Il business dei rifiuti elettrici
Sulla base del principio che chi inquina paga, il consumatore è chiamato a farsi carico del costo della raccolta e del recupero di questo tipo di prodotti. A prima vista sembra tutto semplice, tutto chiaro. Ma se si scende un po’ nei dettagli, le cose cambiano. Tanto per cominciare, suona strano che il consumatore venga chiamato a pagare oggi un balzello per operazioni che si renderanno necessarie dopo molti anni. Inoltre, il contributo verrà incassato dal negoziante, dovrebbe essere girato al produttore e da questi ad appositi consorzi che a loro volta dovranno dividere una parte delle somme con gli enti locali.
Insomma, un percorso lungo e complesso, difficile da verificare: il rischio è che qualcuno intaschi una parte di queste somme senza muovere un dito. Qualcosa del genere succede già nei paesi che hanno attivato questo meccanismo prima dell’Italia. Anche nelle condizioni migliori, il 17% dei prodotti sfugge agli obblighi di gestione, ma non a quelli di contribuzione. Ma la cosa più curiosa è che i cittadini italiani pagano già un’imposta, la Tarsu, finalizzata proprio allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, tra i quali ci sono anche i rifiuti solidi urbani, tra i quali ci sono anche i rifiuti elettrici. Qualcuno a questo punto potrebbe sperare che la Tarsu venga ridotta della percentuale corrispondente a questa categoria merceologica: si illude. Quando si tratta di incassare sono tutti d’accordo; se invece si chiede di tagliare le imposte si scoprono molte ragioni che lo vietano. Quindi chi consuma di più pagherà di più (il contributo Raee) e chi consuma di meno pagherò lo stesso (la Tarsu).