Fallimento, la condotta fraudolenta del curatore integra il reato di peculato Cassazione penale , sez. II, sentenza 26.01.2010 n° 3327
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 8-26 gennaio 2010, n. 3327
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
All’esito
di rito abbreviato, con sentenza 29.5.06 il GUP del Tribunale di Milano
condannava G.C. e C.G.C. rispettivamente alla pena di anni 6 di
reclusione e di anni 3 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa (previa
concessione delle attenuanti generiche ed applicazione della
continuazione e della diminuente del rito), la prima per plurimi
delitti di falso materiale in atto pubblico (capi C e D dell’editto
accusatorio) e peculato (capi A e B), il secondo per il delitto di
riciclaggio (capo F), nonchè entrambi al risarcimento dei danni in
favore delle costituite parti civili.
In sintesi, così
la sentenza di prime cure ricostruiva la vicenda: a seguito della
denuncia di N.G., titolare di uno studio commercialista di cui G.C. era
socia, emergeva che nei conti correnti intestati ad alcune procedure
fallimentari, di cui la stessa G. era curatrice, erano state prelevate
ingenti somme di denaro sulla base di autorizzazioni al pagamento
formalmente emesse dal giudice delegato al fallimento, ma poi alterate
negli importi e nei relativi beneficiari. In particolare, a giovarsi di
tali distrazioni di denaro (circa 2,5 milioni di Euro) erano stati i
fratelli B.A. e B.C., Radio Milano International S.p.A. ed altre
società gestite dagli stessi germani. A sua volta, il denaro
indebitamente corrisposto dalla G. ai B. e alle società ad essi
riconducibili era in larga parte confluito sui c/c degli stessi B.
presso la Banca CrediEuronord s.c.a.r.l. di cui, all’epoca dei fatti
(tra l'(OMISSIS)) era direttore generale C.G.C. e direttore di sala
M.A. (quest’ultimo ed i B. erano stati separatamente processati e
condannati).
In breve, la G. agiva mediante la
falsificazione delle autorizzazioni al prelievo, con cui il giudice
delegato al fallimento acconsentiva ai vari pagamenti della procedura,
compresi quelli dei creditori che dovevano essere soddisfatti in
prededuzione; la G. presentava alla banca, presso cui era stato acceso
il conto corrente della procedura fallimentare, l’autorizzazione al
prelievo, regolarmente firmata dal giudice, ma in cui era stato omesso
di riportare l’importo della somma in lettere; grazie a ciò l’imputata
poteva modificare l’indicazione della somma riportata in cifre e poi
inserire l’importo, così modificato, anche in lettere; in questo modo,
la somma originariamente autorizzata dal giudice veniva erogata
all’avente diritto, mentre la somma residua, frutto della manipolazione
del provvedimento, veniva utilizzata a favore dei fratelli B. e di
altri destinatari, il cui nominativo era stato indebitamente aggiunto
dalla G. nella stessa autorizzazione al prelievo.
Quanto
al C., il GUP ne aveva ritenuto la penale responsabilità ai sensi del
combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 648 bis c.p., perchè, pur
essendo responsabile delle segnalazioni antiriciclaggio ai sensi del
regolamento della banca, non aver impedito il riciclaggio del danaro
fatto pervenire dalla G. ai fratelli B. attraverso le sopra descritte
operazioni, nonostante che nella sua posizione di direttore generale
della Banca CrediEuronord s.c.a.r.l., piccola banca monofiliale, non
potesse ignorare le anomalie delle operazioni bancarie poste in essere
dai B., importanti clienti dell’istituto di credito; era altresì
verosimile che nell’ambiente dei funzionali e degli altri dipendenti
della banca medesima si fosse certamente parlato di tali anomalie, che
il C. medesimo aveva avuto modo di notare quanto meno in occasione di
una pratica di fido, tale da porlo in condizione di trarre elementi di
sospetto dall’entità dei versamenti e dalle strane modalità di
giroconto mediante utilizzo di erronee causali; a ciò dovevano
aggiungersi, proseguiva la sentenza di primo grado, le dichiarazioni
dell’imputato di reato connesso M.A. (all’epoca direttore di sala), che
aveva riferito di aver segnalato al C. le anomalie di registrazioni di
movimenti di prelievo e di versamento in contanti effettuati dai B. in
luogo di normali giroconto. Per la precisione, il denaro che la G.
