Divieto di fumo e responsabilità dei gestori dei locali pubblici (sentenza completa)
Consiglio di Stato
Sezione V
Decisione 3 luglio – 7 ottobre 2009, n. 6167
(Presidente Baccarini – Relatore Scola)
Sul ricorso in appello n.r.g. 9347/2006, proposto da:
Presidenza
del Consiglio dei Ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura
generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei
Portoghesi, 12;
Conferenza permanente per i rapporti Stato-regioni e province autonome di Trento e Bolzano; Ministero della salute;
contro S.i.l.b.-Associazione Italiana Imprenditori Locali Da Ballo, non costituita in giudizio;
per
la riforma della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma, sezione III-ter, n.
6066/2005, resa tra le parti, concernente L’APPLICAZIONE DELLA
CIRCOLARE ATTUATIVA DI NORME ANTIFUMO, in rapporto all’impugnazione dei
seguenti atti:
– la circolare del Ministro della salute
17/12/2004, recante “indicazioni interpretative e attuative dei divieti
conseguenti all’entrata in vigore dell’art. 51, legge 16/1/2003 n. 3,
sulla tutela della salute dei non fumatori”, pubblicata nella G.U. n.
300 del 23/12/2004: a) nella parte in cui imponeva ai soggetti
responsabili della struttura, o loro delegati, l’obbligo di richiamare
formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di fumare e di
segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento del
o dei trasgressori, ai pubblici ufficiali ed agenti ai quali compete la
contestazione della violazione del divieto e la conseguente redazione
del verbale di contravvenzione”; b) nella parte in cui, in caso di
inosservanza di tali obblighi, si applicavano le sanzioni stabilite
dall’art. 7, comma 2, legge 11/11/1975 n. 584, anche in relazione a
quanto disposto dall’art. 2, medesima legge n. 584/1975, e le sanzioni
di cui all’art. 5, cit. legge n. 584/1975, in forza del quale, nel caso
in cui gli obblighi non vengano osservati, il Questore può sospendere
(per un periodo da tre giorni a tre mesi) o revocare la licenza di
esercizio del locale; c) nella parte in cui imporrebbe di indicare, nel
cartello segnalante il “divieto di fumo”, il nome dei soggetti
responsabili della struttura o dei loro delegati incaricati di vigilare
sul divieto di fumare;
d) nella parte in cui consentiva di
attrezzare a norma aree riservate ai fumatori, purché le stesse fossero
di inferiori dimensioni rispetto a quelle riservate ai non fumatori,
anche in locali diversi da quelli adibiti ad esercizi di ristorazione;
e) nella parte in cui non consentiva, agli esercenti discoteche e
locali ad esse assimilati, di attrezzare a norma la struttura per
riservarla integralmente ed esclusivamente ai fumatori;
–
l’accordo 16/12/2004 tra il Ministero della salute, di concerto con i
Ministeri dell’interno e della giustizia, e le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, in materia di tutela della salute dei
non fumatori, in attuazione dell’art. 51, comma 7, legge 16/1/2003 n. 3;
–
ove occorra, e per quanto di ragione, la direttiva del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 14/12/1995 n. 37000, nella parte in cui
prevedeva che “per i locali condotti da soggetti privati, il
responsabile della struttura, ovvero dipendente o collaboratore da lui
incaricato, richiamerà i trasgressori all’osservanza del divieto e
curerà che le infrazioni siano segnalate ai pubblici ufficiali ed
agenti competenti, a norma dell’art. 13 della legge 24/11/1981 n. 689”;
– ogni altro atto presupposto, connesso, e/o consequenziale.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore,
nell’udienza pubblica del 3 luglio 2009, il Consigliere di Stato Aldo
SCOLA ed uditi, per le parti, i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 23-bis, comma 6, legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dalla legge 21 luglio 2000 n. 205;
Relatore,
nell’udienza pubblica del giorno 3 luglio 2009, il Consigliere di Stato
Aldo SCOLA e uditi, per le parti, i difensori come specificato nel
verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Fatto
A)
– La parte originaria ricorrente impugnava, dinanzi al T.a.r. Lazio,
gli atti in epigrafe indicati, attuativi dei divieti conseguenti
all’entrata in vigore dell’art. 51, legge 16/1/2003 n. 3, sulla tutela
della salute dei non fumatori, nella parte in cui avevano ampliato il
contenuto delle prescrizioni legislative, prevedendo che i soggetti
responsabili della struttura, o i loro delegati, avessero l’obbligo di
richiamare formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di
fumare e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il
comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali ed agenti
competenti per la contestazione e la conseguente redazione del verbale
di contravvenzione, nonché (la circolare) nella parte in cui non
consentiva di attrezzare le discoteche ed i locali assimilati a norma,
al fine di destinarli integralmente ed esclusivamente, o
prevalentemente, ai fumatori.
