Durata irragionevole dei processi e risarcimento ai sensi della
La sentenza in commento affronta il delicato e quanto mai attuale problema della responsabilità dello Stato per la durata dei processi e dell’interpretazione della legge che la disciplina, ossia la Legge 24 marzo 2001 n. 89, meglio nota come “legge Pinto”.
La controversia nasce dal fatto che una società s.p.a. era stata chiamata in causa da un suo ex dipendente, il quale agiva in giudizio contro la prima per essere stato licenziato illegittimamente; pertanto, si chiedeva la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Il giudizio di primo grado si era protratto per tre anni e quattro mesi e la società s.p.a. presentava ricorso alla Corte di Appello deducendo la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito Cedu), per il mancato rispetto del “termine ragionevole” del processo. Infatti la società s.p.a. lamentava un danno patrimoniale subito per il protrarsi irragionevole della durata del processo, in quanto la stessa era stata condannata a corrispondere al lavoratore, ai sensi dell’art. 18, comma 4, legge 300/70, le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra ed agli enti, assicuratore e previdenziale, i premi ed i contributi maturati nelle more di un giudizio protrattosi per 36 mesi.
La Corte di Appello -sezione lavoro- mediante “decreto”, ha ritenuto sussistere la violazione dell’art. 6 del Cedu, riconoscendo alla società s.p.a. di aver subito un danno patrimoniale.
Contro questo decreto proponeva ricorso in Cassazione il Ministero della Giustizia, ottenendone l’accoglimento ed il rinvio nuovamente alla Corte di Appello.
I giudici della Corte Suprema, con la sentenza in commento, prendono spunto dal caso in esame per compiere un’attenta analisi dell’art. 2 della legge 89/01 e dei suoi criteri interpretativi, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali formatisi recentemente.
La suddetta norma, infatti, prevede che chiunque abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per il mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 del Cedu, ha diritto ad una “equa riparazione”. Attraverso questa legge si è voluto in qualche modo “nazionalizzare” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, ponendosi, il legislatore nazionale, in linea con le recenti indicazioni costituzionali e convenzionali.
All’origine dell’emanazione della legge Pinto è principalmente la volontà di evitare sanzioni per il nostro Paese, arginando le ripetute condanne riportate dall’Italia ad opera della Corte di Strasburgo, ed adeguarlo a quanto disposto dall’art. 13 del Cedu.
Determinazione della ragionevole durata.
La Cassazione, nella motivazione, affronta uno dei principali problemi applicativi della “legge Pinto” cioè quello relativo all’individuazione del limite oltre il quale la durata di un processo possa essere ritenuta irragionevole. Essa, uniformandosi ad altri precedenti giurisprudenziali (tra le più recenti, Cass. 6856/04; 4207/04) afferma che la nozione di ragionevole durata del processo non ha carattere assoluto, bensì relativo, non prestandosi ad una predeterminazione certa e predefinita, essendo la durata condizionata da parametri fattuali che sono strettamente legati alla singola fattispecie.
È la stessa legge 89/2001 che all’art. 2, fornendo al giudice dell’equa riparazione i criteri di valutazione specifici da utilizzare nell’accertamento della durata del processo, dimostra di avere riguardo della specificità del caso concreto, non accettando cadenze temporali rigide. All’art. 2, co. 2° infatti si legge che: “ Nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione”.
Su questo problema si è espressa recentemente la Cassazione (sent. 2 febbraio 2004, n.4207), affermando che: “In tema di diritto ad equa riparazione per violazione del ragionevole termine di durata di un processo (legge n.89 del 2001), il concetto di “termine ragionevole”, oltre a risultare ontologicamente diverso da quello di “tempo strettamente necessario per la trattazione della causa”, va altresì considerato in concreto, con riferimento, cioè, alla singola fattispecie procedimentale, in base ai criteri stabiliti dall’art.2 secondo comma della legge n.89 del 2001, avuto riferimento ai parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, le cui sentenze in tema di interpretazione dell’art.6, par.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ratificata in Italia con legge n. 848 del 1955), pur non avendo efficacia immediatamente vincolante per il giudice italiano, costituiscono, nondimeno, per questi, la prima e più importante guida ermeneutica.”
In generale la durata ragionevole del processo in primo grado è stata fissata, dai giudici italiani, ora in quattro (App. Genova decr. 28 agosto 2001), ora in tre anni (App. Torino decr. 25 giugno 2001), salva sempre la valutazione della complessità del caso concreto e salvo sempre il fatto che i parametri cronologici individuati dalla giurisprudenza non possono che avere, in questa materia, un mero valore orientativo, non tassativo (Cass. 17 ottobre 2002, n. 417). Per il secondo grado, invece, la durata ragionevole è stata indicata in due anni, ed in uno per i gradi successivi ( App. Perugia 13 febbraio 2002). In generale anche la Corte Europea ha sempre dichiarato irricevibili i ricorsi presentati nei confronti di processi di durata inferiore ai tre anni. In alcune ipotesi particolari, in cui l’oggetto del contendere richieda una celerità maggiore (es. giudizi riguardanti l’affidamento o l’adozione dei minori, o le cause di lavoro, pensionistiche o fallimentari) i termini di ragionevole durata dei processi sono stati fissati dalla Corte Europea entro i due anni e sette mesi.
Natura dell’equa riparazione.
La Cassazione nel caso in esame affronta anche il problema inerente l’inquadramento dogmatico e la quantificazione del risarcimento previsto in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo. L’art. 2 della legge 89/2001, infatti, attribuisce, a chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all’art. 6 della Cedu, il diritto ad una “equa riparazione”. La Corte, facendo propria una configurazione più volte affermata in altre decisioni dalla stessa, attribuisce alla ”equa riparazione” natura indennitaria, non risarcitoria, in coerenza con il disposto dell’art. 41 della Cedu (norma generale che disciplina l’equa soddisfazione alla parte lesa in caso di violazione della Convenzione stessa o dei suoi protocolli)
La giurisprudenza di legittimità, a tale riguardo, in più di un’occasione si è orientata in tale modo: “Ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, avente carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento “ex se” lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione configurandosi, non già come obbligazione “ex delicto”, ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base all’art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.”(così Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885).
Seguendo questa ricostruzione, si può sostenere che è possibile pervenire alla liquidazione del danno pur in assenza di allegazioni e prove puntuali circa la condotta colposa dell’Amministrazione giudiziaria, sulla base della sola e semplice irragionevole durata del giudizio (Cass. 22 gennaio 2003, n. 920), non attraverso un risarcimento vero e proprio, ma appunto una “equa riparazione”.