aveva fatto pervenire a Radio Milano International S.p.A. (nell’ordine
di svariati milioni di Euro) veniva riversato su altri c/c di
pertinenza dei fratelli B., accesi sempre presso la filiale della Banca
CrediEuronord s.c.a.r.l., attribuendo falsamente a tali giroconto
causali indicative di prelievi in contanti e di versamento – ancora in
contanti – su tali c/c, in modo da ostacolare l’individuazione
dell’illecita provenienza del denaro e la sua destinazione ultima.
Con
sentenza 25.10.07 la Corte d’Appello di Milano assolveva il C. dal
reato ascrittogli perchè il fatto non costituisce reato e, qualificati
come truffa i fatti di cui ai capi A e B della rubrica, riduceva la
pena a carico della G. ad anni 5 di reclusione.
A tale
diversa qualificazione giuridica la sentenza di secondo grado perveniva
in base al rilievo che, prima dell’autorizzazione del G.D. e del
rilascio di mandati di pagamento, la G. non aveva ancora il possesso,
neppure mediato, delle somme della procedura depositate sui conti
correnti intestati ai vari fallimenti; con l’emissione dei mandati
l’imputata acquisiva l’autorizzazione al legittimo prelievo delle somme
e, con essa, la disponibilità giuridica; ma soltanto con l’alterazione
dei mandati (e, quindi, con la commissione dei reati di falso
materiale) la G. acquisiva – ad avviso della Corte territoriale – il
possesso delle somme ulteriori rispetto a quelle autorizzate, oggetto
della sua appropriazione; il possesso di queste ultime era, quindi,
conseguenza della condotta truffaldina dell’imputata in quanto
acquisito mediante artifici e raggiri.
Per quel che
concerneva la posizione del C., la Corte territoriale escludeva
l’elemento soggettivo del reato di riciclaggio contestatogli ritenendo
insufficienti gli indizi a suo carico valutati dal GUP circa la
consapevolezza dell’illecita provenienza del denaro versato dai
fratelli B. sui c/c accesi presso la Banca CrediEuronord s.c.a.r.l.,
nonostante l’anomalia delle operazioni bancarie eseguitevi.
Ricorrevano il PG presso la Corte d’Appello di Milano e la G. contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento.
Ricorso
del PG. Con il primo motivo di ricorso il PG lamentava che la Corte
territoriale aveva riqualificato come violazioni dell’art. 640 c.p., i
reati di peculato originariamente ritenuti dal Tribunale, sull’erroneo
presupposto che la G. non avesse il possesso mediato delle somme
depositate sui conti correnti intestati ai vari fallimenti; tale
possesso andava – invece – riconosciuto perchè per possesso di bene
pubblico ai fini dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 314 c.p.,
doveva intendersi non soltanto la materiale detenzione del bene stesso,
ma anche la sua disponibilità giuridica, rawisabile ogni qual volta il
soggetto agente fosse stato in grado, mediante atto dispositivo di sua
competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di
ingerirsi nel maneggio o nella disponibilità di denaro e di conseguire
quanto poi oggetto di appropriazione. A sua volta tale possesso di
denaro poteva anche essere mediato e far capo congiuntamente a più
pubblici ufficiali, qualora le norme prevedessero il concorso di più
organi: era questa l’ipotesi concernente la G., che predisponeva ì
mandati di pagamento (da sottoporre al G.D.) per le banche, aveva la
gestione e la disponibilità dei c/c fallimentari, a tale titolo era
abilitata a chiedere al giudice l’autorizzazione ad effettuare i
pagamenti ai creditori del fallimento e poteva disporre i prelievi
presso l’istituto di credito che aveva in deposito le somme.
In
tal senso – proseguiva il PG ricorrente – si era pronunciata con
sentenza del 18.12.07 la Sez. 6^ di questa S.C. in fattispecie del
tutto analoga, sempre a carico della G. e con riferimenti ad altre
procedure fallimentari.