La stessa precisava che il
suddetto art. 51 avrebbe stabilito un generale divieto di fumare in
tutti i locali chiusi, salvo che si trattasse di locali “privati non
aperti ad utenti o al pubblico”, ovvero “riservati ai fumatori e come
tali contrassegnati”, prevedendo un apposito apparato sanzionatorio.
In
attuazione del settimo comma dello stesso art. 51 era stato adottato,
in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, un accordo per
definire “le procedure per l’accertamento delle infrazioni, la relativa
modulistica per il rilievo delle sanzioni, nonché l’individuazione dei
soggetti legittimati ad elevare i relativi processi verbali, di quelli
competenti a ricevere il rapporto sulle infrazioni, accertate ai sensi
dell’art. 17 della legge 24/11/1981 n. 689, e di quelli deputati a
irrogare le relative sanzioni”; tale accordo avrebbe previsto l’obbligo
dei conduttori dei predetti locali, o dei loro delegati, di esercitare
una generale vigilanza e segnalare la trasgressione ai soggetti
pubblici indicati nell’accordo stesso, enucleandovisi obblighi
“positivi” di ammonimento (a non fumare) e di segnalazione a pubblico
ufficiale, oltre che obblighi strumentali (ad esempio, iscrizione dei
nomi dei responsabili sul cartello contenente il divieto di fumare) in
capo a soggetti privati (conduttori di locali privati aperti al
pubblico) espletanti una libertà costituzionalmente tutelata (quella di
iniziativa economica privata, ex art. 41, Costituzione).
B) – L’originaria ricorrente deduceva:
1)
violazione del principio di legalità e della riserva di legge di cui
agli artt. 23 e 25, comma 2, e 41, Costituzione; violazione dell’art.
1, legge 24/11/1981 n. 689; violazione dell’art. 51, legge 16/1/2003 n.
3; violazione degli artt. 2 e 7, legge 11/11/1975 n. 584; eccesso di
potere per irragionevolezza, illogicità, erronei presupposti e
travisamento dei fatti.
Il punto 4 dell’accordo impugnato
prevedeva che i conduttori dei locali od i loro collaboratori
formalmente delegati alla vigilanza sul rispetto del divieto di fumo,
“richiamano i trasgressori all’osservanza del divieto e curano che le
infrazioni siano immediatamente segnalate ai soggetti pubblici
incaricati, a norma dei punti 2.5 e 3”.
Analoghe disposizioni
erano formulate nella circolare egualmente impugnata, così addossandosi
ai conduttori di locali privati tre obblighi distinti e coordinati: a)
dovere di vigilanza generale sul rispetto del divieto di fumo
all’interno del locale privato da essi gestito; b) dovere di richiamare
i trasgressori all’osservanza del divieto attraverso interventi attivi
e formali di dissuasione e di ammonizione; c) obbligo di curare che le
eventuali infrazioni fossero immediatamente segnalate agli agenti o
funzionari di polizia, ovvero ai soggetti pubblici incaricati di
accertare e contestare la violazione di legge, oltre che di applicare
la relativa sanzione.
Veniva, dunque, imposto un preciso dovere
di vigilanza a fini pubblici a soggetti privati, del tutto sfornito di
base legale e, dunque, illegittimo anzitutto per violazione del
principio di legalità, espressamente riconosciuto, nell’ambito del
diritto amministrativo depenalizzato, dall’art. 1, legge 24/11/1981 n.
689, ex artt. 23 e/o 25, Costituzione.