Sintetizzando quindi, l’equa riparazione riconosciuta dalla legge Pinto non è un diritto al risarcimento del danno, bensì è un diritto ad un indennizzo, con conseguente irrilevanza di ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (così anche Cass. 6 aprile 2004, n.6775; Cass. 22 gennaio 2003, n.920).
Non sono mancate però pronunce che, al contrario, hanno ricondotto il risarcimento de quo in un’ipotesi di illecito civile, inquadrandolo, quanto all’elemento soggettivo ed al nesso di causalità, nella fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.(App. Torino decr. 5 settembre 2001).
Oggetto del giudizio di equa riparazione.
I giudici della sentenza oggetto del presente commento precisano che il danno risarcibile ex art. 2 legge 89/01 è da tenere distinto da quello connesso alla vicenda giudiziaria (nel caso di specie era rappresentato dal licenziamento illegittimo), occorrendo mantenere netta la distinzione tra l’oggetto della causa antecedente e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia.
Restringendo il campo al solo danno patrimoniale derivato dalla violazione del termine ragionevole del processo, i giudici della Corte si uniformano all’indirizzo maggioritario secondo cui tale tipo di danno deve comunque essere provato in concreto e precisamente calcolato, con rigorosa prova del nesso di causalità; questo va inteso nel senso di “nesso di causalità adeguata”, ossia che sono causa dell’evento dannoso solo quei fatti che se ne pongono immediatamente e direttamente alla base, con esclusione di quegli accadimenti sopravvenuti che, per essere di per sé soli sufficienti a determinare l’evento, interrompono la sequenza causale (così anche Cass. 26 marzo 2004, n. 6071).
Quindi il danno economico può essere ricollegato alla lunghezza del processo solo se sia l’effetto immediato di tale lunghezza e a condizione che si ricolleghi al ritardo del processo sulla base di una normale sequenza causale: in pratica il danno risarcibile è quello che costituisce conseguenza immediata e diretta del fatto causativo (ex art. 1223 c.c. che è richiamato dall’art. 2, co.3°, legge 89/01, attraverso il rinvio all’art. 2056 c.c.).
La prova di un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura ed il danno – in riferimento al danno patrimoniale – è ribadita anche dalla giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Soggetti legittimati.
La sentenza nella sua motivazione ribadisce un principio indiscusso sulla legittimazione a ricorrere presso le Corti italiane per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione dell’art. 6 della Cedu: tale legittimazione spetta a chi nel processo abbia assunto la qualità di parte processuale, quindi non solo l’attore, ma anche il convenuto che abbia richiesto semplicemente il rigetto della domanda di controparte, così come ha diritto, in caso di domanda proposta a processo già concluso, non solo la parte vincitrice ma anche quella che fosse risultata soccombente (così tra le altre Cass. 24 gennaio 2003, n. 1069). Infatti, il diritto all’equa riparazione del danno di cui alla legge Pinto è previsto a prescindere da quello che sia l’esito della lite, ben potendo anche la parte soccombente aver subito un danno, soprattutto di tipo non patrimoniale, a causa della irragionevole durata del processo (vedi anche App. Potenza 15 ottobre 2001), salvo però i casi di abuso del processo, configurabili quando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, mediante varie tecniche processuali, il perfezionarsi della fattispecie di cui all’art. 2 della legge n.89/01 (vedi Cass. 7 marzo 2003, n. 3410).
Prova del danno.
Nel corpo della commentata motivazione della sentenza viene ribadito che necessario presupposto del diritto all’equa riparazione – di natura indennitaria e non risarcitoria – è l’esistenza di un danno, così come si evince chiaramente dall’art. 2, co.1° della legge 89/2001.
Si aggiunge, però, che la norma suddetta è caratterizzata da una formula generica che non impedisce di ravvisare una differente disciplina della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, giustificata dalle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale.
In tema di danno non patrimoniale, la giurisprudenza ha subito una notevole evoluzione, fino ad arrivare alla recente sentenza delle sez. Unite della Cassazione del 26 gennaio 2004, n. 1338, alla quale la decisione in commento si uniforma.
Le sez. Unite sopra richiamate, in sintesi, hanno affermato che il danno non patrimoniale è “conseguenza normale”, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 del Cedu; pertanto, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno in re ipsa (ossia automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione) il giudice, che ha accertato e determinato l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che escludono che il danno sia stato subito dal ricorrente.
Ne consegue che tale tipo di danno non necessita di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso: la parte non ha l’onere di provarlo, ed il giudice deve riconoscerlo e liquidarlo ogniqualvolta non ricorrano circostanze particolari, nel caso concreto, che facciano escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. In conclusione le sez. Unite hanno ribaltato, rispetto al passato, l’onere della prova: non spetta più al ricorrente dover provare il danno sofferto, ma all’Amministrazione convenuta provarne l’inconfigurabilità del caso concreto.
Una siffatta lettura della norma di legge interna, a parere della Cassazione 1338/04, è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata la violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva.
La tipologia del danno patrimoniale, che il ricorrente può legittimamente allegare, è, invece, soggetta alle ordinarie regole probatorie di cui all’art. 2697 c.c., gravando sulla parte che agisce per ottenere l’equa riparazione l’onere di dimostrare rigorosamente il danno patrimoniale lamentato.
Questo indirizzo delle Sez. Unit. è stato fatto proprio oltre che dalla Cassazione oggetto del presente commento, anche da altre pronuncie di segno conforme (tra le quali Cass. 11 maggio 2004, n. 8896).
Caso di specie.
Una volta enucleati i criteri interpretativi che la Cassazione de qua applica all’art. 2 della legge Pinto, risulta più agevole la comprensione delle critiche mosse da questa nei confronti della sentenza della Corte di Appello.
Nel caso di specie, la società s.p.a. era ricorsa in Appello per ottenere un’equa riparazione ex art. 2 legge 89/2001, deducendo di aver subito un danno patrimoniale costituito dall’obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dalla data del licenziamento fino alla reintegra, nonché i contributi assicurativi e previdenziali maturati nelle more di un giudizio durato in misura non ragionevole.
La Cassazione in commento non condivide la decisione della Corte di Appello che aveva riconosciuto alla società tale perdita patrimoniale, sottolineando testualmente che: “non ha fatto buon governo dei principi sopra richiamati, ancor più a causa della mancanza di ogni considerazione sulla natura dell’indennità posta a carico del datore di lavoro dall’art. 18, comma 4, legge 300/70”. La norma appena citata afferma infatti che:“Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto”.
