I punti oscuri della rete: così è nata la crisi
C’è qualcosa che non torna in questa incipiente crisi del gas, innescata
dalla riduzione delle forniture di Gazprom. Fino a pochi giorni fa, i
gasdotti, quello russo che entra in Italia dal Tarvisio in primis, erano
parzialmente scarichi. L’inverno fino ad allora mite e la recessione
dell’economia avevano rallentato i consumi domestici. Non mancava, è
vero, il solito problema di prezzo; in Italia il gas costava il 30% in
più rispetto al resto d’Europa, meno legato di noi ai contratti take or
pay (ritira il gas prenotato o paghi pegno). Ma non s’intravedeva un
pericolo immediato sugli approvvigionamenti. Adesso, il pericolo viene
alla ribalta. Meteo aiutando, lo risolveremo. L’amministratore delegato
dell’Eni, Paolo Scaroni, l’ha garantito in tv e gli va dato credito. Ma
restano tre problemi da affrontare una volta per tutte.
Il primo riguarda le scelte congiunturali, in primo luogo
dell’Eni. L’uso parziale dei gasdotti da parte dell’Eni, che detiene la
gran parte dei diritti di passaggio, si giustificava con il fatto che il
Paese viene servito anche attingendo alle riserve di modulazione
accumulate d’estate nelle enormi caverne adibite a stoccaggio. Poiché
d’estate il gas costa meno, è d’uso l’arbitraggio stagionale dei prezzi.
Se scatta un’emergenza a fine stagione, con stoccaggi già sfruttati, la
reazione diventa difficile, anche perché il gas residuo risale più
lentamente, causa la minor pressione. Per compensare la sorpresa russa,
l’Eni ha perciò importato a prezzo elevato più gas dal Mare del Nord.
Vedremo ora se e come Gazprom pagherà all’Eni una penale non avendo
onorato pienamente il suo impegno a consegnare.
In secondo luogo, qualche problema c’è sul fronte elettrico. Una
nave metaniera di Gaz de France diretta al (piccolo) rigassificatore di
Panigaglia per conto dell’Enel è stata richiamata in Francia, anch’essa
in emergenza. Che tipo di contratto aveva fatto l’Enel, si è chiesto il
viceministro De Vincenti? In questi giorni, le esportazioni di
elettricità hanno avuto un’impennata. Strano? Solo in apparenza. Oltre
confine si danno in certi momenti prezzi marginali più alti e così si
esporta, salvo poi vedere Terna, garante del fabbisogno, costretta a
importare per carenza di offerta interna. Girotondi speculativi,
verrebbe da sospettare.
Il secondo problema è strutturale. Quale sarebbe il guaio se i
consumi fossero saliti verso i 100 miliardi di metri cubi com’era nelle
previsioni ante 2008? Nel 2006, dopo la crisi russo-ucraina che mise a
repentaglio le forniture all’Europa, l’Eni accettò di investire negli
stoccaggi. L’ha fatto più che altro elevando la compressione del gas
negli stoccaggi verso le medie europee. Fare di più non renderebbe.
L’Autorità per l’Energia è di diverso avviso e ricorda per quanti anni
la Stogit ha redistribuito gli utili alla casa madre senza investire.
Oggi, la Stogit fa capo alla Snam, controllata sì dall’Eni ma in regime
di separazione gestionale. Ha un piano per portare gli stoccaggi da 10 a
13 miliardi di metri cubi nel 2014. Lo attuerà? Basterà? Esistono altri
progetti di stoccaggio di Edison, Erg, Gas Plus, Enel Stoccaggi,
Geogastock e Ital Gas Storage, che segnano il passo. Perché la
remunerazione del capitale investito sarebbe bassa, suggeriscono
all’Eni. Per le resistenze locali dietro le quali ci sarebbe il sorriso
di chi vuole lo status quo, obiettano dall’altra sponda.
Comunque sia, con più stoccaggi si aumentano le riserve di
modulazione senza dover toccare le riserve strategiche di gas per
alimentare la produzione elettrica come invece ha chiesto Emma
Marcegaglia nella concitazione di questi giorni. La presidente di
Confindustria difende le imprese energivore che non vogliono subire
l’interruzione delle forniture, e dunque fermare la produzione.
Purtroppo, queste imprese dimenticano il premio che hanno appena
ottenuto in cambio della interrompibilità delle forniture medesime.
Questo pare un voler troppo che potrebbe far sembrare quel premio un
aiuto di Stato.
Il terzo problema è strategico. L’Italia, come tutta l’Europa, ha
bisogno di diversificare di più e meglio gli approvvigionamenti. Già il
blocco del Greenstream in seguito alla guerra di Libia e lo sospensione
del Transitgas per le frane svizzere nel 2011 avevano acceso la spia
rossa. Ora, la Russia. È la prima volta che Gazprom taglia le forniture
perché non ha abbastanza gas per i russi. Siamo sicuri che la causa è
l’inverno più inclemente del solito e non la cattiva gestione di questo
gigantesco monopolio che ha sì enormi riserve ma molte di ardua
coltivazione e dunque potrebbe aver fatto più contratti di quelli che è
in grado di onorare? Tra l’Eni, l’Enel, i privati e l’Autorità (che ha
meritoriamente rimesso all’asta i diritti di passaggio sui gasdotti non
utilizzati) la parola finale spetta al governo. E il governo Monti si è
ormai orientato a separare dall’Eni l’intera Snam (stoccaggi, rete e il
resto) anche sul piano della proprietà. Al ministero dello Sviluppo
economico si è ormai fatta strada l’idea che vadano al più presto
sbloccati i cantieri per nuovi rigassificatori e stoccaggi, mentre il
progetto di gasdotto South Stream, fortemente sponsorizzato dal Cremlino
e per un lungo periodo sostenuto dall’Eni, vada sostituito nelle
priorità nazionali dai progetti Galsi e Igt, nei quali sono coinvolte
anche Enel ed Edison e non dipendono dall’oro blu di Mosca.
L’Italia può delegare la propria sicurezza energetica all’Eni,
società per azioni quotata in Borsa ancorché a controllo pubblico? La
risposta logica sarebbe negativa, anche perché i top manager dell’Eni da
anni ormai dichiarano prioritaria la creazione di valore per gli
azionisti. Non l’Eni, ma il governo e l’Autorità per l’Energia hanno il
dovere di tutelare l’interesse generale. Nei fatti, le ragioni dell’Eni –
non di rado, buone ragioni – finiscono per prevalere. I timori di
un’improvvisa penuria di gas, con tutte le conseguenze del caso,
riaccendono i riflettori sulla questione.