Il demansionamento che diventa mobbing: la prova è presuntiva Cassazione civile , SS.UU., sentenza 22.02.2010 n° 4063
Un dipendente del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
svolgeva, per un certo periodo, funzioni vicarie di direzione e
coordinamento di uffici direttivi; successivamente, a seguito di una
riorganizzazione degli uffici territoriali, veniva costretto a un
periodo di inattività e allo svolgimento di mansioni inferiori fino al
pensionamento: pertanto, veniva chiesta la condanna del datore di
lavoro al pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento
delle mansioni superiori, oltre che il risarcimento del danno da mobbing
in conseguenza del successivo demansionamento. Il Ministero si
difendeva, tra l’altro, sostenendo che la pretesa risarcitoria del
dipendente era stata qualificata come domanda di risarcimento del danno
contrattuale non nell’atto introduttivo ma solo nella comparsa
conclusionale, così da ritenersi inammissibile.
La responsabilità ex contractu
In conformità ad un orientamento giurisprudenziale consolidato[1],
la qualificazione giuridica della responsabilità spetta, secondo le
Sezioni unite, al giudice indipendentemente dalla qualificazione
prospettata dal danneggiato sub specie di responsabilità contrattuale, extracontrattuale o da contatto sociale[2]:
è, pertanto, irrilevante, che la richiesta di risarcimento sia stata
qualificata come risarcimento del danno contrattuale solo ex post e non ex ante nell’atto introduttivo del giudizio.
Ciò
che rileva ai fini della corretta individuazione della natura giuridica
della responsabilità è la valutazione dell’ “elemento materia
dell’illecito” posto a fondamento della pretesa risarcitoria. In
quest’ottica occorre distinguere almeno due casi:
- se la
condotta dell’amministrazione ha una portata lesiva generale che
involge il dipendente, come qualsiasi altro cittadino, allora si
configura un’ipotesi di responsabilità aquiliana, costituendo il rapporto di lavoro l’occasione e non la causa della pretesa di risarcimento; - viceversa,
se il comportamento della P.A. è riconducibile a una violazione degli
obblighi di protezione ex art. 2087 c.c,. è il rapporto di lavoro ad
essere oggetto dell’illecito, cosicché è corretto parlare di
responsabilità contrattuale, indipendentemente dalla qualificazione a
monte operata dal lavoratore-danneggiato.
La prova del danno da demansionamento
Il demansionamento professionale[3]
si configura non solo quando un lavoratore viene adibito a una mansione
inferiore, ma anche, come nel caso di specie, quando è sottoposto a un
periodo di inattività prolungato ed ingiustificato (demansionamento
omissivo). La prova del danno subito può essere fornita in giudizio con
qualsiasi mezzo, in particolare anche con presunzioni “per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti
(caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si
possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al
fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi
dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti
dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e
nella valutazione delle prove”.
La liquidazione del danno non patrimoniale
Le
Sezioni Unite ritengono risarcibile il danno conseguenza, derivante da
demansionamento, collegato con l’art. 2087 c.c.; specificatamente “nella
disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano
una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento
di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale
è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di
lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo
regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela
risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice
del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con
l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà
discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di
interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non
risarcibili – dai danni che vanno risarciti”.
Per questa via, il danno risarcibile diveniva per il danneggiato “aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare“,
secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del nesso
causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione
del lavoratore.
Riflessioni
La sentenza entra in linea con la giurisprudenza prevalente, senza innovare di molto la materia.
Nel caso in esame demansionamento e mobbing[4] si muovono nella medesima direzione, volta a mortificare il dipendente, così vulnerando direttamente l’art. 2087 c.c.
Perché la responsabilità da violazione dell’art. 2087 c.c. è qualificabile come contrattuale?
A
rigore, non sussiste contrattualmente un obbligo di tutelare la
personalità morale del dipendente, ex art. 2087 c.c.; più chiaramente:
tale obbligo deriva dalla legge e non dal contratto di lavoro,
concretamente firmato dal dipendente, con la conseguenza logico
deduttiva che si dovrebbe versare in un’ipotesi aquilana, ex art. 2043 c.c. (con le connesse ricadute in ordine a prescrizione ed onere probatorio).
Tuttavia,
pur trattandosi di violazione di legge e non di contratto, vi è
responsabilità c.d. contrattuale, da violazione dell’art. 2087 c.c., in
quanto:
- l’art. 2087 c.c., anche se previsto dalla legge,
entra nel contratto, tanto è vero che, in assenza del contratto di
lavoro, non potrebbe trovare applicazione; se, pertanto, l’art. 2087
c.c. trova applicazione in quanto vi è un contratto, allora, si dice,
vuol dire che il suo reale fondamento è proprio di responsabilità ex contractu; lo stesso discorso vale per gli obblighi di buona fede ex art. 1175 c.c.; - datore
di lavoro e dipendente non sono sconosciuti tra loro, con la
conseguenza di non rientrare nell’indeterminatezza soggettiva dell’art.