I giudici di legittimità, aderendo ad un orientamento espresso di recente da altre sentenze di Cassazione, qualificano il risarcimento ex art. 18, legge 300/70 una indennità che non ha natura retributiva bensì risarcitoria piena ed esclusiva. Infatti la dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 non comporterebbe automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, in quanto il risarcimento eccedente la misura fissa minima (pari a cinque mensilità) richiede l’accertamento della responsabilità contrattuale sulla base delle norme del cod. civ.
In altri termini, afferma la Corte, costituisce indefettibile presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro l’imputabilità a costui dell’inadempimento secondo il precetto generale dell’articolo 1218 c.c.(responsabilità del debitore per inadempimento della prestazione) che condiziona l’esistenza del danno risarcibile: l’obbligo del risarcimento del danno non è dunque collegato ad una forma di responsabilità oggettiva.
La natura risarcitoria di questa indennità è stata affermata anche dalla Corte Costituzionale con sentenza del 23 dicembre 1998, n. 420.
La sentenza di appello viene criticata per avere questa fatto derivare il danno patrimoniale subito dalla società automaticamente dal fatto in sé della durata del processo, commisurandolo all’indennità ex art 18, legge 300/70 che la società è stata condannata a pagare al lavoratore licenziato. Così ragionando non si è tenuto distinto l’oggetto della causa antecedente (che si ritiene irragionevolmente lunga) da quello del giudizio di riparazione ex art. 2 legge 89/01, violando un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità. La Corte territoriale infatti, avrebbe configurato quale danno patrimoniale risarcibile ex art. 2, legge 89/02, un pregiudizio direttamente connesso alla decisione di merito del processo “riconducibile all’atto illegittimo posto in essere dal datore di lavoro ed all’illecito civile ascrittogli, rendendo il giudizio di equa riparazione un mezzo attraverso il quale è stato replicato il merito della precedente controversia, senza considerare che la spettanza della indennità commisurata alla retribuzione costituiva il bene della vita dedotto nel processo giudicato irragionevolmente lungo, non già lo specifico pregiudizio derivante dalla durata del medesimo” (così testualmente si legge nella motivazione della Corte Suprema).
Inoltre verrebbe a mancare quel nesso di causalità diretta tra la durata del processo ed il danno patrimoniale subito di cui si è detto in precedenza. Infatti il danno patrimoniale risarcibile ex art. 2 L.89/01 è soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, che costituisce l’effetto immediato e diretto di tale ritardo al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale.
In particolare, si sottolinea da parte dei giudici di legittimità che in sede di Appello non è stato in alcun modo evidenziata la circostanza che l’obbligo di corrispondere la somma ex art. 18 legge 300/70 è previsto per una quota fissa ed irrinunciabile ed ha carattere di penale che trova origine nel rischio d’impresa; per la restante parte essa non sarebbe oggetto di un’obbligazione derivante dalla reviviscenza della lex contractus, costituendo la retribuzione non corrisposta a seguito del licenziamento e fino alla reintegrazione del lavoratore un mero parametro per la liquidazione del danno da risarcire, derivante dall’illecito civile imputabile al datore di lavoro.
Infine l’esistenza del danno patrimoniale subito dal mancato rispetto del termine ragionevole del processo non è stato specificamente provato, come invece è richiesto per quel tipo di danno, in quanto lo si è dedotto in maniera automatica dalla ritenuta durata irragionevole del processo.
(Altalex, 2 marzo 2005. Nota a cura dell’avv. Federico Colletti)
Cassazione
Sezione prima civile
Sentenza 15 novembre 2004-19 gennaio 2005, n. 1094
Presidente Prestipino – Relatore Salvato
Pm Golia – conforme – ricorrente Ministero della Giustizia – controricorrente Impresa Ing. La Falce SpA
Svolgimento del processo
La Spa. Impresa ing. La Falce, con ricorso alla Corte d’appello di Potenza, depositato il 12 febbraio 2003, esponeva che Domenico Urgesi, già suo dipendente e da essa licenziato, con ricorso depositato il 2 giugno 1998 aveva agito in giudizio nei suoi confronti innanzi al Pretore di Taranto, chiedendone la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento. Il giudizio di primo grado si era protratto sino al 4 ottobre 2001, data dell’udienza in cui la causa era stata decisa con la lettura del dispositivo. La fase di appello, iniziata con ricorso depositato in data 25 gennaio 2002, si era conclusa con la sentenza resa in data 13 giugno 2002.
La ricorrente deduceva, quindi, la violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito, Cedu), per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, non potendo ritenersi tale la durata di tre anni e quattro mesi, nonostante essa fosse stata solerte nel porre in essere gli adempimenti a suo carico e benché l’istruttoria non avesse neppure richiesto l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio. Secondo l’istante, l’irragionevole durata del processo le aveva cagionato un danno patrimoniale consistente nello «obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra (pari ad euro 79.500,24) ed agli enti, assicuratore e previdenziale, i premi (pari ad euro 10.518,00) ed i contributi (pari ad euro 34.050,00), maturati nelle more di un giudizio» protrattosi per 36 mesi.
Costituitosi il ministero della Giustizia, la Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, con decreto depositato il 5 giugno 2003, ha ritenuto sussistente la violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, Cedu ed un danno patrimoniale subito dalla ricorrente e consistito in «una perdita secca: l’aver dovuto corrispondere retribuzioni -nonché premi e contributi- per una prestazione lavorativa non conseguita», danno riferibile al tempo eccedente il “termine ragionevole” individuato in quello di «diciotto mesi, determinato in relazione alla utilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, alla delicatezza della lite, alla necessità di espletare attività istruttoria e di discutere la causa previo deposito di note difensive».
Relativamente al quantum, la Corte lucana ha, quindi/ ritenuto di «dover[lo]» liquidare per ciascun anno [recte, mese] di ritardo la somma di euro 2.954,00 come calcolata dalla ricorrente società, individuando come moltiplicatore […] il fattore 24» e, conclusivamente, ha condannato il ministero della Giustizia «al pagamento della somma di euro 7.0896,00 (euro 2.954,00 X mesi 24)», oltre al rimborso delle spese del giudizio.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso il ministero della Giustizia, affidato ad un motivo; ha resistito con controricorso la Impresa ing. La Falce Spa
Motivi della decisione
Il ricorrente, con un unico motivo di censura, denuncia «violazione e falsa applicazione dell’articolo 2 della legge 24.3.2001 n. 89 e dell’articolo 2697 Cc, articolo 6.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia in relazione all’articolo 360, comma 1, nn. 3 e 5 Cpc.».
