Esercizio abusivo della professione di avvocato: assolto se attività non continuativa
La II sezione penale della Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato, reato rispetto al quale l’imputato era stato condannato nei due gradi di merito. Gli ermellini hanno annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Messina, oggetto di impugnazione, con la motivazione “il fatto non sussiste”.
In particolare la Corte territoriale aveva ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 648 c.p. affermando che l’attività di mera consulenza legale è inquadrabile tra quella definita “specifica” della professione di avvocato, che secondo l’accusa era “abusivamente esercitata”. Il medesimo collegio, per la sussistenza del reato, aveva ritenuto sufficiente l’adempimento di un solo atto di consulenza.
La Cassazione, nel motivare l’annullamento della sentenza, ha riportato i due orientamenti formatisi in materia. Per quello restrittivo (Cass. n. 17921/2003) non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato colui che redige una relazione di consulenza, poiché detta attività non rientra tra gli atti cosiddetti “tipici” e rispetto ai quali occorre l’abilitazione, ma, al contrario, rappresenta un’attività “relativamente libera, solo strumentalmente connessa con la professione forense”.
Per l’ulteriore orientamento (Cass. 49/2002), ai fini della configurabilità del reato in questione, rappresentano “atti rilevanti non solo quelli riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione, c.d. atti tipici della professione, ma anche quelli c.d. caratteristici, strumentalmente connessi ai primi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione: per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo”.
La Corte evidenzia che all’imputato è stato contestato un unico episodio, commesso ai danni della sola parte offesa, e che, né dal capo d’imputazione, né dalla parte motiva della pronunzia impugnata, appare presumibile che l’imputato abbia esercitato in modo “continuativo, sistematico ed organizzato l’attività di consulenza”.