2043 c.c. (laddove si parla di “qualunque”, “altri” e “colui”), ma
soggetti specificatamente individuati che si conoscono, ex art. 1218
c.c. (debitore e creditore); - la responsabilità c.d.
contrattuale non richiede necessariamente l’esistenza di un contratto,
ma solo di un’obbligazione (nell’art. 1218 c.c. non è menzionata la
parola “contratto”, ma solo inadempimento, per cui la responsabilità da
inadempimento è applicabile in tutti i casi di inesatto adempimento di
obblighi specifici, derivanti anche da altri atti o fatti – oltre al
contratto ed all’illecito – ex art. 1173 c.c.).
Relativamente
al danno non patrimoniale, ci si limita a ricordare che non tutti i
danni vanno risarciti, dovendo distinguere “pregiudizi” privi di
gravità che non sono risarcibili, da quelli gravi risarcibili; nulla
viene detto circa la nozione di gravità, che oggi si pone innanzi agli
interpreti: gravità in senso qualitativo ovvero quantitativo[5]?
Se
si opta per la tesi qualitativa, ciò che conterà ai fini della gravità
sarà il bene-interesse giuridico leso, con la conseguenza che, in tutti
i casi di lesione di diritti inviolabili, sarà possibile ottenere il
risarcimento del danno non patrimoniale (esemplificativamente, in
questo senso, sarebbe risarcibile un “taglietto” al dito, perché idoneo
a vulnerare la tutela della salute, ex art. 32 Cost.).
A favore di questa ricostruzione, si evidenzia che:
- i diritti inviolabili non possono essere mai violati, indipendentemente dalla gravità;
- la gravità può incidere solo sul quantum e giammai sull’an; nel dettaglio, l’entità delle conseguenze riguarda solo la quantificazione del danno, ex art. 1227 c.c..
Se
si opta per la tesi quantititativa, ciò che conterà ai fini
dell’ammissibilità del risarcimento sarà la sola gravità del danno,
così escludendo ipotesi di danni lievi, anche se posti in essere
“violando diritti inviolabili” (così, restando all’esempio fatto, un
“taglietto” al dito non sarebbe mai risarcibile).
A favore di questa tesi, più condivisa in giurisprudenza[6], deporrebbero i rilievi che:
- le Sezioni Unite di San Martino[7]
hanno richiesto che il danno non sia futile e che la lesione si grave,
così, in pratica, affermando un criterio quantitativo; anche per la
lesione di diritti costituzionali, la conseguenza dannosa, per essere
risarcibile, non deve essere futile; - diversamente opinando,
tutto sarebbe danno alla salute, ex art. 32 Cost., senza alcuna
perimetrazione, così producendo ristoro a danni – conseguenza puramente
immaginari, vulnerando la tolleranza del danneggiato verso il
danneggiante, ex art. 2, Costituzione.
(Altalex, 4 marzo 2010. Nota di Luigi Viola)
_________________
[1] Cassazione civile SS.UU. 18623/2008 in Mass. Giur. It., 2008.
[2] VIOLA (a cura di), Inadempimento delle obbligazioni, Padova, 2010; VIOLA-TESTINI, La responsbailità da contatto con la Pubblica amministrazione, Matelica (MC), 2006; FANTETTI, Responsabilità medica, contatto sociale e danno non patrimoniale da contratto, in La Responsabilità Civile, 2009, 8-9; GUERINONI, «Contatto sociale»e responsabilità contrattuale dell’Asl, in Contratti, 2005, 11, 975; PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da contatto sociale, in Giur. It., 2000, 4. In giurisprudenza si vedano Cassazione civile 2847/2010, in Massimario.it, 8, 2010; Cassazione civile 1538/2010, in Massimario.it, 6, 2010.
[3] STAIANO, Dequalificazione e mobbing, Matelica (MC), 2006; CARBONE V. (a cura di), Demansionamento anti-licenziamento, in Corriere Giur., 2008, 3, 313. In giurisprudenza, si veda Cassazione civile 20980/2009, in Massimario.it, 37, 2009.
[4]
Per la quantificazione, si sarebbe potuto far riferimento alle Linee
guida per l’accertamento del danno psichico e da pregiudizio
esistenziale emesse dal Consiglio dell’Ordine degli Psicologi del
Lazio, delibera 30.11.2009, che si occupano specificatamente anche di mobbing.