Con il secondo motivo di ricorso
il PG censurava l’impugnata sentenza perchè aveva escluso per il C.
l’elemento soggettivo del delitto p. e p. ex art. 648 bis c.p.,
prescindendo totalmente dal suo ruolo di responsabile dell’applicazione
della normativa anti-riciclaggio, che per legge lo obbligava ad
identificazione, registrazione, conservazione dei dati e controllo dei
mezzi di pagamento: invece il C., in violazione di tali obblighi, non
aveva effettuato nè controlli nè approfondimenti, nè valutazioni sulle
operazioni effettuate presso la sua piccola banca dai B., in tal modo
non impedendo che costoro se ne servissero per operazioni di
riciclaggio.
D’altronde – proseguiva il ricorso del PG
nel dolersi dell’erronea valutazione del materiale probatorio ad opera
dei giudici d’appello – nel corso dell’interrogatorio del (OMISSIS) il
C. non aveva negato che costituissero riciclaggio le operazioni poste
in essere dai B., così come non aveva negato le loro eccessive
richieste di blocchetti di assegni, i suoi rapporti diretti con i
summenzionati fratelli, la sua stabile presenza all’interno della
(unica) filiale della Banca CrediEuronord s.c.a.r.l., le segnalazioni
verbali ricevute dal M. circa l’anomalia delle operazioni poste in
essere dai B. (tra i clienti più presenti ed attivi della banca), i
versamenti c.d. virtuali da loro effettuati, segnalazioni cui il C.
aveva in sostanza risposto con il dire che si trattava pur sempre di
acquisire liquidità per la banca.
In breve, il C. aveva
ignorato la disciplina della L. n. 197 del 1991, all’epoca vigente ed i
parametri, individuati dalla Banca d’Italia, di riconoscibilità di
operazioni sospette contenuti nel c.d. decalogo pubblicato sulla G.U.
del 14.2.01, omettendo di comunicare il tutto all’UIC. Ulteriore
elemento che giocava a carico del C. era dato dallo stesso tenore delle
sue difese, dal momento che egli si era discolpato con il dire di non
aver fatto nulla perchè nessuna anomalia gli sarebbe stata segnalata,
difesa – questa – contrastante con la condotta tenuta dal C. a fronte
di altre operazioni sospette di riciclaggio poste in essere da soggetti
diversi dai B., operazioni da lui segnalate pur senza aver previamente
ricevuto, a sua volta, segnalazioni scritte da parte degli altri
dipendenti della banca.
A fronte di ciò l’impugnata
sentenza, nell’assolvere il C., aveva omesso di esaminare e di valutare
il profilo decisivo dei doveri incombenti sul C. quale responsabile
anti-riciclaggio, a maggior ragione tenuto conto del contesto operativo
di piccole dimensioni dell’istituto di credito e delle certe ed
evidenti anomalie delle operazioni realizzate dai B..
Ricorso della G..
Con
unico motivo di doglianza la G., tramite il proprio difensore,
censurava la pronuncia di secondo grado in punto di motivazione del
trattamento sanzionatorio, perchè l’analogo precedente valutato a suo
carico non era, all’epoca, ancora passato in giudicato (formatosi
soltanto il 18.12.07) e dipendeva soltanto dallo stralcio di altri
reati analoghi separatamente giudicati; pertanto, si trattava di
condotte, pur reiterate, comunque rientranti in un unico disegno
criminoso ed in un unico contesto cronologico. Oltre a ciò, il calcolo
dell’incremento ex art. 81 cpv. c.p., operato dall’impugnata sentenza
rappresentava una sostanziale reformatio in peius in assenza di gravame
sul punto, ad onta dell’apparente riduzione di pena finale.
Nelle
more, la difesa del C. depositava memoria con cui chiedeva la
declaratoria di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso
del PG. 1 – Osserva la Corte che il primo motivo del ricorso del PG è
fondato, dovendosi condividere e ribadire le considerazioni già svolte
da questa Suprema Corte, Sez. 6^, con sentenza n. 16980 del 18.12.07,
dep. 24.4.08, rv. 239842, emessa nei confronti della stessa G. e di
altri.
