I disabili (veri) dimenticati dallo Stato
Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un
criminale 3,50…». Iniziava così un problema del manuale di matematica
nella Germania nazista del 1940: lo scolaro doveva calcolare, senza quei
pesi, quanto si poteva risparmiare. Alla larga dai paragoni
provocatori, ma che razza di Paese è quello che taglia i fondi ai
disabili? Ed è lecito che sfrutti fino in fondo, come denuncia il
Censis, le famiglie che si fanno carico giorno dopo giorno, spesso
eroicamente, dell’assistenza?
Pochi numeri, presi da un’inchiesta
del «Sole 24 Ore», dicono tutto. Rispetto al Pil, l’Italia spende molto
più della media dell’Europa a 15 per le pensioni (16,1% contro 11,7%),
come gli altri nel totale del welfare (26,5% contro 26%) ma nettamente
meno per la non autosufficienza: 1,6% contro 2,1%. Un quarto di meno.
Non bastasse, negli ultimi anni, nella scia della scoperta di casi come
quello emerso la settimana scorsa al rione Santa Lucia di Napoli (dove
secondo il «Mattino» 9 su 10 degli invalidi controllati erano falsi)
l’accetta si è abbattuta sui costi del pianeta della disabilità colpendo
tutti. I furbi ma più ancora i disabili veri, verso i quali lo Stato
era già storicamente molto tirchio.
Basti vedere, in un’analisi di
Antonio Misiani, il taglio delle due voci che più interessano
l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le politiche sociali precipita
nelle tabelle del governo Berlusconi da 929,3 milioni di euro a 44,6.
Quello per la non autosufficienza da 300 a 0: zero! Numeri che da soli
confermano il giudizio durissimo del Censis: «La disabilità è ancora una
questione invisibile nell’agenda istituzionale, mentre i problemi
gravano drammaticamente sulle famiglie, spesso lasciate sole nei compiti
di cura». Peggio: «L’assistenza rimane nella grande maggioranza dei
casi un onere esclusivo della famiglia».
Scegliamo una storia esemplare,
una fra centinaia di migliaia. Quella di Gloriano e di sua moglie
Mariagrazia. Lui fa l’elettricista, lei lavorava in una fabbrica tessile
finché, 28 anni fa, non fu costretta a mollare per seguire Giulia. La
piccola aveva dei problemi. Seri. «La prima diagnosi fu emessa dopo
quasi 4 anni (non per colpa nostra!..) dalla nascita: “Ritardo
psicomotorio con deficit cognitivo in paralisi cerebrale minima”».
Problemi che con il passare del tempo si sono sempre più aggravati.
Basti dire che, nonostante gli insegnanti di sostegno a scuola, i
progetti di recupero, l’assistenza minuto per minuto dei genitori, non
ha mai imparato a leggere e scrivere.
Fatto sta che al secondo accertamento sull’handicap,
al 18° compleanno, il responso fu netto: «Invalida con totale e
permanente inabilità lavorativa 100%». Tanto per capirci, spiega la
madre, è del tutto non autosufficiente. Ogni consulto, ogni cura, ogni
tentativo d’arginare la progressiva deriva della malattia sono stati
inutili. Colpa di un’anomalia, pare, «del cromosoma 16». Finché nel 2006
il degrado è stato nuovamente verificato: «Insufficienza mentale
medio-grave in paraparesi spastica (neurologica e sensitiva assonale)
cognitiva. Scoliosi e invalidità al 100% con necessità di assistenza
continua».
Un calvario. Una vita intera inchiodata
minuto per minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno a quella
missione. Unici momenti di tregua, indispensabili per respirare e non
impazzire, quelli in cui Giulia, sia pure sempre più a fatica, veniva
affidata a strutture di assistenza tipo le case famiglia: «Nostra figlia
ha sempre desiderato sin da piccola di stare coi bambini prima e poi
man mano che cresceva con i ragazzi e comunque in mezzo alla gente». Una
soluzione che l’anno scorso aveva permesso a Gloriano e Mariagrazia di
fare perfino, evviva, una breve vacanza.
Costava 27 euro al giorno, alla famiglia,
l’accoglienza di Giulia in una comunità-alloggio di Abano Terme: «Poi,
prima di Natale, ci è stato comunicato che il contributo familiare
sarebbe salito a 92 euro e 68 centesimi, cioè la quota alberghiera
totale». Troppi, per chi riceve dallo Stato, per prendersi cura 24 ore
su 24 di quella figlia totalmente disabile, una pensione lorda mensile
di 270,60 euro più l’indennità di accompagnamento di 487,39 per un
totale complessivo di 757 euro e 99 centesimi.