Il mobbing si realizza con una condotta sistematica e protratta nel
tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione
dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro,
garantite dall’art.2087 cod.civ.; tale illecito, che rappresenta una
violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a
carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti
materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente
dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla
disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della
lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere
verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore
di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata
dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una
connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una
violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato (Cassazione civile 4774/2006, in diritto-in-rete.com. Relativamente al mobbing, si veda FERRARIO, Mobbing e responsabilità datoriale: la Cassazione interviene nuovamente precisandone gli elementi costitutivi, in Argomenti Dir. Lav., 2009, 2, 460; NOCCO, Il mobbing, Danno e Responsabilità, 2008, 4, 398; PASQUINELLI, Mobbing e danno esistenziale, in Giur. It., 2008, 3; VIOLA, Il mobbing dal basso verso l’alto, in Studium Iuris, 2006, 12, 1406; RINALDI-STAIANO, Le forme di lavoro flessibile, Milano, 2009. In giurisprudenza si vedano Cassazione civile 9477/2009, in Massimario.it, 20, 2009 e Cassazione civile 22858/2008, in Massimario.it, 34, 2008.
[5] Il problema si è posto dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 26972/2008, in Massimario.it, che ha affermato “il
filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il
bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e
quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno
non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello
di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile”. Per approfondimenti FAVA (a cura di), La responsabilità civile, Milano, 2009.
[6] Si veda anche Cassazione civile 12885/2009, in Massimario.it, 24, 2009, con nota di BUFFONE.
[7] Cassazione civile, Sezioni Unite 26972/2008, già cit..
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 22 febbraio 2010, n. 4063
Svolgimento del processo
1.
Con ricorso al Tribunale di Siena, in funzione di giudice del lavoro,
A.U., già dipendente del Ministero del Lavoro e della Previdenza
Sociale dal **** e inquadrato nella sesta qualifica funzionale in
qualità di assistente amministrativo, esponeva che: a seguito di ordine
di servizio del direttore dell’Ufficio del Lavoro di **** in data ****
aveva assunto le funzioni vicarie, con poteri di coordinamento e di
firma, della direttrice responsabile della sezione circoscrizionale di
****e, per il protrarsi dell’assenza della titolare, aveva retto
l’ufficio dal ****, venendo anche nominato “reggente ad interini” con
ordine di servizio del ****; gli era stata affidata, inoltre, la
responsabilità di collaborare con il consegnatario dell’Ufficio
Provinciale nella custodia e manutenzione del patrimonio mobiliare
degli uffici; era stato successivamente inquadrato nella categoria ****
del c.c.n.l. dei dipendenti del comparto Ministeri ed era stato
trasferito, alla predetta data del ****, all’Ufficio Provinciale, dove,
però, era stato costretto ad una quasi totale inattività e al
disimpegno di compiti mortificanti (addetto alle informazioni generali
sulle competenze della Direzione Provinciale, addetto al protocollo
della corrispondenza), tanto da essere colpito da vari disturbi di
natura psico-somatica che lo avevano indotto, infine, al pensionamento.
Domandava, perciò, la condanna del Ministero al pagamento delle
differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori e il
risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale “da
mobbing’ in conseguenza del successivo demansionamento.
2.
Costituitosi il Ministero, che eccepiva il difetto di giurisdizione per
i fatti anteriori alla data del **** e contestava nel merito la pretesa
attorea, il Tribunale, con sentenza del 13 dicembre 2002, accoglieva la
domanda e condannava l’Amministrazione al pagamento di Euro 2.265,18
per differenze retributive correlate alle mansioni superiori ed Euro
17.000 per danni conseguenti al demansionamento.
3. Tale
decisione veniva parzialmente riformata dalla Corte d’appello di
Firenze, che, con sentenza del 1 luglio 2005, depositata il 2 settembre
2005, dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in
relazione alla domanda di differenze retributive riguardanti il periodo
anteriore al **** e condannava il Ministero alle sole differenze
relative al periodo successivo, nonchè al risarcimento del danno
patrimoniale, liquidato in Euro 1.000,00, e del danno non patrimoniale,
liquidato in Euro 3.000,00, in relazione al demansionamento.
3.1.
