Ecco i nuovi poveri: famiglie giovani, italiane e con bimbi
telefonate in un mese, 40 colloqui già fatti: incontri che stanno
confermando che la nuova povertà legata alla crisi colpisce famiglie
giovani, «in ascesa», che avevano fatto programmi all’insegna della
fiducia, coppie che – persino un po’ a sorpresa – stavano contribuendo
a un tentativo di ripresa demografica. È il primo bilancio torinese
dell’iniziativa della Conferenza Episcopale Italiana «Prestito della
Speranza», a sostegno di famiglie colpite dalla recessione, affidata
dai vescovi alle Caritas locali (a Torino collabora la Fondazione Mario
Operti). In Piemonte hanno aderito 27 banche, a Torino 24. Il credito
erogato arriva a un massimo di 6000 euro in un anno, da restituire poi
con gradualità. «Il progetto non si rivolge a disoccupati di lungo
corso – precisa Pierluigi Dovis, direttore della Caritas Diocesana -,
ma a persone che hanno famiglia e che si sono ritrovate in cassa
integrazione o disoccupate dal 2008 in avanti». Il percorso suggerito è
di rivolgersi alle parrocchie, che verificano i requisiti di base e
prendono contatto con la Caritas.
Nei colloqui, curati da coppie
di volontari formati, si è delineata una prima attendibile fotografia
delle famiglie in difficoltà. «L’80 per cento sono italiane, il 60 ha
tre o più figli, il restante 40 due o uno. Avere almeno tre figli per
accedere al prestito è uno dei requisiti indicati dalla Cei. Noi
avevamo pensato che a Torino fosse un criterio troppo selettivo.
Invece, non lo è. Comunque, siccome qui abbiamo allargato il progetto a
una rete locale che comprende il Progetto Trapezio della Compagnia di
San Paolo a sostegno della povertà grigia, la Fondazione San Matteo
contro l’usura e la società Prospettiva Lavoro, che fa tutoraggio nella
re-immissione nel mondo del lavoro, è possibile accogliere anche i
nuclei familiari meno numerosi».
L’identikit del capofamiglia
che solo un anno-un anno e mezzo fa conduceva un’esistenza tranquilla,
tanto da essersi fatto carico di un mutuo, delinea nel 50% dei casi una
persona tra 36 e 45 anni, nel 40% tra 46 anni e l’età della pensione,
nel 10% tra 25 e 35. L’85% è residente in città, il 15% in cintura. Il
45% è, o era, dipendente di una industria metalmeccanica, il 50% di
società di servizi. C’è anche qualche artigiano. «Ci ha sorpreso quel
50% che lavorava nell’informatica, nella manutenzione, nella vendita.
In crisi non c’è solo l’industria ma anche ciò che le ruota intorno».
Il
progetto prevede un prestito fino a 6000 euro in un anno, l’arco di
tempo in cui dovrebbe avvenire il reinserimento, obiettivo del
«Prestito della speranza». L’erogazione è finalizzata a sostenere il
lavoratore nel periodo in cui – a sua scelta – sarà immesso in un
percorso di formazione e reinserimento lavorativo oppure costruirà un
progetto di autoimprenditorialità – spesso un banco al mercato –
finanziato con microcredito. «Il 90% sceglie il lavoro dipendente»,
dice il direttore Dovis. «Tutte le persone sono seguite da tutor che
ricercano le opportunità formative, delineano il bilancio delle
competenze professionali, fanno rimotivazione e accompagnamento nella
ricerca».
Le persone che sono arrivate finora, dice Dovis, «sono
dilaniate dentro. Si sentono inadeguate, depresse. Piangono. L’altro
giorno è venuta una madre con una bimbetta. La donna appena iniziato il
colloquio con i volontari è scoppiata a piangere. La bimba correva
nell’ufficio ed è arrivata da me. Mi ha detto “Se sei tu il capo qua
dentro, fai smettere di piangere mia madre”». Tutti raccontano di
essere caduti in modo repentino. «Non nell’arco di mesi, ma di
settimane, senza aver avuto il tempo di guardarsi intorno. Intorno,
poi, non hanno una rete di protezione sociale o economica. Il loro
risparmio era il mutuo. E adesso non riescono più a pagare niente».
Tutti, conferma Dovis, «dimostrano una grande voglia di lavorare. Non
sono finiti in quella situazione perché fannulloni. Il pericolo, però,
è che trascorra troppo tempo prima che trovino una nuova occupazione e
che perdano la mentalità del lavoro».