I giornali locali ne
hanno fatto un caso, giustamente, di quelle cento o centoventi famiglie
che di colpo si sono viste togliere quel servizio che per molti
rappresentava l’unica occasione per «staccare» un po’. «Diventerà un
servizio solo per chi potrà permetterselo?», si è chiesto il settimanale
diocesano «La difesa del popolo».
Ma la storia della famiglia di Giulia va moltiplicata,
come dicevamo, per centinaia di migliaia. Dice la pagina «La disabilità
in cifre» dell’Istat che in Italia i disabili «sono 2 milioni 600 mila,
pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e più che vive in
famiglia. Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi
socio-sanitari si giunge a una stima complessiva di poco meno di 2
milioni 800 mila persone».
In primo luogo, ovvio, ricorda uno studio
della Caritas Ambrosiana, ci sono i vecchi: «Secondo un’indagine dello
Studio Gender, l’Italia spende meno della metà di quanto fanno in media
gli altri Paesi europei per l’assistenza agli anziani». Risultato: «la
cura dell’anziano non più autosufficiente ricade sulle famiglie. In due
casi su tre lasciate a loro stesse. In particolare sono le donne,
figlie, mogli, nuore, le indiscusse protagoniste del lavoro di cura».
Per i disabili più giovani,
spiega al sito superabile.it Pietro Barbieri, presidente della Fish, la
Federazione italiana del sostegno all’handicap, il quadro è lo stesso:
«Da noi si spende meno della metà della media europea a 15 per la non
autosufficienza. E il dato comprende sia l’indennità civile che
l’assistenza domiciliare pagata dai Comuni. Qui non si tratta di
prendere provvedimenti più equi, qui si dice alle famiglie
“arrangiatevi!”» E a quel punto sapete cosa accadrà? «Che le famiglie
cominceranno a chiedere il ricovero per un congiunto non
autosufficiente. E a quel punto avremo una maggiore segregazione di
persone che non hanno fatto nulla di male e un costo molto più alto per
il Paese. Si pensi al costo giornaliero di una degenza».
Facciamo due conti? Questi disabili
non anziani, secondo la Fish, sarebbero circa 400 mila. Se le famiglie,
abbandonate a se stesse, fossero obbligate a scaricare i figli e i
fratelli sul groppone dello Stato, questo sarebbe obbligato a costruire
strutture per un costo minimo (dall’acquisto del terreno alla
costruzione fino all’arredamento) di 130 mila euro a posto letto per un
totale di 52 miliardi. Per poi assumere, stando ai protocolli, almeno
280 mila infermieri, psicologi, cuochi, inservienti per almeno altri 7
miliardi l’anno. Più tutto il resto. Un peso enorme, del quale l’Italia
di oggi non potrebbe assolutamente farsi carico.
E allora ti domandi:
possibile che lo Stato non si accorga di quanto si fanno carico al suo
posto le famiglie? Lo studio presentato ieri dalla Fondazione Cesare
Serono e dal Censis, e centrato sulle persone colpite dalla sclerosi
multipla e dall’autismo, dice che «il 48,5% dei malati ha bisogno di
aiuto nella vita quotidiana. Ma il dato oscilla dal 9,5% di chi si
definisce lievemente o per nulla disabile all’83% tra i malati più
gravi».
Bene: «Le risposte arrivano quasi solo dalle famiglie. Il
38,1% dei malati riceve assistenza informale tutti i giorni dai
familiari conviventi (e la percentuale aumenta tra chi riferisce livelli
di disabilità più elevati: 62,8%).
L’aiuto quotidiano da parte di parenti non
conviventi e amici è più raro (8,1%)». E se è «minoritario il supporto
offerto dal volontariato (8,4%)» solamente «il 15,3% riceve aiuto da
personale pubblico e solo il 3,3% tutti i giorni». Umiliante.
Tanto è
vero che le famiglie, dignitosamente, non chiedono soldi, nonostante si
sobbarchino spese molto spesso insopportabili: chiedono collaborazione.
«L’assistenza domiciliare è ritenuta uno dei servizi più utili dal
77,5% del campione e il 72,4 ne ritiene necessario il potenziamento».
Gli «aiuti economici e gli sgravi fiscali» vengono dopo.
Lo studio presentato ieri dice tutto: «La
disabilità della persona con autismo ha avuto un impatto negativo sulla
vita lavorativa del 65,9% delle famiglie coinvolte nello studio. In
particolare, il 25,9% delle madri ha dovuto lasciare il lavoro e il
23,4% lo ha dovuto ridurre». Uno Stato serio, davanti a numeri così, se
lo deve porre il problema. Perché sarebbe inaccettabile scaricare
ulteriori responsabilità e fatiche e spese e angosce su quelle famiglie.
Ci sono già state, come ricordavamo, stagioni orribili in cui i
disabili (si pensi a certi manifesti tedeschi degli anni Trenta…) sono
stati visti come un fardello economico. Mai più.