In particolare, i giudici d’appello rilevavano che: a) la giurisdizione
per le differenze retributive maturate prima della indicata data del
**** spettava al giudice amministrativo, alla stregua della
disposizione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, così
come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità; b) lo
svolgimento delle superiori mansioni – come era risultato dagli atti
acquisiti in giudizio – si era verificato per tutto il periodo dedotto
dal dipendente ed era cessato solo con la sua assegnazione alla sede
dell’Ufficio Provinciale di Siena, a seguito del trasferimento agli
enti locali delle funzioni relative ai servizi dell’impiego e della
opzione esercitata dall’ A. per la permanenza nei ruoli ministeriali;
c) l’espletamento delle mansioni superiori non poteva configurarsi come
esercizio di funzioni vicarie, in assenza della titolare, poichè
l’assegnazione delle funzioni di responsabile della sezione
circoscrizionale si era protratta per quasi due anni e mezzo senza che,
peraltro, venisse attivata alcuna procedura per la copertura del posto;
d) per tale periodo spettavano all’attore le differenze fra il
trattamento economico percepito e quello spettante per la ****
qualifica funzionale, alla quale erano da ascrivere le mansioni
espletate, in considerazione di un principio generale di diritto del
lavoro che doveva trovare applicazione nel pubblico impiego anche a
prescindere dalle varie disposizioni normative succedutesi al riguardo
(sino alla definitiva disciplina dettata dal D.Lgs. n. 387 del 1998,
art. 15, che, modificando il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, come a sua
volta modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, aveva sancito
anche per i pubblici impiegati – in ipotesi di svolgimento delle
relative mansioni – il diritto al trattamento previsto per la qualifica
superiore); e) il demansionamento professionale dedotto dal dipendente
era effettivamente risultato dagli specifici riferimenti testimoniali
acquisiti in giudizio, peraltro non contestati dal Ministero, che
avevano evidenziato una obiettiva “sottoutilizzazione” del medesimo, a
prescindere da “non provati intenti in qualche modo persecutori o
discriminatori”; f) doveva perciò riconoscersi, al riguardo, la
responsabilità dell’Amministrazione ai sensi dell’art. 2087 c.c.,
secondo la qualificazione della domanda correttamente operata ex
officio dal Tribunale sebbene la responsabilità contrattuale fosse
stata espressamente prospettata dall’attore solo nelle note conclusive;
g) quanto alla determinazione dei danni, quello professionale e quello
esistenziale, connesso agli “aspetti di vissuta e credibile
mortificazione”, dovevano essere ridotti alle rispettive misure,
equitativamente stabilite, di Euro 1.000,00, e di Euro 3.000,00, tenuto
conto che il demansionamento era connesso alla difficile collocabilità
dell’ A. nel nuovo modello organizzativo susseguente al trasferimento
agli enti locali delle principali funzioni delle sezioni periferiche e
che in ragione della nuova realtà lavorativa erano difficilmente
configurabili particolari chances di progressione professionale, mentre
il danno biologico non era stato specificamente allegato, nè
tempestivamente documentato.
4. Avverso questa sentenza
l’ A. propone ricorso per cassazione deducendo quattro motivi di
impugnazione, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Il
Ministero resiste con controricorso e propone ricorso incidentale
affidato, anch’esso, a quattro motivi.
Motivi della decisione
1.
In via preliminare, i due ricorsi devono essere riuniti, ai sensi
dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
2. Il ricorso principale si articola in quattro motivi.
2.1.
Con il primo motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione
degli artt. 112, 132, 156 e 437 c.p.c., si deduce la nullità della
sentenza impugnata per insanabile contrasto fra motivazione e
dispositivo; si rileva, in particolare, che il dispositivo, riferendosi
a titoli e importi del tutto estranei all’oggetto della controversia,
contiene statuizioni inconferenti rispetto alla motivazione.
2.2.
Con il secondo motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione
del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 47, comma 17, e del D.Lgs. n. 165 del
2001, art. 69, comma 7, nonchè vizio di motivazione, si deduce la
erroneità della declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice
ordinario per le differenze retributive relative allo svolgimento di
mansioni superiori nel periodo anteriore al ****. Si sostiene che
l’assegnazione a tali mansioni costituiva una situazione di fatto
permanente, sicchè ai fini della individuazione del giudice doveva
farsi riferimento all’epoca di cessazione di tale situazione, che si
era protratta oltre la predetta data.
2.3. Con il terzo
motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80
del 1998, art. 25, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, e degli artt.