Ad avviso del ministero della Giustizia, l’articolo 2, legge 89/01, non configura un danno risarcibile per la sola circostanza che il processo non abbia avuto una durata ragionevole, ma stabilisce in favore della parte una equa riparazione che, tuttavia, è «legata ad un danno verificato in concreto, non costituendo essa una sanzione pecuniaria dovuta per il solo fatto del ritardo irragionevole». Deporrebbe a favore di questa interpretazione la circostanza che l’articolo 2, comma 3, cit., stabilisce che il giudice determina la riparazione a norma dell’articolo 2056, Cc, il quale, a sua volta, rinvia agli articoli 1223, 1226 e 1227, Cc, sicché presupposto imprescindibile per la sua attribuzione sarebbe «il verificarsi di un danno che sia conseguenza immediata e diretta del mancato rispetto del suddetto termine» di durata ragionevole del processo, essendo il danno rilevante un evento diverso ed ulteriore rispetto alla eventuale violazione di siffatto termine.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello «ha ritenuto erroneamente ed apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione, di individuare in soli diciotto mesi il termine ragionevole di durata del giudizio di primo grado: con ciò ponendosi in contrasto con i canoni forniti dalla Corte Sopranazionale, che fissa in tre anni la durata del primo grado del giudizio e in due anni quella del giudizio di appello, e senza peraltro dar conto del processo logico-giuridico che l’ha portata ad individuare un termine tanto riduttivo». La delicatezza della lite ed il riferimento ai criteri della giurisprudenza europea avrebbero invece dovuto condurre a ritenere ragionevole la durata del primo grado di tre anni e quattro mesi.
Ad avviso del ministero della Giustizia, erroneamente il decreto ha identificato il danno patrimoniale «con quanto la parte ha dovuto corrispondere al lavoratore e agli enti,assicuratori e previdenziali, a causa di un suo comportamento,che le decisioni dì entrambi i gradi del giudizio hanno stabilito essere arbitrario ed illegittimo, ovvero l’ingiustificato licenziamento del proprio dipendente». Infatti, è questo un danno che non deriva dalla irragionevole durata del processo, bensì dal licenziamento illegittimo, ascrivibile esclusivamente alla società, che avrebbe potuto revocare il licenziamento, transigere la lite e, quindi, avvalersi in tempi più brevi delle prestazioni del dipendente. Le conseguenze sfavorevoli del giudizio non configurano un danno risarcibile e l’equa riparazione prevista dalla legge 89/01 dovrebbe, perciò, essere corrisposta esclusivamente «con riferimento ai danni, diversi ed ulteriori, derivanti “in via diretta ed immediata” dalla durata eccessiva della procedura».
Nel caso in esame, conclude il ricorrente, la società istante non ha subito alcun danno a causa della durata, peraltro assai limitata, del giudizio di primo grado e manca il nesso causale tra il danno asseritamene subito e detta durata, sicché erroneamente il decreto, «senza alcuna motivazione» avrebbe liquidato una «somma considerevole non dovuta per un inesistente danno patrimoniale».
2. – Il ricorso è fondato e deve essere accolto per quanto di ragione.
2.1. – In linea preliminare, deve essere dichiarata infondata l’eccezione con la quale la controricorrente ha dedotto l’inammissibilità del ricorso, in quanto notificato «oltre i trenta giorni dalla notifica» del decreto, tenuto anche conto -sempre a suo avviso- che nella specie non sarebbe applicabile la sospensione dei termini processuali stabilita per il periodo feriale.
Al riguardo occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte si è consolidata nell’affermare che l’articolo 3, comma 6, legge 89/01, nel prevedere, avverso il decreto della Corte territoriale, il rimedio del ricorso per cassazione, senza alcuna limitazione in ordine ai motivi proponibili, si riferisce al ricorso ordinario per cassazione (tra le molte, Cassazione 17650/02; 16936/02; 15852/02) . Questa legge, nel dettare la disciplina del procedimento avente ad oggetto la domanda di equa riparazione e nel prevedere che il decreto della Corte d’appello è «impugnabile per cassazione», non ha peraltro introdotto alcuna deroga alle ordinarie regole procedurali concernenti il relativo ricorso, neppure quanto al termine entro il quale esso deve essere proposto, cosi come, in altri casi, è accaduto, in quanto il legislatore, eminentemente per esigenze di sollecitudine, ha invece inteso prevedere una riduzione del termine breve per proporre ricorso (ex multis -senza considerare il caso del regolamento di competenza, articolo 47, Cpc- cfr. articolo 99, comma 5, legge fallimentare; articolo 5, legge 117/88; articolo 56, comma 3, Rd1578/33; articoli 155 e 156, legge89/1913).
Pertanto, l’espressa previsione del ricorso per cassazione «deve essere intesa come rinvio alle regole ordinarie della impugnazione in questione» (Cassazione 16936/02).
In mancanza di una deroga espressa, al ricorso é applicabile il termine breve previsto dall’articolo 325, comma 2, Cpc, termine che, inoltre, deve ritenersi soggetto alla sospensione dei termini processuali stabilita per il periodo feriale.
