Il costo delle pensioni dei vecchi non può (e non deve) ricadere sui giovani
La corte di Cassazione, con due recenti sentenze di condanna della Cassa previdenziale di ragionieri e periti commerciali, ha riportato alla ribalta il problema dei “diritti acquisiti” in tema previdenziale. “La pensione non si tocca”, hanno ribadito le sentenze n. 8847 e 8848 depositate il 18 aprile: “una volta maturata, non può essere oggetto di rimaneggiamenti da parte delle casse professionali e degli enti previdenziali in genere, nemmeno quando in gioco ci sia l’equilibrio dell’ente o l’equità tra le generazioni”. E’ una sorta di proclama regio dei “diritti acquisiti”, dunque, quello fatto dalla corte di cassazione. Diritti garantiti da uno strumento normativo che è il cosiddetto “principio del pro rata”. Con questo principio è possibile apportare modifiche al sistema di calcolo delle pensioni ma solo a valere per il futuro, mai per il passato. Secondo la cassazione, infatti, il principio del pro rata serve ad evitare di frustare le aspettative di diritti in via di maturazione (appunto i diritti acquisiti), scindendo la pensione in due quote che si sommano tra loro: la prima calcolata sull’anzianità acquisita sotto il vigore della vecchia norma, la seconda sull’anzianità residua alla luce della nuova norma che, generalmente, è meno favorevole.
Le sentenze dei Giudici (ri)accendono il conflitto, ancora una volta, tra giovani e anziani, tra chi va in pensione e chi questa pensione deve finanziarie con i propri contributi. Un conflitto che ha ragione di esistere (anche) per il sistema di finanziamento a ripartizione delle pensioni, in base al quale “chi lavora” è tenuto a sborsare i soldi che servono a pagare la pensione a “chi sta a riposo”. Le sentenze ripropongono, dunque, una serie di interrogativi: chi stabilisce le regole del gioco, ossia l’importo della pensione e quindi quello dei contributi? Queste regole vanno bene per tutti o appagano alcuni (anziani/giovani) e scontentano altri (giovani/anziani)?
Chi oggi va in pensione (anziano) prende un assegno mensile, pagato finanziariamente da chi oggi lavora (giovane). I contributi di quest’ultimo (giovane), infatti, vengono utilizzati per liquidare la pensione periodica a coloro che stanno a riposo (anziani). Chi sta a riposo ha fatto altrettanto in precedenza quando è stato giovane; e chi oggi è giovane e lavora (e versa i contributi), lo fa sapendo che un domani, quando sarà anziano e avrà diritto a una pensione, ci saranno altri giovani disposti a mettere mano alla tasca per pagare i contributi necessari a liquidargli la pensione. Funziona più o meno così il patto intergenerazionale che lega giovani e anziani sulle pensioni. Una sorta di compromesso che ha funzionato, e pure bene, per anni. Anni di crescita demografica e di sviluppo economico che hanno fatto congetturare una panacea di previdenza (pubblica/statale) capace di viaggiare a senso unico, senza rischi di arretramento. Così è stato nel settore delle pensioni pubbliche e così anche in quello delle casse di previdenza professionali. Un problema, invece, c’è. Ed è un problema di sostenibilità, che vuole dire capacità di garantire quelle prestazioni che il sistema ha promesso negli anni.
Chi oggi va in pensione (anziano) ha lavorato e versato alla propria cassa di previdenza un tot di contributi sulla base di una promessa di ricevere, a tempo debito, una certa pensione (un certo ammontare di pensione). Quella pensione, adesso, egli pretende che gli venga pagata senza sconto alcuno. E se il sistema (la cassa) non riesce a pagare quella pensione? Il problema non ricade sulle spalle del pensionato (anziano), ma su quelle di coloro i quali devono procurare i soldi per pagare la pensione: cioè i giovani. Succede allora che diventa inevitabile aumentare i contributi ai lavoratori (che sono i giovani). E un aumento dei contributi comporta, giocoforza, la promessa di pensioni più cospicue per il futuro (ri)mettendole a carico dei futuri giovani (una sorta di ipoteca sul futuro). E’ qui il rischio: creare un circolo vizioso, dal quale difficilmente il sistema riuscirà ad uscirne indenne.
Il problema si risolverebbe da solo (senza sacrifici) se il numero dei lavoratori (giovani nuovi iscritti alle casse professionali) crescesse costantemente nel tempo. In un’economia matura è quanto può accadere normalmente; ma non è certo questo il quadro prospettico che si possiede oggi. E a far peggiorare le previsioni contribuisce la crisi economica. Peraltro, le professioni mutano nel tempo implicando, così, una mutabilità anche nella numerosità degli iscritti e dei pensionati delle singole casse previdenziali. E’ quello che è successo nel recente passato consegnando i problemi del presente: le casse con pochi iscritti e molti pensionati sono inevitabilmente destinate alla sofferenza, perché chi paga i contributi (giovani, pochi iscritti) non riesce a sostenere i pensionati (anziani, in numero proporzionale maggiore rispetto al passato).
Come uscire dall’impasse? Bisognerebbe promuovere l’impianto di un sistema contributivo puro: è la “previdenza” che deve essere obbligatoria per tutti, ma la scelta del “gestore” va lasciata libera. Un sistema totalmente liberale che obblighi unicamente ad avere un contratto di previdenza, ma non anche a fare quel contratto con uno specifico gestore (ente previdenziale).