2087, 1218, 1223, 1225, 1228 e 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione,
il ricorrente deduce la erronea determinazione dei criteri di
liquidazione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale
conseguenti al demansionamento. In particolare, lamenta che la sentenza
impugnata abbia giustificato la notevole riduzione degli importi
riconosciuti dal Tribunale per danno alla professionalità e per danno
esistenziale in base alle oggettive difficoltà di collocamento del
dipendente a seguito della sua assegnazione alla sede provinciale, non
considerando che la permanenza nei ruoli ministeriali non poteva
comunque comprimere il suo diritto a svolgere mansioni compatibili con
il livello di inquadramento e con la pregressa esperienza professionale
e che, d’altra parte, un adeguato ricollocamento – dopo una prima fase
di difficoltà – era stato attuato, come accertato dalla stessa
sentenza, per altri dipendenti precedentemente addetti alle attività
trasferite agli enti locali; inoltre, la “vissuta e credibile
mortificazione”, accertata dalla stessa sentenza, avrebbe dovuto
comportare la configurazione di un danno da mobbing, anche a
prescindere dal demansionamento e dalla sussistenza di uno specifico
intento persecutorio da parte dell’amministrazione; infine, rileva come
l’esclusione del danno biologico sia del tutto immotivata, alla stregua
delle precise risultanze documentali e testimoniali già puntualmente
considerate dal giudice di primo grado.
2.4. Con il
quarto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 92
c.p.c., e vizio di motivazione, il ricorrente si duole della parziale
compensazione delle spese di lite, a suo dire non giustificata alla
stregua dell’esito del giudizio.
3. Con il ricorso incidentale il Ministero deduce, a sua volta, quattro motivi di impugnazione.
3.1.
Con il primo motivo, denunciandosi, in relazione all’accoglimento della
pretesa risarcitoria, violazione e falsa applicazione degli art. 112,
414 e 420 c.p.c., si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto
ammissibile la domanda di accertamento della responsabilità
contrattuale del Ministero, ex art. 2087 c.c., non proposta con l’atto
introduttivo e formulata solo con le note conclusionali.
3.2.
Con il secondo motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione
degli art. 1226, 2103 e 2087 c.c., e degli art. 115, 116, 414 e 420
c.p.c., nonchè vizio di motivazione, si rileva la inadeguatezza e la
contraddittorietà delle valutazioni operate nella sentenza impugnata
quanto alla affermazione del demansionamento e si deduce che il
riconoscimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale non
sia supportato, in realtà, da un’idonea dimostrazione attorea circa la
effettiva sussistenza di pregiudizi professionali ed esistenziali.
3.3.
Con il terzo motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione
dell’art. 36 Cost., e del D.M. Lavoro 20 gennaio 1998, si sostiene che
l’assegnazione delle superiori mansioni era conseguita all’attribuzione
della reggenza dell’ufficio circoscrizionale, consentita dal predetto
decreto sine die, e, pertanto, non poteva dare luogo ad alcun
adeguamento retributivo.
3.4. Con il quarto motivo,
denunciandosi violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 387 del
1998, art. 15, si deduce che, in ogni caso, il diritto alle differenze
retributive non poteva essere riconosciuto per il periodo anteriore
all’entrata in vigore del predetto decreto, che ha introdotto, con
disposizione innovativa, la regola della retribuibilità dell’esercizio
di mansioni superiori.
4. Il primo motivo del ricorso
principale non è fondato. Nel rito del lavoro, la difformità tra il
dispositivo letto in udienza e quello trascritto in calce alla
motivazione della sentenza non è causa di nullità di quest’ultima,
giacchè, nel contrasto tra i due dispositivi, prevale quello portato a
conoscenza delle parti mediante lettura in udienza, potendosi ravvisare
nullità solo nel caso di insanabile contrasto tra il dispositivo letto
in udienza e la motivazione della sentenza, là dove, qualora la
motivazione sia coerente con il dispositivo letto in udienza, quello
difforme trascritto in calce alla sentenza è emendabile con la
procedura di correzione degli errori materiali (cfr. Cass. n. 11688 del
2008; n. 1369 del 2004). La nullità non ricorre, perciò, nel caso di
specie, poichè il dispositivo letto in udienza – come risulta dal
relativo verbale, il cui esame è consentito in questa sede in ragione
del vizio denunciato – corrisponde, nelle sue statuizioni, alle ragioni
della decisione.
5. Anche il secondo motivo dello stesso
ricorso è infondato. In tema di lavoro pubblico cosiddetto
privatizzato, ai sensi della norma transitoria contenuta nel D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7, nel caso in cui il lavoratore –
attore, sul presupposto dell’avverarsi di determinati fatti, riferisca
le proprie pretese retributive, in ragione dello svolgimento di
mansioni corrispondenti ad una superiore qualifica, ad un periodo in
parte anteriore ed in parte successivo al ****, la competenza
giurisdizionale non può che essere distribuita tra giudice
amministrativo e giudice ordinario, in relazione ai due periodi in cui
sono distintamente maturati i diritti retributivi del dipendente,
mentre la regola del frazionamento trova temperamento nella diversa
ipotesi di domanda fondata sulla deduzione di un illecito permanente
del datore di lavoro (ad esempio, dequalificazione, comportamenti
denunciati come mobbing), nella quale si deve fare riferimento al
momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della
cessazione della permanenza (cfr. Cass., sez. un., n. 7768 del 2009; n.