Secondo un principio più volte affermato, che va qui ribadito, la sospensione dei termini processuali nel periodo dall’1 agosto al 15 settembre ha, infatti, carattere generale e le eccezioni a questa regola, elencate nell’articolo 3, legge 742/1969, hanno carattere tassativo, in quanto è questa una norma eccezionale, quindi, di stretta interpretazione, non suscettibile di esegesi estensiva e, a fortiori, di applicazione analogica. Si tratta di una configurazione che, come condivisibilmente è stato rimarcato, si impone «anche per evidenti esigenze di certezza del diritto e di garanzia della difesa delle parti, che devono essere in grado di desumere espressamente ed univocamente dal testo della legge -e non ricavare per implicito attraverso opinabili operazioni interpretative- se, relativamente alle controversie cui esse siano interessate, i termini processuali siano o non sottratti alla generale sospensione nel periodo feriale» (Cassazione 12964/02, richiamabile, benché concernente una diversa materia; successivamente, cfr. Cassazione 7077/03; 6963/03) . Orbene, la controversia in esame non è compresa tra quelle alle quali non è applicabile la succitata sospensione e neppure è riconducibile tra quelle di cui all’articolo 409 Cpc. In contrario non rileva, infatti, che il diritto all’equa riparazione sia invocato in riferimento ad un giudizio di siffatta natura, trattandosi di elemento insufficiente a connotare la presente controversia della identica qualificazione, dato che essa ha ad oggetto un diritto che non trae origine da quel rapporto, che dello stesso costituisce mera occasione, poiché il fatto genetico va identificato in una violazione della Cedu in relazione ad un determinato processo (Cassazione, Su 1340/04). Inoltre, per questa considerazione è del tutto ininfluente, al fine di derivarne l’inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale, la circostanza che la causa sia stata decisa dalla «Corte di appello di Potenza magistratura del lavoro», che peraltro attiene ad un profilo sul quale questa Corte non è chiamata a pronunciarsi, in difetto di ogni rilievo delle parti sia nel processo a quo che nel presente giudizio di legittimità, essendo comunque appena il caso di osservare che la succitata designazione attiene alla ripartizione degli affari all’interno dell’ufficio giudiziario e non involge questioni di competenza (Cassazione 5368/03; 3702/87; 5755/82). in applicazione di questo principio, poiché il decreto, secondo quanto emerge dagli atti, è stato notificato il.23 giugno 2003 ed il ricorso, anche avendo riguardo alla notifica ex officio, risulta notificato il 23 settembre 2003 -quindi, tenuto conto della sospensione dei termini nel periodo feriale, nel termine dell’articolo 325 Cpc – deve affermarsi che l’eccezione dì inammissibilità non merita accoglimento.
2.2. – Nel merito, il primo profilo della censura, con il quale il ricorrente si duole della valutazione di irragionevolezza della durata del processo compiuta dalla Corte lucana, è infondato.
La nozione di ragionevole durata del processo, come questa Corte ha più volte affermato, non ha carattere assoluto, bensì relativo e non si presta ad una predetermina z ione certa e predefinita, in quanto è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che non permettono di stabilirla facendo riferimento a cadenze temporali rigide ed a schemi valutativi predefiniti. La ragionevolezza della durata di un processo va, quindi, verificata in concreto, in applicazione dei criteri stabiliti a questo scopo dall’articolo 2, comma 2, legge 89/01, che, imponendo al giudice di accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, richiede appunto di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare (tra le più recenti, Cassazione 6856/04; 4207/04).
I parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno peculiare rilevanza, tenuto conto che essa costituisce il giudice della verifica e chiusura della adeguatezza e della effettività della tutela nazionale (Cassazione 8529/04) e le sue sentenze costituiscono certo una importante e fondamentale guida ermeneutica (Cassazione 4207/04). Tuttavia, ciò non esclude l’obbligo del giudice nazionale di apprezzarli ed applicarli alla luce degli elementi che caratterizzano ogni singola fattispecie, in quanto sono solo questi che permettono di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi in giustizia affrettata e sommaria e consentono la corretta applicazione di un criterio quale quello di ragionevolezza, che ha in sé insiti indubbi margini di elasticità.
La valutazione in ordine alla ragionevolezza della durata del processo costituisce, quindi, una tipica valutazione di merito e si risolve in un apprezzamento di fatto che, in quanto tale, è riservato alla Corte territoriale ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizi di motivazione (ex multis, Cassazione 123/04; 13741/03; 13211/03, 11715/03; 1600/03; 3/2003) . Peraltro, la sufficienza della motivazione del decreto occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (decreto) -benché esso abbia natura sostanziale di sentenza- e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare (Cassazione 6168/03; 1600/03; 8/2003; 16256/02; 15852/02) . Ciò implica che l’onere motivazionale deve ritenersi adempiuto, qualora si accerti che il giudice dell’equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall’articolo 2, comma 2, cit., esplicitando le ragioni del suo convincimento, non essendo necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d’esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie
2.2.1. – Nel caso in esame, la Corte d’appello ha ritenuto non ragionevole la durata del giudizio, eminentemente in riferimento alla fase di primo grado (tre anni e quattro mesi), dopo averlo «rapportato alla complessità ed alla natura della lite, ed ai parametri fissati dall’Organo sopranazionale». In particolare, il decreto impugnato ha osservato che, «se da un lato la parte ha dato causa ad alcuni rinvii, come quello per l’omessa comparizione del legale rappresentante alla prima udienza, e non appare giustificabile, anche se riconducibile ad una loro esclusiva scelta, peraltro non sanzionata dal giudice procedente, la mancata comparizione dei testi ad udienze disposte a seguito di rinvio d’ufficio, ciò nondimeno va rilevato che comunque la Spa ha subito il lungo lasso di tempo tra le varie udienze, lasso ascrivibile al solo difetto di organizzazione amministrativa».
La Corte d’appello ha, quindi, esposto le ragioni che l’hanno indotta a non accogliere la deduzione della parte, che aveva indicato quale termine ragionevole quello di sei o sette 13 mesi, sulla base della mera somma dei termini previsti dal codice di rito, ed ha altresì espressamente fatto riferimento al «canone fornito dalla Corte sopranazionale e fissato in tre anni». Il giudice del merito ha anche avuto cura di esplicitare che ha ritenuto di dovere valorizzare la circostanza che nella specie si tratta di una controversia di lavoro ed è pervenuto a determinare il termine ragionevole, avendo riguardo «alla utilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, alla delicatezza della lite, alla necessità di espletare attività istruttoria e di discutere la causa previo deposito di note difensive», ossia è partito da ipotesi astratte, che ha poi riesaminato alla luce delle specifiche caratteristiche e circostanze del caso in questione.
Il decreto risulta, quindi, caratterizzato da un impianto argomentativo conciso, ma che certo si sottrae alla censura del ricorrente, non essendo sostenibile -come egli ha invece dedotto- che il termine ragionevole sarebbe stato fissato «apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione» e neppure che la Corte si sarebbe sottratta all’onere di «dar conto del processo logico giuridico che l’ha portata ad individuare» il termine. Le argomentazioni svolte sono, infatti, logicamente coerenti e congruenti, immuni da contraddizioni e fondate sull’applicazione dei parametri stabiliti dall’articolo 2, comma 2, legge 89/01.