L’unica disposizione di
legge astrattamente invocabile era quella di cui all’art. 51, commi 5 e
7, legge n. 3/2003; il comma 7 rinviava ad un accordo della Conferenza
Stato-regioni la specificazione delle operazioni relative
all’accertamento ed alla contestazione delle infrazioni al divieto di
fumo, senza alcun riferimento al predetto dovere di vigilanza in capo
ai privati gestori, concernendo esso solo le attività (di accertamento
delle infrazioni e relativa modulistica) in materia di infrazioni
spettanti a soggetti pubblici (agenti ed ufficiali di polizia); il
comma 5, a sua volta, faceva rinvio all’art. 7, ed, indirettamente,
all’art. 2, legge 11/11/1975 n. 584, che si limitava a stabilire, per i
conduttori dei locali, l’obbligo di curare l’osservanza del divieto,
“esponendo, in posizione visibile, cartelli riproducenti la norma con
l’indicazione della sanzione comminata ai trasgressori”.
2)
Violazione dell’art. 41, Costituzione, e dei principi di legalità e
riserva di legge; palese irragionevolezza e manifesta illogicità degli
atti impugnati nella parte contemplante in capo ai gestori di pubblici
esercizi o loro delegati il potere-dovere di vigilare sull’osservanza
del divieto di fumare, determinandosi la surrettizia trasformazione
giuridica di un soggetto privato (gestore) in una figura pubblica,
ovvero in un incaricato di pubblica funzione o di pubblico servizio, in
contrasto con l’art. 41, Costituzione.
3) Violazione dell’art.
51, commi 5 e 7, legge n. 3/2003; erronei presupposti; sviamento di
potere e travisamento dei fatti, avendo la Conferenza violato
apertamente i limiti indicati dalla legge, introducendo
illegittimamente ulteriori incombenti in capo ai soggetti responsabili
della struttura.
4) In via subordinata: incostituzionalità
dell’art. 51, legge n. 3/2003, e degli artt. 2, 5 e 7, legge n.
584/1975, come sostituito dall’art. 52, comma 20, legge n. 448/2001, in
relazione agli artt. 2, 3, 23, 25, comma 2, e 41, Costituzione.
5)
Violazione dell’art. 51, commi 1 e 2, legge n. 3/2003, e degli artt. 1,
comma 1, lett. b), e 3, comma 1, legge n. 584/1975; violazione del
d.P.C.M. 23/12/2003; erronei presupposti; sviamento di potere;
travisamento dei fatti e manifesta contraddittorietà.
La
circolare impugnata, al punto 3, avrebbe inoltre sancito, in violazione
delle norme richiamate, l’impossibilità di attrezzare a norma le
discoteche ed i locali assimilati (sale chiuse da ballo), per
riservarle soltanto o quasi soltanto ai fumatori.
In realtà,
l’art. 51, comma 3, prevederebbe in rapporto ai soli esercizi di
ristorazione, per i non fumatori, locali di superficie prevalente
rispetto a quella complessiva di somministrazione dell’esercizio, con
un criterio di prevalenza sancito solo in rapporto agli esercizi di
ristorazione, ma non per gli altri esercizi pubblici, per i quali
risulterebbe, dunque, ancora vigente il comb. disp. artt. 1 e 3, legge
n. 584/1975.
In forza di tali norme sarebbe possibile ottenere
l’esenzione dall’osservanza dell’art. 1, legge n. 584/1975, previa
installazione di un impianto di condizionamento dell’aria o di un
impianto di ventilazione, rispettivamente corrispondenti alle
caratteristiche di definizione e classificazione determinate dall’ente
nazionale italiano di unificazione, con la correlativa possibilità di
destinare ai fumatori l’intera sala da ballo, o, quanto meno, uno
spazio prevalente rispetto alla superficie complessiva del locale.
Si
costituivano in giudizio le amministrazioni intimate, eccependo
l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, in
considerazione della natura degli atti impugnati, nonché per difetto di
giurisdizione dell’adito giudice amministrativo, e comunque la sua
infondatezza nel merito.
