I disturbi mentali devono incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere
Se i disturbi mentali, per consistenza, intensità e gravità, incidono concretamente sulla capacità di intendere o di volere, l’omicida non è imputabile. La Cassazione, però, non ha riscontrato una tale incidenza nel caso e ha respinto il ricorso di una donna condannata per l’omicidio del fratello (sentenza 7907/13). I due, dipendenti della stessa azienda, avevano iniziato a litigare, quando la ragazza si era impossessata di un martello da una scrivania e aveva colpito per ben 27 volte il fratello, fino a ucciderlo. Poi aveva aggredito anche un altro uomo, sopraggiunto nei locali della ditta, dandosi successivamente alla fuga.
Dopo la condanna a 19 anni e 6 mesi in primo grado, la pena veniva diminuita in secondo e rideterminata in 10 anni. Gli accertamenti peritali dovevano stabilire se l’imputata era imputabile, visto che dalle testimonianze risultava essere affetta da «disturbo di personalità generico, con tratti schizoidi, narcisisti, istrionici, tale peraltro, da non scemare, neppure parzialmente, le sue capacità di intendere e di volere».
La Cassazione afferma che «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi di personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”», purché siano di «consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere», escludendola o diminuendola grandemente, e a condizione che «sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto casualmente determinato da disturbo mentale». E, nel caso di specie, è stata esclusa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di vizi attinenti alla capacità di intendere e di volere.
Infine, gli Ermellini non ritengono provata la provocazione cosiddetta per «accumulo» che, per poter essere riconosciuta, necessita della prova dell’esistenza di un fattore scatenante, che giustifichi l’esplosione, «della carica di dolore o sofferenza che si assume sedimentata nel tempo». La sentenza impugnata è corretta, di conseguenza il ricorso viene rigettato.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it