24625 del 2007, ord.; n. 13537 del 2006, ord.).
6. Prima
del terzo motivo del ricorso principale, relativo alla determinazione
dei danni da demansionamento, occorre esaminare i primi due motivi del
ricorso incidentale del Ministero, riguardanti, rispettivamente,
l’ammissibilità della relativa domanda ex art. 2087 c.c., e la
sussistenza del demansionaraento, nonchè la prova dei danni. 6.1.
Entrambi tali motivi sono infondati.
6.1.2. Come queste
Sezioni unite hanno più volte precisato, ove il pubblico dipendente
proponga, nei confronti dell’amministrazione datrice di lavoro, domanda
di risarcimento danni per lesione dell’integrità psico – fisica, non
rileva, ai fini dell’accertamento della natura giuridica dell’azione di
responsabilità proposta, la qualificazione formale data dal danneggiato
in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero
mediante il richiamo di norme di legge (art. 2043 c.c. e ss., art. 2087
c.c.), indizi di per sè non decisivi, essendo necessario considerare i
tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della
pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una
condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi,
indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei
confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto
di lavoro mera occasione dell’evento dannoso; oppure se la condotta
lesiva dell’amministrazione presenti caratteri tali da escluderne
qualsiasi incidenza nella sfera giuridica di soggetti ad essa non
legati da rapporto d’impiego e le sia imputata la violazione di
specifici obblighi di protezione dei lavoratori (art. 2087 c.c.), nel
qual caso la responsabilità ha natura contrattuale conseguendo
l’ingiustizia del danno alle violazioni di taluna delle situazioni
giuridiche in cui il rapporto di lavoro si articola e sostanziandosi la
condotta lesiva nelle specifiche modalità di gestione del rapporto di
lavoro (cfr., ex pluribus, Cass., sez. un., n. 18623 del 2008). Nella
specie, dunque, è irrilevante che la responsabilità ex contractu non
sia stata esplicitata nell’atto introduttivo del giudizio, spettando
comunque al giudice la qualificazione della domanda.
6.1.3.
L’esistenza del demansionamento è stata accertata dai giudici di merito
in base ad una ricostruzione puntuale dei compiti affidati ai
dipendente dopo la sua assegnazione alla sede della direzione
provinciale sino alla cessazione del rapporto per pensionamento, con la
descrizione dettagliata delle mansioni svolte nei diversi periodi e di
quelle corrispondenti alla sua qualifica; alla stregua di tale
accertamento, la complessiva valutazione di “sostanziale privazione di
mansioni” non è per niente incoerente con il riconoscimento che per un
limitato periodo – da ottobre **** – l’ A. abbia svolto “un’attività
consona alla (sua) professionalità”, riguardante la trasformazione dei
rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, poichè – come la
stessa sentenza ha precisato – si trattò di un’attività “di natura
temporanea” e “anche limitata quantitativamente” in quanto svolta “per
circa due ore al giorno per due volti alla settimana”, mentre per i
successivi due anni “è rimasto sostanzialmente privo di specifiche
mansioni da svolgere” e, infine, dal **** è stato addetto alle
informazioni al pubblico e alla protocollazione della corrispondenza,
“attività del tutto marginale ed assolutamente non riconducibile al suo
livello di inquadramento”. 6.1.4. Una volta accertato il
demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito ha
correttamente desunto l’esistenza del relativo danno in base ad una
valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della
operata de qualificazione; e ciò è conforme al principio enunciato da
questa Corte secondo cui il danno conseguente al demansionamento va
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti
(caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si
possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al
fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi
dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti
dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e
nella valutazione delle prove (cfr. Cass., sez. un. n. 6572 del 2006;
Cass. n. 29832 del 2008; n, 28274 del 2008).
6.1.5. Con
riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale, esso è stato
coerentemente individuato dai giudici di merito, occorrendo rilevare
che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni
assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il
riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno
non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita
del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti:
questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere
suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso
per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il
risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi
identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in
disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità,
come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass.
n. 10864 del 2009). Nella specie, il danno risarcibile è esattamente
identificato negli “aspetti di vissuta e credibile mortificazione
derivanti all’ A. dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad
operare”, secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del
nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di
mortificazione del lavoratore e che si sottrae, perciò, alle censure
sollevate dal Ministero.
7. Le censure contenute nel
terzo motivo del ricorso principale, relative alla liquidazione del
danno, si rivelano fondate nei limiti delle seguenti considerazioni.