C) – I primi giudici accoglievano in
parte il ricorso, con sentenza prontamente impugnata dalle
amministrazioni pubbliche soccombenti, che deducevano l’ipotizzabile
carenza di potere a monte degli atti gravati, con correlativa
sussistenza della giurisdizione ordinaria; la natura meramente
interpretativa dell’impugnata circolare ministeriale, di per se stessa
non impugnabile; la natura politica (non solo dei provvedimenti assunti
dal Governo ma anche) degli atti adottati dalla Conferenza
Stato-regioni, pertanto non impugnabili dinanzi al giudice
amministrativo (art. 31, r.d. n. 1054/1924), ma semmai presso quello
ordinario, per eventuali sanzioni inflitte per il mancato rispetto
degli obblighi di cui sopra; il carattere relativo e non assoluto del
principio di legalità, temperato per le norme amministrative
depenalizzate, con la connessa possibilità di ampi rinvii a quelle
regolamentari (secondarie); l’impossibilità di configurare l’obbligo di
vigilanza come una prestazione personale imposta, mancandovi qualsiasi
risvolto economico; l’insussistenza di qualunque violazione dell’art.
41, Costituzione, non intendendosi in alcun modo ostacolare l’attività
imprenditoriale, ma solo indirizzarla al rispetto di esigenze superiori
(come quelle connesse alla salute pubblica: art. 32, Costituzione); il
fondamento legislativo del potere esercitato, ravvisabile nella
normativa primaria di cui sopra, nella prospettiva di non rendere vani
i divieti e gli obblighi qui discussi, preservando l’operatività del
relativo apparato sanzionatorio; la sicura possibilità di affidare
funzioni pubbliche a soggetti privati preposti ad attività che lo
impongano o lo consentano.
All’esito della pubblica udienza di
discussione la vertenza passava in decisione sulle sole conclusioni
della parte appellante, non essendosi costituita in giudizio quella
appellata.
Diritto
I) –
L’appello è infondato e va respinto, dovendosi condividere quanto
affermato dai primi giudici, dopo aver considerato preliminarmente
ammissibile l’impugnativa avverso la circolare del Ministero della
salute 17/12/2004, non trattandosi di una mera circolare interpretativa
(atto interno alla p.a., finalizzato essenzialmente ad indirizzare
uniformemente l’azione dei vari uffici od organi), ma contenendo la
stessa, al contrario, pure “indicazioni attuative dei divieti
conseguenti all’entrata in vigore dell’art. 51 della legge 16/1/2003 n.
3 …”.
Né rilevava la circostanza che gli obblighi imposti ai
soggetti responsabili della struttura od ai loro delegati fossero in
gran parte previsti dall’accordo 16/12/04 intervenuto presso la
Conferenza permanente di cui in narrativa, o dalla precedente direttiva
P.C.M. in data 14/12/95, ciò non escludendo che i contenuti della
circolare, per ragioni di opportunità e chiarezza, riproducessero
vincoli per i soggetti terzi estranei alla p.a., con possibili profili
di lesività e connessa autonoma impugnabilità.
Analogamente, non
poteva che disattendersi l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnativa
del citato accordo 16/12/04, motivata con riguardo alla natura non
amministrativa, ma politica, di tale atto, asseritamente intercorrente
tra soggetti aventi rilevanza costituzionale: il modulo consensuale,
nei rapporti tra Stato e regioni, è espressione di quel principio di
leale collaborazione che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato
come strumento utile nel caso d’interferenze per la competenza
legislativa o per quella amministrativa.
Il d.lgs. 28/8/1997 n.
281, rafforzando i compiti della Conferenza permanente, aveva previsto
il modulo pattizio, distinguendo tra intese (art. 3) ed accordi (art.
4), i quali ultimi sembrano assumere collocazione prevalente nel campo
dell’attività amministrativa, come si desume anche dal testuale
riferimento ad accordi conclusi in sede di Conferenza Stato-regioni,
“nel perseguimento di obiettivi di funzionalità, economicità ed
efficacia dell’azione amministrativa”, “al fine di coordinare
l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di
interesse comune”: il che, sul piano oggettivo, non poteva che far
escludere la natura di atto politico.
Inoltre, detta Conferenza
permanente non è organo del potere esecutivo e non appartiene né
all’apparato statale né a quello regionale, trattandosi di
un’istituzione attiva nell’ambito della comunità nazionale, quale
strumento per l’attuazione della coooperazione (cfr. Corte cost., sent.
