I precari dei call center vanno assunti
I precari che lavorano nei call center devono essere assunti. E’ quanto afferma la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di una società che non voleva riconoscere la natura subordinata del rapporto di lavoro instaurato con una dipendente. Come spiega la Corte “Requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione.”. In sostanza, “una volta accertato nel concreto atteggiarsi del rapporto il vincolo di soggezione del lavoratore con inserimento nell’organizzazione aziendale, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che non poteva assumere rilevanza contraria la non continuita’ della prestazione e neppure la mancata osservanza di un preciso orario”. La decisione è della sezione lavoro della Corte (sentenza n. 4476 del 21 marzo 2012) che ha rigettato il ricorso della società di call center avverso la decisione con cui i giudici d’Appello avevano ritenuto che, nonostante il nomen juris attribuito dalle parti al rapporto (dapprima contratti di collaborazione coordinata e continuativa e poi contratti a progetto, succedutisi senza soluzione di continuità per oltre sei anni), in base alle risultanze istruttorie sussistevano i requisiti essenziali della subordinazione, con la conseguenza che, essendo comunque nulli i termini apposti ai contratti (perché privi della indicazione del motivo che giustificasse l’assunzione), doveva ritenersi costituito un unico rapporto a tempo indeterminato sin dall’origine. Corretto – secondo la Suprema Corte – il ragionamento logico giuridico seguito dai giudici di merito che avevano altresì evidenziato che la lavoratrice doveva coordinarsi con le esigenze organizzative aziendali e quindi era pienamente inserita nell’organizzazione aziendale, utilizzando strumenti e mezzi di quest’ultima; che esisteva un controllo particolarmente accentuato ed invasivo, non usuale neppure per la maggior parte dei rapporti subordinati esistenti e quindi inconciliabile con il rapporto autonomo. La lavoratrice, inoltre, era sottoposta “non tanto a generiche direttive, ma a istruzioni specifiche, sia nell’ambito di briefing finalizzati a fornire informazioni e specifiche in merito alle prestazioni contrattuali, sia con puntuali ordini di servizio, o a seguito di interventi dell’assistente di sala”. I Giudici di legittimità affermano altresì che non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione neanche il “nomen juris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti, il quale pur costituendo un elemento dal quale non si può prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo. Il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente – rispetto al nomen juris adoperato in sede di conclusione del contratto – al comportamento delle parti nell’attuazione del rapporto stesso.