Si premetta che da tempo la giurisprudenza di
legittimità ha delineato la differenza tra i reati di peculato e
truffa, chiarendo che nel primo il possesso del denaro è un antecedente
della condotta appropriativa, mentre nel secondo la condotta
fraudolenta, attuata mediante artifici e/o raggiri, è finalizzata a
consentire al soggetto agente di entrare in possesso del denaro stesso,
per poi appropriarsene (tra le tante, cfr. Cass. Sez. 6^ n. 6753 del
4.6.97, dep. 8.6.98, rv. 211009; Finocchi e altri).
Si
tratta di orientamento pacifico, che traccia una precisa linea di
demarcazione tra le due figure delittuose, ma che non può invocarsi per
qualificare come violazioni dell’art. 640 c.p., i reati alla G.
ascritti ai capi A e B dell’editto accusatorio.
Infatti,
proprio in base ai criteri differenziali indicati da tale indirizzo
giurisprudenziale si perviene a configurare, nella specie, il delitto
di peculato.
Dalle sentenze di merito risulta infatti
che la G. si è appropriata delle somme di denaro di cui aveva la
disponibilità nella qualità di curatrice fallimentare: l’imputata
accedeva ai conti correnti del fallimento in forza dell’autorizzazione
rilasciatale dal giudice delegato; nella qualità di curatrice riceveva
il denaro dalla banca; sempre in tale qualità distribuiva le somme ai
vari creditori, trattenendo per sè gli importi ulteriori, frutto della
falsificazione. Ebbene in tale condotta la falsificazione non ha
costituito l’artificio attraverso cui l’imputata ha avuto la
disponibilità del denaro, che invece è stata acquisita attraverso le
autorizzazioni che il giudice delegato le ha rilasciato in quanto
curatrice fallimentare, ancor prima che tali autorizzazioni venissero –
poi – parzialmente alterate.
Pur trattandosi di condotta
al limite fra le due fattispecie astratte (artt. 314 e 640 c.p.),
nondimeno deve escludersi che l’impossessamento del denaro sia diretta
conseguenza dell’inganno, in quanto la falsa documentazione è servita
soltanto a favorire il materiale trapasso delle somme in quantità
maggiore a quella originariamente autorizzata, laddove la disponibilità
del denaro è stata conseguita dall’imputata già nella qualità di
curatrice fallimentare, sia pure con l’integrazione costituita
dall’autorizzazione del G.D. al pagamento dei creditori. In sostanza, è
vero che in quanto curatrice fallimentare non aveva – da sola – la
disponibilità delle somme incassate nell’esercizio delle sue funzioni
(nel senso che non poteva prelevarle senza autorizzazione del G.D.),
tuttavia tale parziale disponibilità (giuridica) veniva integrata e
concretizzata ogni qual volta riceveva dal giudice delegato le
autorizzazioni ad effettuare i pagamenti ai vari creditori, ancor prima
(giova ribadire) che la G. le falsificasse nell’importo e nei
destinatali. Di conseguenza l’imputata, curatrice fallimentare, quindi
organo dell’ufficio fallimentare e pubblico ufficiale (v. Cass. Sez. 6^
n. 792 del 3.11.82, Bellabarba), si è appropriata del denaro di cui ha
avuto la disponibilità in forza del provvedimento giudiziario di
autorizzazione al pagamento dei creditori, ponendo in essere il reato
di peculato.
L’errore in cui è incorsa l’impugnata
sentenza risiede nel non aver considerato che per possesso del bene
pubblico ai fini dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 314 c.p., deve
intendersi non soltanto la materiale detenzione del bene, ma anche la
sua disponibilità giuridica, ravvisabile ogni qual volta il soggetto
agente sia in grado, mediante atto dispositivo di sua competenza o
connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di ingerirsi nel
maneggio o nella disponibilità di denaro e di conseguire quanto poi
oggetto di appropriazione (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 11633 del 22.1.07,
dep. 20.3.07, rv. 236146, Guida; cfr. altresì Cass. Sez. 6^ n. 2959
dell’11.12.86, dep. 11.3.87, rv. 175301, Bianconi).
A
sua volta tale possesso di denaro può anche essere mediato e far capo
anche congiuntamente a più pubblici ufficiali, qualora le norme ne
prevedano il concorso (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 5502 dell’11.1.96, dep.