31/3/1994 n. 116): il che non poteva che far escludere la natura di
atto politico dell’accordo pure dall’angolazione soggettiva, in
conformità alla giurisprudenza formatasi sull’art. 31, r.d. 26/6/1924
n. 1054), ritenuto ipotesi eccezionale di sottrazione al sindacato
giurisdizionale di atti soggettivamente e formalmente amministrativi,
ma costituenti espressione della fondamentale funzione di direzione
politica nell’ordinamento.
Per integrare la nozione legislativa
di atto politico devono concorrere due requisiti, l’uno soggettivo e
l’altro oggettivo: deve trattarsi di atto o provvedimento emanato dal
Governo, nell’esercizio del potere politico, anziché di attività
meramente amministrativa (cfr. C.S., sez. IV, dec. 29/2/1996 n. 217),
requisiti entrambi assenti nell’accordo in esame, il che non impedisce
di ritenere comunque utilmente impugnata in questa sede la circolare,
riproduttiva e specificativa del suo contenuto.
II) – Nella
specie, oggetto della controversia non è il divieto di fumo, inteso
quale limite posto ai privati a tutela del diritto alla salute, bene
primario e diritto fondamentale della persona (cfr. Corte cost., sent.
20/12/1996 n. 399), ma lo sono gli “obblighi positivi” (di ammonimento
e di segnalazione a pubblico ufficiale), che gli atti impugnati
prevedono in capo ai conduttori di locali privati aperti al pubblico.
Gli
obblighi ricadenti sui soggetti responsabili della struttura o sui loro
delegati sono essenzialmente quelli di: a) richiamare formalmente i
trasgressori all’osservanza del divieto di fumare; b) segnalare, in
caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento del o dei
trasgressori ai pubblici ufficiali od agenti competenti per la
contestazione della violazione del divieto e la conseguente redazione
del verbale di contravvenzione: prestazione personale senza alcun
fondamento legislativo.
Neppure il comma 5 dell’art. 51,
riferito alle sanzioni applicabili nel caso d’infrazioni al divieto di
fumo, mediante rinvio all’art. 7, legge 11/11/1975 n. 584, contiene una
disciplina del contenuto degli obblighi gravanti sui soggetti preposti
alla vigilanza.
Infatti, detto art. 7, comma 2, stabilisce solo
l’importo della sanzione pecuniaria, mentre l’art. 2, stessa legge n.
584/1975, cui rimanda l’art. 7 cit., prevede soltanto che essi “curano
l’osservanza del divieto, esponendo, in posizione visibile, cartelli
riproducenti la norma con l’indicazione della sanzione comminata ai
trasgressori”.
Appare, dunque, evidente la violazione della
riserva relativa di legge contenuta nell’art. 23, Costituzione, dato
che le prestazioni personali possono essere imposte per la
soddisfazione di interessi pubblici, ma unicamente dalla legge, che
deve indicare il soggetto pubblico abilitato ad imporre la prestazione,
nonché i limiti dell’imposizione (rispettivamente, soggetto ed oggetto
della prestazione imposta).
La distinzione tra riserva assoluta
e relativa si fonda, poi, sull’intensità della disciplina legislativa,
che nella prima ipotesi deve regolare compiutamente la materia, mentre
nel secondo caso deve fissare la disciplina fondamentale, lasciandone
il dettaglio ad altre fonti del diritto, gerarchicamente subordinate,
anche formalmente amministrative, per cui la riserva di legge si
sovrappone al principio di legalità sostanziale, imponendo al
legislatore l’individuazione dei limiti di contenuto dell’azione
amministrativa (cfr. Corte cost., sent. 5/2/1986 n. 34).
Ciò
vale nella prospettiva dell’art. 23, Costituzione, come dell’art. 41,
che sancisce la libertà d’iniziativa economica privata e,
nell’affermarne la libertà, consente l’apposizione di limiti al suo
esercizio, richiedendo, sotto l’aspetto sostanziale, che questi
corrispondano all’utilità sociale, e, sotto quello formale, che ne sia
imposta la disciplina ad opera della legge (cfr. Corte cost., sent.
8/2/1962 n. 5).