7.1.
L’esclusione del danno biologico si fonda, per la sentenza qui
impugnata, sulla “mancanza di elementi processuali significativi, che
giustifichino un approfondimento medico – legale del caso, come
ritenuto – in maniera condivisibile – dal primo giudice”. Ma
l’affermazione è palesemente incoerente con quanto riferito nella parte
narrativa, secondo cui il Tribunale “ha enucleato un profilo…di danno
biologico – sostanziatosi nelle documentate manifestazioni
psicosomatiche e nella sindrome ansiosa correlate alla vicenda
lavorativa del ricorrente”; e tale incoerenza si risolve, altresì, in
una carenza del giudizio di fatto, poichè la erronea presupposizione
(di un accertamento negativo nel precedente grado di giudizio) ha
determinato l’omesso esame delle decisive risultanze, puntualmente
riportate dal ricorrente in questa sede, su cui, invece, si era fondato
il riconoscimento operato dal primo giudice.
7.2. La
riduzione del danno professionale alla misura “poco più che simbolica”
di Euro 1.000,00, e di quello esistenziale alla misura di Euro 3.000 si
fonda su valutazioni inadeguate, riferite essenzialmente alla
peculiarità della situazione lavorativa dell’ A. a seguito della sua
scelta di non transitare nei ruoli degli enti locali. Invero, le
rilevate difficoltà organizzative e di collocamento del dipendente sono
state definite, nella stessa sentenza, come circostanze limitate
temporalmente, in quanto riguardanti una prima fase di transizione, e
comunque inidonee a giustificare il demansionamento, tenuto conto che
l’ A. “è stato per circa due anni l’unico dipendente della Direzione
prov.le del Lavoro di **** che…è rimasto sostanzialmente privo di
specifiche mansioni da svolgere (per gli altri colleghi, nel contesto
delle vicende riorganizzative dell’ufficio, i disagi conseguenti alla
necessità di una ricollocazione lavorativa si sono limitati ad un
periodo iniziale)”. D’altra parte, la condotta datoriale non poteva che
essere valutata nel suo complesso, considerando, in particolare, la
persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti
di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come
mobbing), la lunga durata di reiterate situazioni di disagio
professionale e personale, consistite, fra l’altro, nel dover operare
“in un locale piccolo e fatiscente, privo di computer”, l’inerzia
dell’amministrazione rispetto alle accertate richieste del dipendente
(“di essere utilizzato nell’Area provvedimenti o nell’Area
extracomunitari” al fine di poter lavorare in un settore
operativo-amministrativo”) intese a non compromettere il patrimonio di
esperienza e qualificazione professionale, che costituiva un suo
primario diritto a prescindere dalla esistenza di specifiche
aspettative di progressione di carriera.
7.3. Nei limiti indicati, pertanto, le censure del ricorrente principale meritano accoglimento.
8.
Devono infine esaminarsi il terzo e il quarto motivo del ricorso
incidentale, riguardanti le differenze retributive per lo svolgimento
di mansioni superiori.
8.1. Il terzo motivo non è fondato.
Come
questa Corte ha più volte precisato, le disposizioni relative al
comparto Ministeri che consentono la reggenza del pubblico ufficio
sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare devono essere
interpretate, ai fini del rispetto del canone di ragionevolezza di cui
all’art. 3 Cost. e dei principi generali di tutela del lavoro (artt. 35
e 36 Cost.; art. 2103 c.c., e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), nel
senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei
compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata
dalla straordinarietà e temporaneità, con la conseguenza che a tale
posizione può farsi luogo, senza che si producano gli effetti collegati
allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato
aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di
tempo ordinariamente previsti per tale copertura, cosicchè, al di fuori
di tale ipotesi, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di
mansioni superiori, come correttamente ritenuto nella sentenza qui
impugnata essendosi accertata l’insussistenza delle predette condizioni
di temporaneità (cfr. Cass. n. 2534 del 2009; n. 22932 del 2008; n.
9130 del 2007).
8.2. Infondato è anche il quarto motivo.
Nel
pubblico impiego “privatizzato” il divieto di corresponsione della
retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal
D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n.
80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998,
art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6,
ultimo periodo, del predetto articolo, disposta dalla nuova norma, è
una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in
termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con
riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e,
quindi, in modo idoneo ad incidere sulla regolamentazione applicabile
all’intero periodo transitorio. La portata retroattiva di detta
disposizione risulta, peraltro, conforme alla giurisprudenza della
Corte costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel
pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al
lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e
qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del
legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in
contrasto con i principi costituzionali (cfr. Corte cost. n. 236 del
1992; n. 296 del 1990; Cass., sez. un., n. 25837 del 2007; Cass. n.
