Dopo la vendita si scopre che l’immobile era in comunione legale: l’accertamento non è opponibile al compratore in buona fede
Mentì per amore (e per soldi), ora rischia di
perdere la sua metà della casa. All’atto dell’acquisto la moglie “regge
il gioco” al marito, che dichiara di comprare da solo l’appartamento
per farne il suo studio professionale: si tratta invece di un
espediente per eludere la comunione legale a scopi fiscali perché
l’immobile è in realtà destinato a casa familiare. I due però poi si
separano e lei rivendica metà dell’appartamento, ma la revocatoria
della vendita effettuata nelle more dal marito a un terzo scatta
soltanto se si dimostra che il compratore era in malafede. È quanto
emerge dalla sentenza 22755/09 della Cassazione.
La decisione
L’immobile non ricade nella
comunione legale secondo l’ articolo 179 del codice civile se uno dei
coniugi lo compra per utilizzarlo nella sua professione. E l’intervento
adesivo dell’altro coniuge, cioè la “conferma” fornita all’atto della
compravendita, è sì una condizione necessaria per far scattare
l’esclusione ma è richiesto solo per documentare la natura personale
del bene, che resta l’unico presupposto per escludere la comunione
legale. La moglie, dunque, può chiedere che sia accertata la comunione
sull’immobile anche dopo l’intervento nell’atto di compravendita in cui
affermò la natura personale dell’acquisto effettuato dal marito. Resta
allora da capire perché, contro le conclusioni del pm, la Suprema corte
accolga il ricorso del terzo acquirente contro la sentenza che
riconobbe l’ex moglie comproprietaria dell’immobile. Il compratore
propone un’azione ex articolo 184 Cc cui si applica la disciplina
dell’azione di annullamento dei contratti (che nella specie è chiesto
per vizio del titolo del dante causa): il sopravvenuto accertamento
della comunione non è opponibile al terzo in buona fede, fatti salvi
gli effetti della trascrizione (il compratore fece registrare
l’acquisto dell’immobile prima che la signora chiedesse l’annullamento
della vendita).