4.6.96, rv. 204987, Zini ed altri; conf. Cass. n. 10680/88, rv. 179605;
Cass. n. 8116/88, rv. 178877; Cass. n. 10529/86, rv. 173877).
Rafforza
siffatta conclusione il rilievo – civilistico – che la dichiarazione di
fallimento determina un pignoramento generale del patrimonio del
fallito e ne attribuisce l’amministrazione al curatore, che la svolge
mediante atti dispositivi rispetto ai quali l’autorizzazione del G.D.
si configura come mero atto integrativo dell’efficacia.
Pertanto,
va ribadito il principio per cui integra il delitto di peculato – e non
quello di truffa aggravata – la condotta del curatore fallimentare che
si appropria del denaro di cui abbia avuto la preventiva disponibilità
in forza del provvedimento giudiziario di autorizzazione al pagamento
dei creditori, dovendosi ritenere irrilevante a tal fine la successiva,
parziale, falsificazione degli importi delle somme oggetto delle
originarie autorizzazioni al prelievo da parte del giudice.
La
falsa applicazione degli artt. 314 e 640 c.p., operata nel caso in
oggetto dalla gravata pronuncia ne impone l’annullamento con rinvio
affinchè nel giudizio ex art. 627 c.p.p., ci si attenga al principio di
cui sopra.
L’accoglimento del ricorso del PG assorbe quello della G., relativo al solo trattamento sanzionatorio.
2
– Anche il secondo motivo di ricorso del PG è fondato, risultando la
motivazione dell’impugnata sentenza viziata dall’atomizzazione dei
plurimi indizi da cui la pronuncia di prime cure aveva desunto che il
C. era consapevole dell’illecita provenienza dei capitali versati e
movimentati dai B. presso la Banca CrediEuronord, plurimi indizi che il
Tribunale aveva ravvisato nelle seguenti risultanze di fatto:
1)
il C. ricopriva il ruolo di responsabile dell’applicazione della
normativa anti-riciclaggio, in quanto tale tenuto per legge
all’adempimento formale degli obblighi di identificazione,
registrazione, conservazione dei dati e controllo dei mezzi di
pagamento;
2) la Banca CrediEuronord aveva una sola filiale;
3) i B. erano importanti clienti dell’istituto di credito;
4)
era verosimile che nell’ambiente dei funzionali e dei dipendenti della
banca si fosse parlato dell’anomala operatività dei c/c dei B.;
5)
quanto meno in occasione dell’istruttoria di una pratica di fido
l’imputato aveva avuto modo di esaminare i movimenti dei conti di
R.M.I. e di notare la sospetta entità dei versamenti e le strane
modalità di giroconto da parte dei B. mediante utilizzo di erronee
causali;
6) il M. (all’epoca direttore di sala) aveva
riferito di aver segnalato al C. le anomalie di registrazioni di
movimenti di prelievo e di versamento in contanti effettuati dai B. in
luogo di normali giroconto.
Ora, tralasciata la mera
congettura che precede sub 4), quanto agli altri indizi la Corte
territoriale esclude in punto di fatto solo quello desunto dal narrato
proveniente dal M., nel senso che ritiene le sue dichiarazioni
generiche, non verosimili, prive di riscontri esterni e contraddittorie
con riferimento all’epoca in cui il C. avrebbe rassicurato il M.
medesimo in ordine all’operatività dei c/c riferibili ai fratelli B..
Non
smentisce, invece, la storicità degli altri indizi che precedono sub
1), 2), 3) e 5), nel senso che o si limita a svilirne la singola
significatività (afferma che, pur essendo i B. importanti clienti della
banca, non era però provato che costoro avessero rapporti diretti con
il C. e/o che costui ne monitorasse i movimenti sui c/c; asserisce che
alla pratica di fido il C. aveva partecipato solo dando un parere,
uniformandosi a quello già formulato dall’Ufficio fidi e senza che
fosse provato che avesse approfonditamente esaminato i movimenti dei
conti di R.M.I. notandone le anomalie), o non la esamina affatto
(quanto alla banca monofiliale e al ruolo del C. quale responsabile
dell’applicazione della normativa antiriciclaggio, ruolo – peraltro –
riconosciuto dalla stessa difesa del prevenuto).
