Gli squilli telefonici "muti" sono sempre reato
Scatta la condanna per molestie telefoniche nei confronti di chi fa
ripetuti squilli, sul fisso o sul cellulare di una persona, pur essendo
“muti”, cioè non dicendo nulla nella cornetta. Si configura, infatti,
il reato previsto e punito dall’articolo 660 del Codice penale. Non
solo. Il colpevole, fino a prova contraria, non può che essere
l’intestatario dell’utenza da cui sono partite le chiamate insistenti.
E ciò sulla base di un ragionamento secondo cui è massima di esperienza
che il telefono intestato ad una persona sia nella sua disponibilità
esclusiva, a meno che non vi sia prova del contrario o non siano state
allegate specifiche circostanze dalle quali possa inferirsi la
ragionevole possibilità di una diversa ricostruzione.
Così la
Cassazione con la sentenza 8068/10 ha confermato la condanna a tre mesi
di arresto nei confronti di un uomo che aveva fatto più di cento
telefonate “mute”, in meno di due mesi, al cellulare di una donna.
Senza successo il ricorrente ha cercato di sostenere davanti ai giudici
del Palazzaccio che era illegittima l’affermazione della responsabilità
motivata esclusivamente sulla base del dato oggettivo dell’intestazione
dell’utenza telefonica. Ma la Suprema corte senza mezzi termini ha
affermato la correttezza della condanna inflitta perché, nella specie,
mancava qualsiasi giustificazione sul punto da parte dell’imputato.