La motivazione appare, perciò, del tutto adeguata e discutere della valutazione formulata dalla Corte d’appello implicherebbe una revisione del giudizio di merito non consentita in questa sede, poiché il ricorrente, con il profilo in esame, muove a tale motivazione una diretta, inammissìbì1e censura di merito, proponendo una sua valutazione, alternativa a quella accolta dal decreto impugnato. Inoltre, e ciò si osserva in riferimento alla pure prospettata censura di violazione dell’articolo 2, legge 89/01, il termine ragionevole di durata, per quanto sopra esposto, è stato individuato facendo corretta applicazione dei criteri stabiliti dal secondo comma di detta norma, avendo riguardo alla giurisprudenza della Corte europea. apprezzata alla luce dei parametri fattuali della fattispecie concreta, ossia proprio in aderenza al dettato della norma che infondatamente si assume violata.
2.3. – In riferimento al secondo profilo di censura, concernente il riconoscimento e la quantificazione dei danno patrimoniale asseritamente subito dalla controricorrente, va ricordato che dalla violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all’articolo 6, paragrafo 1 della Cedu, deriva il diritto ad una equa riparazione della parte che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di questa violazione (articolo 2, comma 1, legge 89/01).
La previsione del danno (patrimoniale o non patrimoniale) come elemento generatore del diritto all’equa riparazione non altera peraltro la consistenza di quest’ultimo quale credito per fatto lecito. L’equa riparazione, secondo una configurazione più volte affermata da questa Corte, che il Collegio fa propria, ha infatti natura indennitaria, non risarcitoria, in coerenza con il disposto dell’articolo 41 della Cedu e come si evince altresì, sul piano testuale, dai richiami all’equità e al limite delle risorse disponibili, dall’assenza di riferimenti all’elemento soggettivo della responsabilità, dall’adozione del termine “indennizzo” (articolo 3, comma 7, legge 89/01), e, sul piano logico-sistematico, dal rilievo che la violazione della Convenzione in riferimento al rispetto dei termine ragionevole non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’articolo 2043 Cc.
L’equa riparazione costituisce dunque una obbligazione che non nasce ex delicto, ma ex lege, riconducibile agli «atti o fatti idonei a produrla secondo l’ordinamento giuridico» (articolo 1173 Cc; per tutte, Cassazione 6071/04; 14885 /02; 1600/02) e che, perciò, prescinde dalla colpa dell’agente (Cassazione 119/04; 16053/03; 920/03; 15229/02) .
2.3.1. – Il danno risarcibile nel caso di violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Cedu è peraltro diverso da quel lo connesso alla vicenda giudiziaria per la quale la stessa è dedotta (Cassazione 13741/03; 4/03; 18130/02; 15449/02; 13422/02; 11987/02), in quanto «non è infatti (e non può essere) rappresentato dal bene della vita dedotto nel processo irragionevolmente lungo» (Cassazione 3143/04), non è quello di cui, eventualmente, si controverte nella causa antecedente, il cui soddisfacimento dipende unicamente dall’esito di tale causa, bensì è lo specifico pregiudizio derivato alla parte dal fatto che la controversia si è irragionevolmente protratta nel tempo (Cassazione 6163/03).
In tesi, può certo accadere che, in taluni casi, l’esito della causa antecedente possa avere un indiretto riflesso anche sulla identificazione e sulla misura del pregiudizio sofferto dalla parte a cagione della eccessiva durata del giudizio. Tuttavia, ciò non può determinare equivoci di sorta, occorrendo mantenere «netta la distinzione tra l’oggetto di detta causa e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia» (Cassazione 6163/03).
Dalla imprescindibilità di questa differenziazione deriva che dall’area del danno risarcibile «debbono escludersi tutti quei pregiudizi che sono connessi alla decisione di merito del processo, dal momento che il pregiudizio da valutare in sede di equa riparazione non può costituire una duplicazione del danno apprezzato nel giudizio a quo» (Cassazione 3143/04). Ciò implica che il giudice dell’equa riparazione, una volta accertata l’esistenza della violazione, è tenuto ad individuare, sulla scorta degli elementi che la parte ricorrente ha l’onere di fornirgli, quali siano stati gli effetti pregiudizievoli del ritardo, motivando in modo adeguato -benchè con la sintesi alla quale sopra si è fatto cenno~ la sua determinazione.
2.3.2. – Il danno risarcibile è, inoltre, esclusivamente quello causalmente riconducibile alla violazione della Cedu, essendo irrilevanti il profilo soggettivo dell’agente e l’indagine sulla colpa, poiché l’obbligazione indennitaria deriva -come sopra si è precisato- da un’attività lecita dello Stato-apparato (Cassazione 6071/04) Peraltro, con specifico riguardo alla legge 89/01, e proprio in riferimento all’identificazione del danno patrimoniale determinato dalla irragionevole durata del processo, questa Corte ha anche già affermato che al riguardo «non può che farsi governo del principio della causalità adeguata, principio cardine del nostro ordinamento e recepito dall’articolo 41, comma 2, Cp, idoneo ad accertare se quel danno che si lamenti sia riconducibile alla “condotta” od al fatto ipotizzato come generatore» (Cassazione 6071/04). Per questo principio, che ha segnato il distacco dalla concezione condizionalistica della conditio sine qua non, propria del diritto romano, deve escludersi che ogni accadimento che si inserisca nella concatenazione causale sia per ciò stesso causa dell’evento e devono ritenersi causa dell’evento solo quegli accadimenti che ne sono causa diretta, con la conseguenza che i fatti antecedenti o sopravvenuti fanno escludere il nesso dì causalità, quando siano di per sè sufficienti a determinare l’evento.
Dunque, «il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che si ricolleghi al ritardo stesso sulla base di una normale sequenza causale (íd quod plerumque accidit)» (Cassazione 2382/03). In altri termini, danno risarcibile è quello che costituisce «conseguenza “immediata e diretta” del fatto causativo» (ex articolo 1223, richiamato dall’articolo 2, comma 3, legge 89/01, attraverso il rinvio all’articolo 2056 Cc, Cassazione 123 /04), in quanto sia ricollegabile al superamento del termine e trovi causa nel non ragionevole ritardo nella definizione del processo. In tal senso va ricordato che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è appunto consolidata nel richiedere, in riferimento al danno patrimoniale, la prova di «un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura» ed il danno (Corte europea dei dirittidell’uomo, 16 maggio 2002, N.c. Italia; 28 marzo 2002, M. c. Italia; 12 febbraio 2002, 1 c. Italia; 11 dicembre 2001, S. c. Italia) , in forza di un principio fatto proprio da questa Corte, sottolineando -proprio in relazione al danno patrimoniale- che l’equa riparazione «compete solo nella misura in cui essa valga ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo» (Cassazione 15106/04; cfr. anche Cassazione 7524/04) .