Orbene,
in ordine al fatto che l’importanza dei B. come clienti non dimostra
che l’imputato ne avesse mai controllato i conti e le relative
operatività, la motivazione dell’impugnata sentenza trascura che, se
ciò fosse stato acclarato, ci si sarebbe trovati davanti ad una vera e
propria prova – e non già ad un mero indizio – della consapevolezza del
riciclaggio in discorso, posto che nemmeno la Corte territoriale dubita
in punto di fatto delle anomalie evidenziate dalla sentenza di primo
grado (il contrasto è solo sulla prova dell’elemento psicologico del
reato).
Lo stesso dicasi per quel che concerne la
partecipazione del C. alla pratica di fido per i B.: se si fosse
incontrovertibilmente appurato che in quell’occasione egli aveva
approfonditamente esaminato i movimenti dei conti di R.M.I. notandone
le anomalie, senza nel contempo provvedere alle segnalazioni di legge,
ciò di per sè avrebbe integrato prova della consapevolezza
dell’illecita provenienza delle liquidità riversate dai fratelli B. su
c/c di loro pertinenza.
In altre parole, lungi
dall’apprezzare qualitativamente tali indizi, la Corte territoriale li
ha svalutati in quanto ognuno di essi non univoco e sprovvisto di
autonoma ed autosufficiente valenza probatoria, il che, com’è ovvio, è
proprio del carattere anfibologico del singolo indizio.
Dunque, in ciò deve ravvisarsi una prima violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2.
Una
seconda violazione di tale disposto si riscontra nell’aver proceduto
l’impugnata sentenza ad una valutazione atomizzata e parcellizzata,
anzichè complessiva ed unitaria, quanto meno degli indizi che precedono
sub 1), 2), 3) e 5).
Infatti, conformemente al noto
insegnamento giurisprudenziale di questa S.C. (cfr., per tutte, Cass.
S.U. n. 33748 del 12.7.05, dep. 20.9.05, rv. 231678, Marinino; Cass.
Sez. U n. 6682 del 4.2.92, dep. 4.6.92, rv. 191230, PM e p.c. in proc.
Musumeci e altri), deve qui ribadirsi che la regola metodologica
desumibile dall’art. 192 c.p.p., comma 2, comporta che, valutati
singolarmente gli indizi per saggiarne la significatività individuale
ed acquisita tale valenza indicativa (sia pure di portata
possibilistica e non univoca), se ne effettui poi un esame globale ed
unitario che possa, se del caso, superare l’ambiguità indicativa di
ciascun elemento probatorio, perchè nella valutazione complessiva ogni
indizio si somma e si integra con gli altri, sicchè l’insieme può
essere apprezzato in una prospettiva globale e unitaria tendente a
porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto,
così potenzialmente assumendo quel pregnante ed univoco significato
dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del
fatto, non meno qualificata di quella diretta o storica.
E’
pur vero che la motivazione, sul punto, della gravata pronuncia
esordisce con il dire che “Gli elementi valorizzati dal Giudice di
primo grado, partitamene ed unitariamente considerati, non consentono,
tuttavia, di condividere le predette conclusioni”, ma poi – in concreto
– si limita ad una disamina parcellizzata e non già complessiva degli
elementi indiziali raccolti.
3 – La motivazione dei
giudici d’appello è altresì contraddittoria laddove, dopo aver dato
atto della posizione del C. quale direttore generale dell’istituto di
credito, nega che egli avesse compiti ispettivi o di verifica dei
movimenti finanziari senza, però, nel contempo smentire in punto di
fatto due rilevanti circostanze ritenute dal Tribunale e cioè l’avere
la Banca CrediEuronord una sola filiale ed il rivestire il C. il ruolo
di responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, in
quanto tale tenuto all’adempimento formale degli obblighi di
identificazione, registrazione, conservazione dei dati e controllo dei
mezzi di pagamento.
Evidentemente, delle due l’una: o il
C. non aveva specifiche competenze ispettive ed allora non rivestiva il
ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa
anti-riciclaggio, oppure ricopriva tale incarico e, quindi, tali
competenze gli erano proprie.
