HIV: accusa di reato di lesioni personali gravissime per chi contagia
La malattia dell’AIDS o HIV è molto pericolosa ed è letale
per l’uomo. Essa viene contagiata attraverso i rapporti sessuali non protetti,
ovvero senza l’utilizzo del preservativo. Capita spesso che alcune persone ne
siano affette, ma lo scoprano solo dopo alcuni controlli e con amara sorpresa e
capita spesso che queste persone abbiano avuto rapporti con più partners che a
loro volta determinano il contagio con altri individui, non sapendo di essere
essi stessi affetti dalla malattia. Non si può eliminare il dolore di una malattia,
ma la legge tutela chi è stato contagiato.
È accusato di reato di lesioni personali gravissime chi
contagia l’HIV attraverso un rapporto sessuale non protetto. Lo ha stabilito la
Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 17 dicembre 2008 – 26 marzo
2009, n. 13388.
Nel dettaglio:
1. – Tratto all’udienza preliminare del Tribunale di Firenze in ordine
all’imputazione di lesioni personali gravissime in danno di F. B., al quale,
secondo l’ipotesi di accusa, aveva trasmesso l’infezione da virus HIV con un
unico rapporto sessuale non protetto, R. T. P. veniva ritenuto responsabile del
reato a titolo di dolo eventuale e condannato alla pena di legge ed al
risarcimento del danno in favore della parte civile.
Con sentenza del 21 marzo 2008 la Corte di Appello di Firenze confermava
sostanzialmente la decisione del primo grado, che riformava solo in relazione
al capo concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche –
negate dal primo giudice – che riconosceva valutandole equivalenti alle
aggravanti contestate.
I giudici del merito avevano affermato la penale responsabilità dell’imputato
valutando i seguenti elementi fattuali:
a) le affermazioni del leso F., che è omissis, secondo il quale con
l’imputato aveva avuto un unico rapporto, non protetto contro la sua espressa
volontà, dopo un periodo di astinenza sessuale protrattosi per circa due mesi,
ed aveva riscontrato i primi sintomi dell’infezione dopo circa una settimana;
b) una indagine medico-legale che aveva accertato come l’imputato fosse
portatore di HIV ed il virus fosse dello stesso tipo di quello che aveva
infettato il F.;
c) infine un’indagine effettuata sul computer – strumento tramite il quale il
leso aveva contattato l’imputato su un sito specializzato – aveva consentito di
riscontrare che il R. T. si presentava con lo pseudonimo “omissis” e,
sebbene consapevole di essere ammalato, cercava tuttavia partners con cui consumare
rapporti non protetti.
2. – Propone ricorso l’imputato, deducendo la nullità della sentenza impugnata
perché:
a) in violazione dell’art. 522 c.p.p. aveva affermato la penale responsabilità
in ordine ad ipotesi di reato diversa da quella contestata, giacché,
imputatogli di aver contagiato il F. della sindrome di immunodeficienza
acquisita (AIDS), era stato invece ritenuto colpevole per aver trasmesso
l’infezione da virus HIV;
b) aveva errato nell’interpretazione ed applicazione degli artt. 40 e 41 del
codice penale, avendo affermato la sussistenza del nesso di causalità tra
condotta ed evento in virtù del principio di causalità giuridica, trascurando
di considerare che l’accertata improbabilità clinica dell’evento non consentiva
di ravvisare il nesso di condizionamento;
c) non aveva dato adeguata contezza del perché fosse stata ravvisata nei fatti
una fattispecie di dolo piuttosto che di colpa, come era stato specificamente
dedotto con apposito motivo di appello.
Con memoria depositata il primo dicembre 2008 il ricorrente ha sollecitato la
Corte a sottoporre alle Sezioni Unite la questione relativa alla qualificazione
giuridica del contagio da HIV, per dare soluzione definitiva al dibattito, che
si assume in corso presso i giudici di merito, sul se debba ritenersi la natura
dolosa o colposa del reato.