2.3.3. – Una volta accertata l’esistenza del nesso dì causalità, nei termini precisati, può convenirsi con la conclusione che, «in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione spetta a tutte le parti del processo stesso, attori o convenuti, a prescindere dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, perché l’esito favorevole della causa [ … ] non è di regola condizione di azionabilità della pretesa indennitaria, salvi i casi di abuso» (Cassazione 13211/03; 6163/03; 3973/03; 3410/03; 1069/03). Ciò significa che l’indennizzo va senz’altro negato «alla parte soccombente che risulti aver promosso una lite temeraria o avere artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie sub articolo 2 l. 89/2001: configurando ciò una ipotesi di abuso del diritto, nella forma peculiare dell’abuso del processo» (Cassazione 3410/03). La piena consapevolezza della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità può, quindi, essere causa d’inesistenza del danno patrimoniale, qualora sia provata dalla parte che la eccepisca per negare l’esistenza dei danni eventualmente addotti (in tal senso, Cassazione 13741/03, benché in una
fattispecie concernente il danno non patrimoniale, ma con principio utilmente richiamabile nel caso in esame; cfr. anche, Cassazione 17650/02).
Tuttavia, questa configurazione non esclude affatto che, come pure ha precisato questa Corte, in armonia con un principio affermato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’esito del processo oggetto del ricorso per violazione del termine ragionevole, può essere apprezzato anche in mancanza di accertamento della ricorrenza di un’ipotesi di abuso del diritto, (Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1987, H. c. Regno Unito; 18 febbraio 1989, L. c. Italia), poiché, in una prospettiva valida anche nel quadro dell’ordinamento interno in riferimento alla legge 89/01, esso può comunque concorrere a determinare l’entità del danno (Cassazione 12935/03; 2478/03). L’esito del processo può dunque «avere un indiretto riflesso anche sull’identificazione e sulla misura del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza della eccessiva durata della causa stessa» (Cassazione 6163/03).
2.3.4. – Identificati la natura dell’obbligazione, il danno risarcibile, la struttura del nesso di causalità e l’eventuale rilevanza dell’esito della lite, deve affermarsi che la natura indennitaria e non risarcitoria dell’equa riparazione, la sua configurazione quale obbligazione ex lege, riconducibile, nel quadro delle fonti di cui all’articolo 1173, cod. civ., agli
«atti o fatti idonei a produrla secondo l’ordinamento giuridico», non fondano alcun automatismo nella sua attribuzione -in particolare, nel l’attribuzione del danno patrimoniale- in favore del soggetto che lamenti la violazione del suo diritto alla ragionevole durata del processo.
Al riguardo è sufficiente ricordare che, di recente, le Su civili hanno rimarcato che l’articolo 2, legge 89/01, ha espressamente ricollegato l’indennizzo all’avere la parte «subito un danno patrimoniale o non patrimoniale», non considerando quindi a questo fine sufficiente l’accertamento della mera violazione della Cedu La norma è caratterizzata da una formula che non impedisce «di ravvisare una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità strettamente correlata alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale». Pertanto, «mentre l’esistenza del primo, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione», è solo per il danno non patrimoniale che può parlarsi «di prova (del danno) di regola in re ipsa» (Cassazioni Su 1338/04).
Le Su civili hanno, quindi, avuto cura di eliminare ogni equivoco, rimarcando l’impossibilità della equiparazione, sotto il profilo probatorio, tra danno patrimoniale e non patrimoniale. Infatti, è solo per quest’ultimo che, «provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale», salvo che questa consequenzialità, normale e non necessaria o automatica, trovi, «nel singolo caso concreto, una positiva smentita», in presenza di circostanze che dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate (Cassazione Su 1338/04).
La tipologia di danno “patrimoniale” che il ricorrente può legittimamente allegare è, invece, soggetta alle ordinarie regole probatorie di cui all’articolo 2697 Cc, sicché grava sulla parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere «di dimostrare rigorosamente il danno (patrimoniale appunto) lamentato» (Cassazione 12935/03; 2478/03), secondo un principio enunciato anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha infatti costantemente liquidato il danno patrimoniale dedotto dagli interessati esclusivamente nel caso in cui ne era stata fornita la piena prova (Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 luglio 1987, F. c. Governo Olandese; 28 giugno 1990, S. c. Svezia; 19 febbraio 1991, M. c. Italia; più di recente, costituiscono conferma di questo indirizzo, 16 maggio 2002, N. c. Italia; 28 marzo 2002, M. c. Italia; 12 febbraio 2002, 1. c. Italia; Il dicembre 2001, S. c. Italia).
Pertanto, incorre nel vizio di violazione di legge la pronuncia che faccia derivare il danno patrimoniale in modo automatico dal fatto in sé della durata del processo.
2.3.5. – Nel quadro dei principi delineati, il secondo profilo della censura merita di essere accolto.
La sentenza impugnata premette che la parte ha dedotto d’avere subito un danno patrimoniale costituito dallo «obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra», nonché i contributi assicurativi e previdenziali «maturati nelle more di un giudizio durato in misura non ragionevole». La motivazione che ha fondato l’accoglimento della domanda consiste, quindi, nella considerazione che da questa durata irragionevole del giudizio «è derivato un danno alla s.p.a. concretizzatosi in una perdita secca: l’aver dovuto corrispondere retribuzioni -nonché versare premi e contributi- per una prestazione lavorativa non conseguita», quantificato per ciascun mese di ritardo nella «somma di euro 2954,00 come calcolata» dalla parte.
L’affermazione nella quale si risolve la motivazione dimostra che la Corte territoriale non ha fatto buon governo dei principi sopra richiamati, ancor più a causa della mancanza di ogni considerazione sulla natura dell’indennità posta a carico del datore di lavoro dall’articolo 18, comma 4, legge 300/70. Quest’ultima è, infatti, la norma di riferimento, in quanto il giudizio la cui durata è stata ritenuta irragionevolmente lunga aveva ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento individuale disposto dalla Spa Impresa ing. La Falce, dichiarato all’esito illegittimo, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione.
La società soccombente ha dedotto che il danno patrimoniale subito a causa della durata del succitato giudizio sarebbe costituito appunto dalla somma che è stata condannata a pagare al lavoratore «dal licenziamento alla reintegra». Questa prospettazione rende, quindi, necessario ricordare che la norma da ultimo richiamata prevede che il giudice, con la sentenza con la quale ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, «condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento ( … ) stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione», disponendo altresì che «in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto».
