Fallimento del datore di lavoro e competenza del giudice Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 02.02.2010 n° 2411
Dopo il fallimento il riconoscimento del credito è dinanzi al
giudice fallimentare: per le cause di lavoro giudizi separati se
interviene il fallimento del datore di lavoro.
Il
prestatore di lavoro, infatti, che voglia vedersi riconoscere il
proprio credito (con il relativo grado di prelazione), deve proporre la
domanda, insinuandosi al passivo del fallimento, davanti al giudice fallimentare e non al giudice del lavoro, al quale la competenza rimane in caso di impugnativa del licenziamento.
E’ quanto ha precisato di recente
volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro le relative
domande devono essere proposte come insinuazione nello stato passivo
davanti al giudice fallimentare, il cui accertamento è l’unico titolo idoneo per l’ammissione allo stato e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione”.
Da
ciò deriva che nel caso in cui vengano proposte con il rito speciale
del lavoro sia domande nei confronti di una società fallita che di una
società in bonis, il giudice adito non dovrà “limitarsi” a dichiarare la propria incompetenza, ma dovrà dichiarare improcedibili le domande avanzate nei confronti della società fallita, esaminando, altresì, quelle proposte nei confronti della società in bonis,
con l’unica eccezione al principio generale che la giurisdizione del
lavoro rimane per la domanda di dichiarazione di illegittimità del
licenziamento, anche nel caso in cui sia proposta nei confronti del
fallito.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Ordinanza 2 febbraio 2010, n. 2411
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con
ricorso al giudice del lavoro di Benevento depositato il 13.11.07,
P.R., premesso di essere stata dipendente prima di Voxtel s.p.a. e poi
di Klik s.p.a., subentrata alla prima quale cessionaria di ramo
d’azienda, chiedeva che fosse accertato il rapporto di lavoro
subordinato e la sua continuita’ e le fosse riconosciuto un superiore
inquadramento, oltre differenze retributive maturate in relazione alla
prestazione offerta. Chiedeva, altresi’, che fosse dichiarata
l’illegittimita’ del recesso intimatole da Voxtel s.p.a. e che fosse
accertato che nessun recesso era, invece, stato irrogato da Klik
s.p.a., con condanna di quest’ultima alla ricostituzione del rapporto e
di entrambe al risarcimento dei danni.
Costituitasi in
giudizio, Klik s.p.a. contestava la propria legittimazione passiva – in
quanto estranea al rapporto di lavoro menzionato dalla P. – ed eccepiva
l’incompetenza funzionale e territoriale del giudice adito in quanto le
richieste avrebbero dovuto essere sottoposte al Tribunale fallimentare
di Napoli, che in data (****) aveva dichiarato il fallimento di Voxtel
s.p.a..
Con ordinanza del 14.7.08 il giudice del lavoro
di Benevento, si riteneva competente “posto che la dichiarazione di
fallimento di una delle societa’ resistenti non impedisce la
prosecuzione del giudizio al fine di accertare determinati fatti nei
confronti della societa’ fallita con eventuale condanna al pagamento di
spettanze retributive nei confronti del presunto condebitore in solido
a fronte della supposta cessione”; disponeva, pertanto, la prosecuzione
del processo.
Ritenendo che l’ordinanza in questione
avesse natura di sentenza sulla competenza, Klik s.p.a. proponeva
ricorso per regolamento di competenza, deducendo:
1)
violazione della L. Fall., artt. 24, 52 e 92 ed invocando la competenza
territoriale del Tribunale di Napoli in ragione della vis actractiva
del foro fallimentare, in quanto le domande, anche se proposte allo
stesso tempo verso altro soggetto in bonis, erano tutte ricollegabili
ad un unico rapporto di lavoro ed avevano tutte contenuto patrimoniale;
2)
violazione della L. Fall., art. 24 e dell’art. 2112 c.c. in quanto
anche l’accertamento della invocata cessione di azienda dalla societa’
poi dichiarata fallita a Klik s.p.a. ricadeva nella cognizione del
giudice fallimentare per le ripercussioni di contenuto patrimoniale
derivanti alla procedura concorsuale dall’accertamento in questione;
3)
contraddittorieta’ ed insufficienza di motivazione, in quanto il
giudice adito, a fronte di una domanda diretta alla condanna per il
pagamento di crediti sia retributivi che risarcitori, dopo aver
ritenuto la propria competenza avrebbe pur sempre ammesso la propria
incompetenza funzionale a pronunziarsi su tutte le domande di condanna
spiegate nei confronti del fallimento, verso cui avrebbe limitato la
propria giurisdizione solo all’accertamento di “determinati fatti”.
La P. depositava memoria ex art. 47 c.p.c., mentre non svolgeva attivita’ difensiva il Fallimento Voxtel s.p.a..
Interpellato
ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., il Procuratore generale presentava
conclusioni scritte con le quale chiedeva il rigetto del ricorso.
Fissata l’adunanza della Camera di consiglio, P. ha depositato ulteriore memoria.
Il ricorso non e’ meritevole di accoglimento.
Procedendo
all’esame dei tre motivi in unico contesto, la tesi di parte ricorrente
puo’ essere sintetizzata nel senso che la pluralita’ di domande della
P., presentate parte nei confronti di soggetto dichiarato fallito e
parte anche nei confronti di altro soggetto in bonis, sarebbero tutte
di competenza del giudice fallimentare in forza della L. Fall., art. 24.