3. – Il ricorso merita rigetto.
Va innanzitutto disattesa l’istanza di remissione del ricorso alle Sezioni
Unite, dovendo considerarsi che non c’è contrasto nella giurisprudenza di
questa Corte su nessuna delle questioni dedotte con i motivi di ricorso, e per
dirimere quello eventualmente esistente tra i giudici di merito basterà la
presente sentenza.
Tanto premesso, il primo motivo di ricorso è infondato, atteso che, come ha
correttamente rilevato la sentenza impugnata, l’imputato è stato ritenuto
responsabile esattamente dello stesso reato contestatogli, dovendo dedursi
detta identità dal raffronto del contestato con il ritenuto in sentenza, sulla
base dei parametri della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico del
reato, che nel caso di specie sono assolutamente gli stessi. Era infatti
contestata all’imputato la congiunzione carnale – che il leso aveva accettato
alla condizione che il rapporto fosse protetto – senza uso di profilattico, pur
nella consapevolezza di esporre il partner a lesione personale gravissima,
costituita dalla trasmissione di malattia certamente insanabile.
Tale è la descrizione della condotta nell’imputazione, tale quella di cui
l’imputato fu ritenuto responsabile, con l’unica differenza che
nell’imputazione la malattia insanabile era indicata come “AIDS”; la sentenza
ha invece accertato che si trattava di HIV.
La circostanza che si tratti di malattie diverse (ma l’una è fattore precursore
dell’altra) è irrilevante, stante la pacifica gravità di entrambe le sindromi e
l’identità delle modalità di contagio.
Come è stato infatti ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte (19.6.1996 n.
16), con orientamento seguito costantemente (tra le tante cfr. Sez. I 14.2.2008
n. 13408; Sez. IV 15.1.2007 n. 10103; Sez. VI 7.12.2006 n. 4931; Sez. III
2.2.2005 n. 13151; Sez. IV 25.X.2005 n. 41663; Sez. IV 4.2.2004 n. 16900) per
aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale dei suoi
elementi essenziali, da cui scaturisca un effettivo pregiudizio dei diritti di
difesa, circostanza che nella specie non sussiste, giacché l’imputato si era
efficacemente difeso dall’ipotesi ritenuta in sentenza, avvalendosi anche di
consulenza tecnica di parte.
Infondato è anche il secondo motivo.
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del dettato dell’art.
40 c.p., secondo il quale “nessuno può essere punito per fatto preveduto dalla
legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza
del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”.
In punto di fatto i giudici del merito, ritenuto per certo il rapporto sessuale
consumato dall’imputato, affetto da HIV, con il F. mediante penetrazione anale
completa non protetta, hanno fatto applicazione della legge scientifica secondo
la quale un solo rapporto anale non protetto con soggetto ammalato può
contagiare il soggetto passivo.
In punto di fatto la sentenza impugnata ha motivatamente ritenuto per certo,
con argomentazione ragionevole e condivisibile, incontestabile in questa sede
di legittimità, che: a) il F. non aveva rapporti sessuali intrusivi da circa
due mesi, avendo patito un intervento chirurgico per l’asportazione di
condilomi anali; b) in occasione di quell’intervento apposita indagine diagnostica
aveva accertato che non era affetto da HIV; c) i primi sintomi dell’HIV si
erano manifestati circa una settimana dopo il rapporto con il R. T..
Ritenuta certa la legge scientifica dai giudici del merito, atteso quanto era
stato riferito nella relazione medico-legale – del resto la validità universale
di detta legge non è contestata neppure dalla difesa dell’imputato – la
verifica controfattuale dimostra che il F. non avrebbe contratto l’HIV se non
avesse patito la penetrazione non protetta, modalità che non voleva.
La circostanza, poi, che statisticamente la probabilità di restare
contagiati a seguito di un unico rapporto non protetto sia abbastanza bassa,
non consente certo di affermare che ciò stesso nel caso di specie rendeva
labile il nesso di causalità tra condotta ed evento.