Si tratta di un’indennità che, secondo il più recente orientamento espresso da questa Corte, al quale il Collegio ritiene di dovere aderire, in quanto più aderente alla formulazione letterale della norma, non ha «natura retributiva», bensì ha «natura risarcitoria piena ed esclusiva». Infatti, la «dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’articolo 18 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro
al risarcimento del danno, con esclusione della rilevanza dei profili del dolo o della colpa del recedente», in quanto il risarcimento eccedente la misura fissa minima (pari a cinque mensilità) richiede invece che sia «accertata la responsabilità contrattuale sulla base delle norme del codice civile» (Cassazione 8263/00; da ultimo, nello stesso senso, Cassazione 12102/04; 3509/4, 3114/04; per la chiara configurazione del richiamo alla retribuzione quale parametro per la quantificazione del danno, anziché quale oggetto di una specifica obbligazione nascente dalla reviviscenza della lex contractus, Cassazione 10307/02; analogamente, anche Cassazione 3509/04) e cioè la sussistenza degli estremi dell’illecito civile imputabile al datore di lavoro (Cassazione 9464/98).
In altri termini, costituisce indefettibile presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro l’imputabilità a costui dell’inadempimento secondo il precetto generale dell’articolo 1218 Cc – fatta eccezione per la misura minima dell’indennità fissata ex lege, non cumulabile con l’indennità risarcitoria- che condiziona l’esistenza del danno risarcibile (Cassazione 3509/04; 10260/02; 8621/01) . L’obbligo del risarcimento del danno non è dunque collegato ad una forma di responsabilità oggettiva, deve essere escluso qualora il rifiuto della prestazione sia giustificato da un motivo legittimo (Cassazione 10260/02) ed il datore di lavoro può andare esente da responsabilità, ovvero invocare una responsabilità attenuata, qualora dimostri, ex articolo 1218 Cc, che l’inadempimento è ascrivibile ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile (Cassazione 3114/04).
La natura risarcitoria di questa indennità è stata affermata anche dalla Corte costituzionale -in particolare, in riferimento alla quota irriducibile- con la puntualizzazione che essa rinviene «la sua radice nel rischio d’impresa» ed è fondata sulla «previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione juris et de lure di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo» della facoltà di recesso (Cc 420/98; il principio è stato poi fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte ed affermato, da ultimo, da Cassazione 12102/04) . Siffatta previsione, ha altresì sottolineato il giudice delle leggi, neppure si pone in contrasto con valori costituzionali, in quanto è frutto di un «non irragionevole bilanciamento» di interessi ed è strumentale rispetto allo scopo di riequilibrare il potere riconosciuto al datore di lavoro a fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione (Cc 420/98).
Alla luce dei principi che si sono riassunti, deve ritenersi che la sentenza impugnata non abbia correttamente affrontato e risolto la questione dell’identificazione del danno patrimoniale risarcibile per effetto della violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Cedu. La pronuncia, anche a causa della mancata considerazione della natura e della specifica disciplina dell’indennità che la società è stata condannata a pagare, ha infatti derivato il danno patrimoniale in modo automatico dal fatto in sé della durata del processo, commisurandolo, in buona sostanza, a detta indennità. La Corte territoriale -in contrasto con i principi sintetizzati nel § 2.3.1- è pervenuta. in tal modo a configurare quale danno patrimoniale risarcibile ex articolo 2, legge 89/01, un pregiudizio direttamente connesso alla decisione di merito del processo, riconducibile all’atto illegittimo posto in essere dal datore di lavoro ed all’illecito civile ascrittogli, rendendo il giudizio di equa riparazione un mezzo attraverso il quale è stato replicato il merito della precedente controversia, senza considerare che la spettanza dell’indennità commisurata alla retribuzione costituiva il bene della vita dedotto nel processo giudicato irragionevolmente lungo, non già lo specifico pregiudizio derivante dalla durata del medesimo.
Inoltre, anche a causa dell’omessa esplicitazione di ogni considerazione in ordine alla natura dell’indennità ex articolo 18, comma 4, cit., alle ragioni che la fondano, alle modalità con le quali deve essere determinata, l’affermazione, l’identificazione e la quantificazione del danno sono state operate in violazione dei principi richiamati ai §§ 2.3.2 e 2.3.3., quindi erroneamente. In particolare, non risulta in alcun modo apprezzata la circostanza che l’obbligo di corrispondere la somma de qua è per una quota fissa ed irriducibile ed ha carattere di penale che trova radice esclusivamente nel rischio di impresa. Per la residua parte, come è stato sopra precisato, essa non è oggetto di un’obbligazione derivante dalla reviviscenza della lex contractus, costituendo la retribuzione non corrisposta a seguito del licenziamento e fino alla reintegrazione nel posto di lavoro un mero parametro per la liquidazione del danno da risarcire, derivante dall’illecito civile imputabile al datore di lavoro. La Corte d’appello non ha, quindi, tenuto conto che danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’articolo 2, legge 89/01, è soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, che costituisce l’effetto immediato e diretto di tale ritardo al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale. La mancata, corretta valutazione dell’oggetto del giudizio che si è ritenuto protrattosi per una durata irragionevole e della natura dell’obbligo a carico del datore di lavoro ha peraltro anche condotto alla omissione della doverosa valutazione del suo esito e delle ragioni stesse dell’obbligo posto a carico della società, che invece occorre considerare ed apprezzare allo scopo di valutarne l’incidenza sull’identificazione e sulla misura del pregiudizio patrimoniale asseritamente subito dalla parte a causa di detta eccessiva durata. L’esistenza del danno patrimoniale, in buona sostanza. neppure ha costituito oggetto di specifica dimostrazione, come invece è necessario per quanto precisato al § 2.3.4., ma è stato derivato automatica mente dalla ritenuta durata irragionevole del processo.
In conclusione, sussiste il vizio denunciato e, conseguentemente, il ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza cassata, con rinvio della causa alla stessa Corte di appello di Potenza, ma in persona di giudici diversi, che provvederà al riesame della controversia, conformandosi principio enunciato, pronunciandosi inoltre anche sulle spese dì questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Potenza, in diversa composizione.
giustizia oltra che alla lunghezza dei processi quali indcazioni potete darmi quando e’ inequivocabilmente compiacente anche il proprio avvocato?Io ho diverse cause civili in cui e’ chiara la condotta negligente(e sicuramente voluta per inciuci)del mio avvocato;mi sta letteralmente rovinando , mi ricatta , ho paura che mi possa chiedere dei compensi extra che francamente non posso pagare.A chi posso rivolgermi?