I giovani italiani non hanno coscienza europea
Quando l’insegnamento delle lingue straniere era paurosamente
insufficiente, sia perché cominciava troppo tardi (alle medie), sia
perché era ridotto a poche ore settimanali, sia infine perché era
affidato a un personale spesso incompetente (compresi, chissà perché, i
laureati in legge). Se è vero però che, anche in questo campo, i
ragazzi di oggi sono meglio attrezzati dei loro genitori, è anche vero
che non sono al livello dei loro coetanei di altri Paesi, soprattutto
del Nord Europa ma non solo, dove il bilinguismo è una realtà diffusa
già nell’infanzia. Il che pesa negativamente, fra l’altro, sulla
possibilità dei nostri giovani di trovare sbocchi lavorativi nelle
istituzioni europee e nelle imprese multinazionali (dove gli italiani
sono tuttora sottorappresentati).
Un altro fattore ostativo alla
formazione di una più piena coscienza europea è la scarsa conoscenza di
ciò che è stato e che ha rappresentato, dal dopoguerra a oggi, il
processo di integrazione. Certo, la storia dell’Europa unita non è
facile da raccontare e da insegnare. Non è segnata da eroiche
insurrezioni o da cruente battaglie, come lo sono, almeno nella loro
trasfigurazione mitica, le epopee nazionali su cui si fonda la nascita
di molti Stati moderni. Spesso, diciamoci la verità, risulta
francamente noiosa e ulteriormente complicata dalla difficile
definizione dell’oggetto (l’Unione è una costruzione priva di
precedenti e spesso incerta sulla sua stessa identità). Ma è compito
della scuola dar conto di questa novità; e spiegare come proprio il
superamento delle logiche nazionalistiche e delle culture connesse
abbia consentito all’Europa di vivere in pace per oltre sessant’anni e
ad almeno tre generazioni di giovani europei di evitare la prova
terribile dei campi di battaglia. Fino a qui i compiti della scuola. Ma
qualche responsabilità va attribuita anche alla politica (e alla stampa
che se ne fa eco). Tutti sono d’accordo, in teoria, nel difendere la
specificità delle consultazioni europee e delle relative campagne
elettorali, che dovrebbero riguardare in primo luogo i problemi comuni
ai Paesi dell’Ue e le questioni da dibattere a Strasburgo e a Bruxelles
(allo stesso modo in cui le campagne amministrative dovrebbero essere
centrate sui problemi del governo locale). Di fatto, finisce col
prevalere la logica della polarizzazione e dell’assimilazione alle
contese politiche nazionali, che trasforma la competizione europea in
un maxi-sondaggio, reso per giunta inattendibile dalla bassa
partecipazione al voto.
Tutto questo non aiuta a familiarizzare
l’opinione pubblica col discorso europeo, a tradurre in opzioni
concrete il naturale filo-europeismo di gran parte dell’elettorato e
della classe dirigente italiana (siamo pur sempre il Paese di De
Gasperi e di Spinelli), e tanto meno a far crescere una nuova
generazione capace di «pensare europeo» anche dal punto di vista della
coscienza politica. Possiamo tuttavia sperare che all’Europa e alle sue
istituzioni possa applicarsi ciò che spesso si è detto della democrazia
liberale: pochi, fra coloro che sono nati e cresciuti all’interno delle
sue coordinate, la amano davvero o ne conoscono appieno i meccanismi;
ma ancor meno numerosi sono quelli che la rinnegano apertamente, che le
contrappongono modelli alternativi, che sono disposti a rinunciare ai
suoi valori e ai suoi indiscutibili vantaggi.