Giudice condanna l’Inail a pagare: il suicidio per stress da lavoro è una malattia professionale
Nell’ottobre del 2006 la cinquantaduenne Sandra Bottacin si suicida lanciandosi dal tetto dell’azienda di prodotti farmaceutici in cui lavorava, nel veneziano.
La donna controllava in laboratorio che flebo e flaconi fossero sicuri, senza traccia di batteri o altro, ma negli ultimi tempi alcune partite erano risultate contaminate causando la furia del proprietario (che già in precedenza aveva fatto pagare ai dipendenti i 3 milioni di euro di una partita da buttare). La donna purtroppo non ha retto il clima troppo pesante che si viveva in azienda: «Di quello che è successo, alla fine la colpa sarà mia», ha scritto nella sua ultima lettera.
«Ma lei era solo l’ultimo anello della catena di controllo, non poteva stabilire in quale punto della lavorazione fosse avvenuto l’incidente e la colpa ricadeva su di lei» racconta il marito, il quale fin da subito aveva temuto l’estremo gesto di Sandra, tanto da rivolgersi allo sportello Contromobbing del Comune di Venezia.
L’avvocato Aversa ha tentato una via mai esplorata, ovvero quella di considerare il suicidio per mobbing come una malattia professionale e ha dunque chiesto che il marito venisse risarcito con l’assegno mensile riconosciuto al coniuge e ai figli minori o con handicap del dipendente morto sul lavoro e a causa del lavoro stesso.
Dopo un’ispezione l’Inail ha riconosciuto che la Bottacin viveva in un ambiente di lavoro altamente stressante ma non ha trovato un nesso diretto tra le pressioni in azienda e il suicidio. Allora avvocato e familiari si sono rivolti al giudice del lavoro che lo scorso luglio ha riconosciuto tale collegamento e ha condannato l’lnail a versare l’assegno funerario e la rendita mensile.