Occorreva, quindi, una previsione legislativa per
imporre i descritti doveri di vigilanza nei confronti di soggetti
esercenti la propria libertà di iniziativa economica privata
nell’ambito di locali aperti al pubblico, in qualche misura trasformati
in incaricati di una pubblica funzione, o, quanto meno, di un pubblico
servizio; anche sotto tale profilo dovevano apparire, dunque, del tutto
inidonei gli impugnati atti amministrativi, svolgenti non già una
funzione integrativa della disciplina sul divieto di fumo, ma, in
violazione della norma costituzionale attributiva della competenza
normativa, disciplinanti funditus i doveri dei gestori privati, al
cospetto di un avventore (utente, collaboratore o fornitore)
eventualmente trasgressivo.
III) – Non si trattava, peraltro, di
un atto adottato in carenza di potere, conoscibile dalla giurisdizione
ordinaria, secondo la prospettazione della p.a. appellante, essendosi
fuori dell’ambito del difetto assoluto di attribuzione (c.d. carenza in
astratto) e manifestandosi piuttosto un cattivo uso del potere, nei cui
riguardi il privato vanta una posizione di interesse legittimo,
tutelabile dinanzi al giudice amministrativo.
Neppure può
condivedersi quanto contenuto nel punto 5) della circolare 17/12/04,
secondo cui il rinvio (indiretto) all’art. 2, legge n. 584/75,
nell’assetto di cui alla legge n. 3/2003, precluderebbe
un’interpretazione restrittiva, tale da limitare l’obbligo dei gestori
soltanto alla materiale apposizione del cartello recante il divieto di
fumo, in quanto risulterebbe altrimenti irrazionale l’applicazione
delle rigorose misure sanzionatorie previste dall’art. 7, comma 2,
legge n. 584/1975 (nel testo sostituito dall’art. 52, legge 28/12/2001
n. 448), non potendo la circolare impropriamente fornire
un’interpretazione “adeguatrice” della norma, peraltro insanabilmente
in contrasto con il testuale dettato normativo: il contenuto
dell’obbligo imposto ai conduttori dei locali dall’art. 2, comma 3,
legge n. 584/1975, è solo quello di esporre, in posizione visibile,
cartelli riproducenti il divieto di fumo, con l’indicazione della
sanzione comminata ai trasgressori (l’uso del gerundio specifica
proprio il contenuto dell’obbligo enunciato nella proposizione
principale).
Si deve poi considerare che la disciplina sul
divieto di fumo, introdotta dall’art. 51, legge n. 3/2003, è tale da
avere un ambito oggettivo di applicazione esteso a tutti i locali
chiusi ma aperti ad utenti od al pubblico (discoteche e simili), per
cui la (consentita) riserva di taluni di questi ai fumatori si pone
come eccezione alla regola, il che rende ragionevolmente condivisibile
l’interpretazione normativa fatta propria dalla circolare, secondo cui,
“considerata la libera accessibilità a tutti i locali di fumatori e non
fumatori, la possibilità di fumare non può essere consentita se non in
spazi di inferiore dimensione attrezzati all’interno dei locali”.
IV)
– La legge 25/8/1991 n. 287, all’art. 5, nell’enucleare la tipologia
dei pubblici esercizi, distingue tra esercizi di ristorazione (lett. a)
ed esercizi per la somministrazione di bevande (lett. b); alla lett. c)
prevede, inoltre, che l’esercizio di ristorazione e di somministrazione
di bevande possa essere effettuato “congiuntamente ad attività di
trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali
notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari”, con un’accezione
ampia di “esercizio di ristorazione” che può, per espressa previsione
normativa, interessare anche le discoteche e non esclusivamente i
ristoranti.
Il ricorso introduttivo non poteva, dunque, che
essere in parte accolto, con conseguente annullamento parziale degli
atti impugnati, nella parte in cui imponevano ai soggetti responsabili
di locali privati aperti al pubblico, o loro delegati, l’obbligo di
richiamare formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di
fumare e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il
comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a
contestare la violazione e ad elevare il conseguente verbale di
contravvenzione.
Conclusivamente, l’appello va quindi respinto, con
salvezza dell’impugnata sentenza, mentre nulla deve disporsi per spese
ed onorari del giudizio di secondo grado, non essendovisi costituita la
parte appellata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, sezione V, respinge l’appello e nulla dispone per spese ed onorari del secondo grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.