenti apparecchi ed impianti, la Corte ha osservato che le
nuove mansioni erano caratterizzate da compiti di mera manualità. Ciò
ha comportato, in particolare, un danno alla carriera anche in
relazione alla possibilità di ulteriore qualificazione professionale.
E’ stato inoltre attribuito rilievo alla durata del demansionamento
considerata anche alla luce dell’anzianità di servizio, considerata
come indice dell’esperienza professionale.
Ad avviso del
Collegio si tratta di un apprezzamento di fatto che, in quanto
adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di
legittimità, in applicazione del principio di diritto sopra enunciato.
Deve
sottolinearsi che la soluzione adottata non è in contrasto con i
principi recentemente affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte
(Cass. 11 novembre 2008 n. 26972) atteso che il danno individuato dalla
Corte di merito, concernente, in sostanza, la menomazione della
capacità professionale del lavoratore ha natura patrimoniale (Cass.
S.U. 24 marzo 2006 n. 6572).
Nè, infine, appare fondata
l’ulteriore censura, contenuta nel primo motivo di ricorso, secondo cui
i lavoratori non avevano ottemperato all’onere di allegazione
relativamente alla sussistenza di un danno derivante dal
demansionamento. Basterà osservare che la sentenza impugnata ha
sottolineato che i lavoratori avevano allegato la sussistenza, in
conseguenza del demansionamento subito, di una lesione della loro
professionalità e di un danno alla carriera. Di tale allegazione si
trova del resto conferma anche nel ricorso proposto da Poste Italiane
s.p.a., nel quale infatti si riconosce che i lavoratori avevano
lamentato, in particolare, la sussistenza di un danno grave consistente
nell’impossibilità di avvalersi del patrimonio professionale acquisito
attraverso l’esercizio quotidiano di compiti richiedenti specifiche
conoscenze professionali e nella perdita del corredo delle cognizioni e
capacità professionali acquisite.
4. Col secondo motivo la
società ricorrente denuncia vizio di motivazione su un punto decisivo
della controversia costituito dalla soppressione dei posti di lavoro
occupati dai dipendenti fino alla data del 8 febbraio 1999. Deduce di
aver puntualmente allegato, sia nella memoria difensiva nel giudizio di
primo grado, sia nel ricorso in appello, la circostanza relativa alla
ristrutturazione dell’organizzazione aziendale nell’ambito della quale
le mansioni alle quali erano assegnati i lavoratori erano state
soppresse, con la conseguente impossibilità di una loro utilizzazione
in mansioni equivalenti. La sentenza impugnata aveva omesso di valutare
la legittimità, o meno, del mutamento di mansioni alla luce della
suddetta circostanza.
5. Il motivo è inammissibile. Secondo
l’insegnamento di questa Corte (Cass. 27 gennaio 2006 n. 1755) l’omessa
pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere,
l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente
introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di
attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal
ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto
sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3 o del vizio di motivazione ex art.
360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il
giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di
doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero
senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al
riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo error
in procedendo – ovvero della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.,
in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la quale soltanto consente
alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso
giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti
precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di
appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati,
evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del
giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell’assunta
omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo.
6. Il ricorso nei confronti di C. e F. deve essere in definitiva rigettato.
7. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La
Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di I. e compensa
fra lo stesso e Poste Italiane s.p.a. le spese del giudizio di
cassazione; rigetta il ricorso nei confronti di C. e F. e condanna la
società ricorrente a rimborsare agli stessi le spese processuali,
liquidate complessivamente in Euro 30,00, oltre Euro 2.000 per onorari
e oltre spese generali, IVA e CPA, da distrarsi a favore dell’avv.
Gerardo Russillo, antistatario.