Preliminarmente
deve rilevarsi, in accordo con quanto sostenuto dal Procuratore
generale, che la proposizione con il rito ordinario di domanda diretta
a far valere un credito nei confronti del fallito comporta una
questione non di competenza, ma di rito, il che determina
l’improponibilita’ della domanda (Cass. 3.2.06 n. 2439) e comporta una
semplice pronunzia in rito (la declaratoria di improcedibilita’) ed
esclude la possibilita’ di far ricorso al regolamento di competenza
(argomento da Cass. 14.10.05 n. 19984). La sovrapposizione di numerose
domande, alcune delle quali rientranti nella competenza esclusiva del
giudice del lavoro (v. di seguito) e la circostanza che il giudice
fallimentare non fa parte dello stesso organo giudiziario adito,
comunque, rendono nella specie ammissibile il mezzo impugnatorio.
Tanto
premesso deve rilevarsi che la L. Fall., art. 24 – nel testo introdotto
dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 21 applicabile nella specie
ratione temporis, dato che il fallimento risulta dichiarato il (****) –
prevede che “Il tribunale che ha dichiarato il fallimento e’ competente
a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il
valore. Salvo che non sia diversamente previsto, alle controversie di
cui al comma 1 si applicano le norme previste dagli artt. da 737 a 742
c.p.c.. Non si applica l’art. 40 c.p.c., comma 3”. Il successivo art.
52, anch’esso nel testo introdotto nel 2006, prevede, inoltre, che
“Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai
sensi dell’art. 111, comma 1, n. 1), nonche’ ogni diritto reale o
personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le
norme stabilite dal Capo 5^, salvo diverse disposizioni della legge.”.
Alla
luce di tali disposizioni puo’ ritenersi confermato il principio che le
domande proposte dal lavoratore, una volta intervenuto il fallimento
del datore di lavoro, per veder riconoscere il proprio credito e il
relativo grado di prelazione, devono essere proposte, come insinuazione
nello stato passivo, non dinanzi al giudice del lavoro, ma dinanzi al
tribunale fallimentare il cui accertamento e’ l’unico titolo idoneo per
l’ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali
diritti di prelazione, sopravvivendo la giurisdizione del lavoro nella
sola ipotesi dell’impugnativa del licenziamento (v. da ultimo Cass.
14.9.07 n. 19248).
Questo principio non vale a
convalidare la tesi di parte ricorrente secondo la quale le domande
proposte allo stesso tempo nei confronti del soggetto fallito e di
quello in bonis per crediti agli stessi facenti carico solidalmente
dovrebbero essere comunque trattate dal giudice fallimentare, in quanto
attratte dalla competenza funzionale di quest’ultimo. L’autonomia delle
azioni proponibili da un creditore nei confronti di piu’ soggetti
solidalmente obbligati nei suoi confronti opera, infatti, anche nel
caso del fallimento di uno di essi, con la conseguenza che l’azione
verso il fallito comporta il ricorso alla procedura speciale
dell’insinuazione al passivo del credito – e quindi l’improcedibilita’
della domanda non proposta con il rito fallimentare – mentre l’azione
nei confronti del coobbligato in bonis puo’ procedere con il rito
ordinario (Cass. 9.7.05 n. 14468, 1.9.95 n. 9211 e 15.4.95 n. 4300).
Ne
consegue che, ove vengano proposte con il rito speciale del lavoro (il
che non muta la sostanza delle cose) contemporaneamente domande nei
confronti di una societa’ fallita e di una societa’ in bonis, il
giudice adito non dovra’ dichiarare la propria incompetenza, ma dovra’
dichiarare improcedibili le domande avanzate nei confronti della prima
e dovra’ esaminare quelle proposte nei confronti della seconda, con
l’unica eccezione al principio generale che la giurisdizione del lavoro
permane per la domanda di dichiarazione di illegittimita’ del
licenziamento, anche se proposta nei confronti del fallito.
Quanto
alla cognizione in punto di trasferimento di azienda, deve rilevarsi
che, come dichiarato dalla stessa ricorrente (pg. 7 del ricorso), la
dipendente ha chiesto di accertare la continuita’ del rapporto di
lavoro instaurato con Voxtel e proseguito con Klik, cessionaria
dell’azienda, ma non di dichiarare la simulazione della cessione, di
modo che la statuizione non e’ destinata a procurare il “riassetto
delle componenti patrimoniali accertate nell’ambito della procedura
concorsuale”, secondo l’assunto del ricorrente (pg. 30 del ricorso).
Non solo, dunque, la giurisprudenza di legittimita’ richiamata in
proposito dal ricorrente e’ inconferente, avendo ad oggetto un caso di
simulazione della cessione con conseguente domanda di reintegrazione
del lavoratore nel rapporto alle dipendenze del preteso cedente, ma il
giudice fallimentare non pare investito della domanda in quanto diretta
solo nei confronti della societa’ cessionaria non fallita.
In conclusione, il ricorso e’ infondato e deve essere rigettato.
Le spese di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE
Rigetta
il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in Euro
30,00 per esborsi ed in Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese
generali, Iva e Cpa.
Cosi’ deciso in Roma, il 27 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2010.