Infatti a prescindere dalla considerazione che l’uso di leggi statistiche nel
giudizio controfattuale è legittimo se la loro validità è riconosciuta, e
consente il conseguimento di risultati razionalmente credibili, nel caso di
specie la probabilità dell’evento, come è massima d’esperienza, era affidata
alla resistenza individuale di chi si trovava esposto al contagio, e dipendeva
non solo dalle condizioni topiche dei tessuti esposti all’azione intrusiva, ma
anche dalla efficacia delle difese immunitarie del leso, di modo che la
validità della legge scientifica resta confermata anche se il contagio non
sempre segue il contatto fisico non protetto, che tuttavia costituisce
l’ineludibile antecedente logico-causale le volte in cui, come nel caso di
specie, la trasmissione dell’infezione si verifica.
Come la sentenza impugnata aveva rilevato, infatti, i postumi dell’intervento
chirurgico avevano certamente indebolito le pareti anali del F., fiaccando le
sue condizioni di difesa; ciò dà conto anche della relativa velocità con cui
l’infezione si era manifestata.
Del resto fa parte del criterio scientifico in esame la diversa reazione,
secondo le resistenze e difese individuali, di chi venga esposto a contagio.
Ma, si ribadisce, dalla constatazione che non tutti gli esposti a contagio
si ammalano, non può certo trarsi l’implicazione che deve revocarsi in dubbio
la sussistenza del nesso di condizionamento tra condotta ed evento nei casi in
cui il contagio si verifica, perché nella valutazione deve prevalere il
giudizio controfattuale; nel caso di specie costituisce considerazione
oggettiva inconfutabile che l’elisione concettuale dell’azione umana rende
impossibile il verificarsi dell’evento.
Dunque, come aveva correttamente ritenuto la corte territoriale, il nesso di
causalità c’era e collegava inesorabilmente la condotta dell’imputato
all’evento in guisa di condizione necessaria etiologicamente indispensabile.
Diverso sarebbe invece il rilievo della probabilità nei casi in cui venissero
in considerazione condotte omissive (ipotesi esaminata dalle Sezioni Unite con
la sentenza n. 27 dell’11.9.02, non molto puntualmente richiamata dal
ricorrente).
Inammissibile è invece il terzo motivo di ricorso, atteso che la sentenza
impugnata ha ritenuto addebitabile il reato all’imputato a titolo di dolo
eventuale con ampia motivazione, ragionevole e condivisibile, comunque immune
da vizi logici e contraddizioni.
Ha infatti spiegato la corte territoriale come fosse risultato per certo che il
R. T. era ben consapevole della sua malattia, e ciò non ostante cercava
compagni disposti a condividere esperienze erotiche estreme, caratterizzate
dalla ebbrezza morbosa di esporsi ad un rischio mortale; non a caso si
presentava come “omissis”.
Come ha più volte ritenuto questa Corte (cfr. Cass. Pen. Sez. I n. 30425 del
4.6.2001 e gli ampi richiami ivi contenuti), tale comportamento corrisponde
esattamente allo schema legale del dolo eventuale, atteso che contempla
l’espressa accettazione delle conseguenze estreme della condotta, che
sembrerebbero quasi auspicate; del resto la sentenza impugnata ha anche
accertato che il F. aveva bensì voluto la penetrazione, ma alla esclusiva
condizione che fosse protetta; per la sua professione di omissis,
infatti, il leso era ben consapevole di quanto fosse grave il rischio di un
rapporto senza profilattico.
Le modalità con cui era invece avvenuta (parte passiva legata al letto in
posizione prona) avevano consentito all’imputato di eludere la condizione posta
dall’occasionale partner.
L’argomentazione della corte del merito appare pertanto ragionevole e
conseguente, di modo che in questa sede di legittimità non ne è consentito il
riesame.
Il ricorso va pertanto nel complesso rigettato.
Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.