Poichè, come si è già
detto, neppure l’impugnata sentenza nega che il C. fosse responsabile
dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, deve concludersi
che gli erano connaturati compiti di controllo.
La
contraria affermazione che si legge nella gravata pronuncia contraddice
un presupposto di fatto che la stessa Corte territoriale da per
pacifico.
4 – In conclusione, si annulla con rinvio la
sentenza impugnata in riferimento al C. e, in riferimento alla G., in
relazione ai delitti di truffa, che vanno invece qualificati come
peculato.
L’accoglimento del ricorso del PG assorbe quello della G. (relativo al solo trattamento sanzionatorio).
Si
dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di
Appello di Milano per nuovo giudizio, nel quale essa si atterrà ai
principi innanzi formulati.
Ex art. 624 c.p.p., comma 1,
si dichiara passata in giudicato la sentenza impugnata in riferimento
al giudizio di responsabilità (non investito da ricorso) per i delitti
di falso ascritti alla G..
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese di questo grado da liquidare in favore della parte civile costituita.
P.Q.M.
La
Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, annulla con rinvio
la sentenza impugnata in riferimento a C.G.C. e, in riferimento a G.C.,
in relazione ai delitti di truffa da qualificare come peculato.
Ritenuto assorbito il ricorso della G., dispone trasmettersi gli atti
ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio.
Dichiara passata in giudicato la sentenza impugnata in riferimento al
giudizio di responsabilità per i delitti di falso ascritti alla G..
Rimette al giudice del rinvio le spese di questo grado da liquidare in
favore della parte civile costituita.
Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2010.
Il professionista commette reato di
peculato e non di truffa aggravata quando si appropria di somme di
denaro di cui ha la disponibilità in qualità di curatore fallimentare.
Lo ha riconosciuto la Cassazione penale, sezione II, con la sentenza 26 gennaio 2010, n. 3327.
Nel
caso di specie, si fa riferimento ad un curatore che, accedendo ai
conti correnti del fallimento in forza dell’autorizzazione rilasciatale
dal giudice delegato, riceveva il denaro dalla banca e distribuiva le
somme ai vari creditori, trattenendo per sè gli importi ulteriori,
frutto della falsificazione.
Appare, a tal proposito,
opportuno richiamare che presupposto del delitto di peculato (ex art.
314 c.p.) è che il pubblico ufficiale (o l’incarico di pubblico
servizio) abbia, per ragione di ufficio, il possesso, o, comunque, la
disponibilità della cosa o del danaro altrui.
Come è stato
esattamente rilevato, tali termini esprimono sia una necessaria
relazione tra il soggetto attivo e la cosa, sia – in forza della
“ragione di ufficio o di servizio” – tra la cosa e la pubblica
amministrazione, indipendentemente dalla titolarità del bene, che può
appartenere alla pubblica amministrazione o a un terzo (Cass. pen.,
Sez. VI, 24 giugno 2004, n. 34517).
Orbene, sussiste il delitto
di peculato nel caso in cui il soggetto attivo imprima al denaro o alla
cosa mobile, oggetto materiale della condotta, una destinazione diversa
da quella prevista, indirizzando tali beni al soddisfacimento di
interessi privati; mentre integra il meno grave delitto di abuso
d’ufficio la condotta dell’agente che, pur violando i canoni di una
corretta amministrazione, distragga il denaro o la cosa mobile per
scopi diversi da quelli previsti, ma aventi pur sempre natura pubblica
(Trib. Ragusa, 11 febbraio 2005).
Infatti, non va dimenticato
che, in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve
intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della
cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il
soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di
sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio,
di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di
conseguire quanto poi oggetto di appropriazione (Cass. pen., sez. VI, 4
giugno 1997, n. 6753). Ciò significa che l’inversione del titolo del
possesso da parte del pubblico ufficiale – che comincia a comportarsi
“uti dominus” nei confronti di beni dei quali ha il possesso in ragione
del suo ufficio – e la conseguente “appropriazione” di tali beni
possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del
tutto autonoma e libera da vincoli, dei beni stessi (nella specie:
somme di danaro) detenuti di fatto ma “oggettivamente” indisponibili in
ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi (Cass. pen., Sez.
VI, 22 gennaio 2007, n. 11633)