Falsa detrazione di assegno familiare? E’ truffa! Cassazione penale , sez. II, sentenza 03.03.2010 n° 8537
L’imprenditore che porta in detrazione gli assegni familiari senza
corrisponderli ai propri dipendenti è punibile per truffa e non per
semplice evasione contributiva. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione
con la sentenza 8537/2010, secondo la quale la fittizia esposizione di
somme non corrisposte al lavoratore induce in errore l’istituto
previdenziale sul diritto al conguaglio, realizzando, in tal modo, un
ingiusto profitto, tipico del reato di truffa.
L’omissione e l’evasione contributiva
I c.d. contributi
vengono definiti come “quote di retribuzione” o di “reddito di lavoro”,
aventi una particolare destinazione assistenziale e/o previdenziale
determinata dalla legge. Il versamento di detti contributi, da parte
del datore di lavoro, è obbligatorio e la loro riscossione è affidata
agli enti di previdenza i quali, solitamente, si occupano anche
dell’erogazione delle prestazioni nonché del controllo sulla corretta
applicazione della legge.
Come accennato, i contributi possono essere di due tipologie: a) contributi assistenziali; b) contributi previdenziali.
I primi sono costituiti dai versamenti effettuati all’Inps o all’Inail
per ottenere la copertura di rischi collegati all’espletamento
dell’attività lavorativa, mentre i secondi sono costituiti da
versamenti periodici di denaro effettuati, nei confronti dell’ente
previdenziale, da parte del datore di lavoro, allo scopo di ottenere la
prestazione pensionistica.
Sebbene l’onere contributivo
veda, quali protagonisti attivi, sia il lavoratore che il datore di
lavoro, l’obbligo di versamento dei contributi grava esclusivamente in
capo a quest’ultimo. A tal proposito, l’art. 37, primo comma, della legge 689/1981,
a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 23 dicembre 2000, n.
388, dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il
datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte
contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza
obbligatorie, ometta una o più registrazioni o denunce obbligatorie,
ovvero esegua una o più denunce obbligatorie in tutto o, in, parte, non
conformi al vero, sia punito con la reclusione fino a due anni, se dal
fatto derivi l’omesso versamento di contributi e premi previsti dalle
leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, per un importo
mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni mensili e
il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti.
E’ possibile distinguere due diverse tipologie di condotte punibili. Da un lato abbiamo la c.d. omissione contributiva,
che si verifica allorquando vi sia un mero ritardo nel pagamento dei
contributi di cui sopra, documentabile dalle registrazioni obbligatorie
denunciate dal datore di lavoro e, dall’altro, l’evasione contributiva, la quale si configura quando il datore di lavoro occulti o ometta di effettuare le registrazioni o le denunce contributive.
La struttura del delitto di truffa, ex art. 640 c.p.
Nell’esaminare,
sommariamente, la struttura del fatto tipico del delitto di truffa, la
condotta incriminata dall’art. 640 c.p. consiste, in linea di prima
approssimazione, in un’attività finalizzata alla persuasione, mediante
inganno, che la legge tipizza mediante “artifizi o raggiri”,
determinanti di un errore in capo alla vittima, a sua volta produttivo
dell’ulteriore evento costituito dal danno patrimoniale, con ingiusto
profitto per sé o per altri.
Gli artifizi vengono
tradizionalmente individuati come una manipolazione della realtà
esterna, provocata attraverso la simulazione di circostanze inesistenti
o dissimulazione di circostanze esistenti, mentre il raggiro può essere
definito come un’attività simulatrice, sorretta da argomentazioni atte
a far scambiare il falso per il vero ([i]).
Gli artifici ed i raggiri devono generare un primo risultato, costituito dall’errore
della vittima; con tale termine dobbiamo intendere la falsa o distorta
rappresentazione di una situazione fattuale idonea ad incidere sulla
formazione della volontà. Si ritiene che la truffa non si possa
configurare nel caso di ignoranza pura, posto che l’induzione non è il
fatto di lasciare il soggetto passivo nell’ignoranza, ma nel generare
un falso convincimento ([ii]).
La
condotta del soggetto agente, all’interno del delitto di truffa, è, fin
dall’inizio, diretta a far sì che la vittima, in conseguenza
dell’errore, si determini al compimento di un atto di disposizione patrimoniale,
il quale rappresenta un componente essenziale, sebbene si tratti di un
requisito tacito, della fattispecie di cui all’art. 640 c.p. Come
evidenziato da accorta dottrina, l’atto di disposizione patrimoniale
segna il passaggio da un fenomeno interno alla psiche del soggetto
passivo ad un effetto esterno consistente nel trasferimento
patrimoniale ([iii]).
Il contenuto dell’atto patrimoniale, il quale può discendere sia da una
condotta attiva che omissiva, può essere di più diversa natura: può
consistere non solo in un negozio giuridico in senso stretto, potendo
configurarsi anche in una mera consegna di beni mobili o immobili, nel
consenso all’uso, nell’esecuzione di obbligazioni o nell’accettazione
di oneri o di pesi ([iv]).
L’atto di disposizione patrimoniale deve avere quale conseguenza la produzione di un danno
in capo alla vittima. Con tale termine si intende, pacificamente, far
riferimento al c.d. danno patrimoniale, ovvero quello consistente in
una deminutio patrimonii. La dottrina è concorde nel ritenere
che, all’interno del concetto di danno, possano essere ricomprese anche
le cose aventi valore affettivo posto che, per il diritto penale, anche
tali beni entrano a far parte del patrimonio dell’individuo ([v]).
