Disse a un dipendente: “Non fai un c.” Capo condannato per ingiurie
ROMA – Un capo che si rivolge con stizza al dipendente usando l’espressione “non fai un cacchio” può essere condannato per ingiuria. Lo rileva la Cassazione,
confermando la condanna inflitta dalla Corte d’Appello di Roma. Un
superiore si era rivolto ad un lavoratore dicendogli “mò m’hai rotto li
c…, io voglio sapè te che c…. ci stai a fà qua dentro, che nun fai
un cacchio ed altro”.
L’imputato si era rivolto alla Suprema Corte contro il verdetto dei
giudici del merito, deducendo che “in considerazione del rapporto
gerarchico esistente” tra lui e il dipendente, “della circostanza che
il fatto avvenne durante l’orario di lavoro e che la persona offesa si
era intromessa in colloquio di lavoro tra altre persone, peraltro in
ambiente di lavoro ricco di tensione, quale quello della movimentazione
di valori, la frase pronunciata non aveva valore di ingiuria,
trattandosi di espressione volgare e colorita utilizzata come forte
critica nei confronti di un comportamento stigmatizzabile del
sottoposto”.
La frase, secondo l’imputato, stava a significare che il dipendente “si
trovava fuori luogo rispetto al suo naturale posto di lavoro” e “alla
luce dell’evoluzione dei costumi e del particolare luogo di lavoro ove
era dato udire ogni tipo di sconcezza non era condivisibile l’opinione
che il dipendente, quasi rivestisse la figura di Cappuccetto rosso, si
fosse sentito offeso nell’onore”.
Per la quinta sezione penale della Cassazione, il ricorso è
inammissibile: in relazione al reato di ingiuria, osservano gli alti
giudici, “affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in
posizione di superiorità gerarchica – si legge nella sentenza n.42064 –
ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo
subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le
espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento
stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale
trasgressione realizzata”. Se invece le frasi usate “sia pure
attraverso la censura di un comportamento – ribadiscono gli ermellini –
integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano
inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può
sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto,
non hanno potenzialità ingiuriosa”.
Nel caso di specie, conclude la Suprema Corte, i giudici di merito “con
apprezzamento in fatto adeguatamente motivato e come tale incensurabile
in questa sede, ha accertato che la condotta ingiuriosa non era
finalizzata a stigmatizzare una specifica condotta censurabile del
dipendente nell’esercizio delle sue mansioni, bensì era motivata dalla
‘stizza’ per un comportamento genericamente opportuno” del dipendente.
Per questo “la concreta fattispecie esula dalle ipotesi di critica
legittima”.