Al danno per la vittima, infine, deve corrispondere un ingiusto profitto
per il colpevole o per altri; Dobbiamo ritenere che il profitto di cui
parla l’art. 640 c.p. non debba necessariamente essere di natura
economica. Quello che è necessario è che il profitto sia “ingiusto”,
ovvero non giustificato in alcun modo dall’ordinamento giuridico.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte
Dopo
aver precisato, per sommi capi, i requisiti strutturali del delitto di
truffa, apparirà chiara la soluzione alla quale sono giunti i giudici
della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione. Attraverso la
pronuncia in rassegna, il giudice nomofilattico ribadisce il
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il
datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla
fittizia esposizione di somme come corrisposte al lavoratore, induce in
errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette
somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto,
risponde di truffa e non già una semplice evasione contributiva, di cui
all’art. 37 della legge 689/1981 ([vi]).
Dall’esame
della fattispecie appare evidente la ricorrenza di tutti i requisiti
essenziali del delitto di truffa; in primis l’attività ingannatoria del
datore di lavoro il quale, esponendo in maniera fittizia le somme
corrisposte al lavoratore, pone in essere una condotta idonea a trarre
in inganno l’istituto previdenziale. Tale attività è sicuramente
produttiva di un atto di disposizione patrimoniale, avente contenuto
negativo, produttivo, a sua volta, di un ingiusto profitto per
l’imprenditore con conseguente danno per l’amministrazione e per il
lavoratore, quantificabile nella somma di denaro non corrisposta dal
primo.
(Altalex, 18 marzo 2010. Nota di Simone Marani)
_______________
[i]
G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, II, 2, Bologna,
2002, 170. Secondo gli autori, a differenza degli artifici, che
necessitano di una proiezione nel mondo esterno, i raggiri possono
dunque esaurirsi in una semplice attività di persuasione che influenza
la psiche altrui, a prescindere da qualsiasi mise en scène.
[ii] F. Mantovani, Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 2002, 194.
[iii] Pedrazzi, Inganno ed errore nel delitto contro il patrimonio, Milano, 1955, 64.
[iv] La Cute, voce Truffa, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 263.
[v]
F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale I, Milano,
2002, 362. Non vi sono dubbi, secondo l’autore, che il danno debba
essere determinato con criteri oggettivi, ovvero sulla base di un
giudizio della generalità degli uomini e non solo di colui che è
vittima dell’inganno.
[vi]
Per tutte: Cass. pen., Sez. II, 27 febbraio 2007, n. 11184, Maravalle,
in Ced, rv. 236131; Cass. pen., Sez. III, 19 ottobre 2000, n. 12169,
Doti, in Ced, rv. 217657.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 2 febbraio – 3 marzo 2010, n. 8537
Svolgimento del processo
La
Corte di Appello di Lecce, con sentenza in data 18 aprile 2008,
confermava la condanna pronunciata dal Tribunale di Lecce – sezione
distaccata di Casarano il 15 novembre 2005 alla pena di mesi nove di
reclusione ed Euro 600,00, di multa nei confronti di I.M., dichiarata
colpevole del reato di cui all’art. 640 c.p., per avere, nella sua
qualità di amministratore unico del “Calzaturificio Conar s.r.l.”
portato in detrazione sui rendiconti mensili le somme da corrispondersi
a titolo di assegni familiari omettendo di corrisponderle agili aventi
diritto.
Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, deducendo:
1) inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione all’art. 195 c.p.p..
Le
dichiarazioni del teste ispettore del lavoro, P.L., sarebbero
inutilizzabili, in quanto costui non ha accertato nulla direttamente,
ma ha raccolto dichiarazioni dei lavoratori, che avrebbero dovuto
essere sentiti a dibattimento.
2) erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 640 c.p..
Nella
fattispecie non potrebbe ravvisarsi alcun artificio o raggiro nè alcun
danno per l’INPS o beneficio per la ditta e, pertanto, avrebbe dovuto
essere contestato il reato di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689,
art. 37, per le violazioni compiute fino al 31 dicembre 2000 e, per il
periodo successivo, di cui alla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 116,
comma 19, con la necessità per il giudice di compiere gli accertamenti
previsti da dette norme.
3) prescrizione del reato ex art. 157
c.p., essendo il reato consumato nel novembre 2000 ed essendo trascorsi
8 anni dalla consumazione.
Motivi della decisione
I
motivi di ricorso sono infondati, poichè La questione di
inutilizzabilità è stata dichiarata irrilevante dalla sentenza
impugnata, la quale ha correttamente osservato, in applicazione della
c.d. prova di resistenza, che “il fatto è documentalmente ricavabile
anche dai documenti e dalle ricevute riconducibili allo stesso imputato
e relative al pagamento dopo l’accertamento”; anche il motivo con il
quale si deduce l’erronea applicazione della legge penale è infondato,
poichè questa Suprema corte ha già affermato il principio secondo il
quale integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di cui
alla L. n. 689 del 1981, art. 37, il datore di lavoro che, per mezzo
dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme come
corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale
sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte,
realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione
contributiva (Sez. 2^, 27 febbraio 2007, n. 11184, Maravalle, rv.
236131; Sez. 3^, 19 ottobre 2000, n. 12169, Doti, rv. 217657).
Deve,
però, rilevarsi la decorrenza del termine prescrizionale, essendo stato
il reato commesso, secondo il capo di imputazione, da ****, con là
conseguenza che non potendosi applicare l’art. 129 c.p.p., la sentenza
deve essere annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la Sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2010.