9130 del 2007).
9. In conclusione, va accolto il terzo
motivo del ricorso principale, nei termini sopra precisati, con
assorbimento del quarto motivo riguardante la compensazione parziale
delle spese dei giudizi di merito, mentre vanno respinti i restanti
motivi del medesimo ricorso nonchè il ricorso incidentale.
10.
La sentenza impugnata va pertanto cassata, in relazione al motivo
accolto, e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Bologna, cui è
rimessa altresì la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La
Corte, a sezioni unite, riuniti i ricorsi, accoglie il terzo motivo del
ricorso principale nei sensi di cui in motivazione, dichiara assorbito
il quarto motivo del medesimo ricorso e rigetta i restanti motivi,
nonchè il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in
relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte d’appello di Bologna
anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2010.
Laurea La tortura psicologica del mobbing Una cappa di “silenzio” è calata sulla tematica del mobbing: è da tempo, ormai, che tutto tace sull’argomento. Qualche anno fa pareva che, finalmente, i riflettori dei mass-media si stessero accendendo su questo fenomeno criminale: qualche trasmissione televisiva, ogni tanto, ne parlava, nelle sale cinematografiche usciva il film della Comencini “Mi piace lavorare (mobbing)”, su internet erano nati diversi siti che raccoglievano testimonianze di vittime, diffondendo, al contempo, gli sviluppi legislativi sull’argomento. Improvvisamente questi siti o sono stati oscurati o non sono stati più aggiornati, lasciando nella più assoluta mancanza di informazioni le numerose vittime di mobbing “assetate” di giustizia. Ultimamente la tematica si sta riproponendo su face-book senza aggiungere, tuttavia, nulla a ciò che i conoscitori del fenomeno già sapevano. Sete di giustizia è l’espressione più appropriata per esprimere lo stato d’animo di chi è vittima di questo crimine, poiché quando si parla di mobbing, si discute di tortura psicologica con pesanti conseguenze sull’esistenza di un individuo. Il mobbing è un assassinio che non lascia né cadaveri, né armi. Quando si uccide qualcuno usando una pistola, il morto diventa la prova di un reato sul quale gli organi competenti dovranno indagare per scoprirne i responsabili. Quando invece una persona è torturata psicologicamente, si mira a distruggerla “di dentro”, istigandola al suicidio tramite isolamento, emarginazione, inattività forzata, umiliazioni e con varie altre forme subdole di prevaricazione prolungate nel tempo. Si cerca di ottenere lo stesso risultato di un assassinio, in maniera più “pulita”: il mobbizzato diventa un “cadavere vivente” e i suoi assassini ritengono di non potere essere etichettati come tali, solo perché non hanno lasciato tracce di sangue sull’aggredito. Le ferite inferte, tramite la tortura subita, sono ben celate all’interno della persona!!! Qualunque forma di tortura è una violazione dei diritti umani vietata dalle leggi, ma non impedita. Si tortura per estorcere confessioni, punire reati o presunti colpevoli di reati, imporre disciplina o supremazia psicologica, seminare il terrore. La tortura è, dal punto di vista chi la usa, un metodo estremamente efficace: anche quando non uccide, incute paura e annichilisce. Il suo obiettivo ultimo non è la morte della vittima ma il suo annientamento come essere umano, l’annullamento della sua personalità, dignità, individualità. Non a caso, le conseguenze psicologiche e sociali della tortura sono ben più profonde e difficili da cancellare di quelle fisiche. La tortura, sia fisica che psicologica, esiste perché fa parte di un vero e proprio “sistema”, fatto di azioni (l’ordine tacito o esplicito di torturare, la “formazione” del torturatore, l’atto della tortura) e di omissioni (la negazione delle responsabilità, le mancate indagini, l’assenza di punizioni) e reso possibile da una parola-chiave: impunità, ovvero quel meccanismo per cui i responsabili della tortura non vengono puniti e le vittime della tortura non ottengono giustizia. Quando si parla di tortura si pensa in genere a quella fisica e riesce difficile capire la tortura psicologica. Chi ha letto il libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, trova un’eccellente descrizione del tipo di “ferite interiori” inferte a chi è sottoposto a questo tipo di tortura, che presuppone, in chi la attua, il mancato riconoscimento dell’altrui dignità di essere umano e scrivo questo con la consapevolezza che tale concetto potrà essere compreso solo da chi ha vissuto le stesse sensazioni, sia pure in altri contesti. A torture psicologiche sono stati sottoposti gli ebrei, i negri, i dissidenti nei regimi dittatoriali e tutti quegli individui che vengono discriminati dalla classe di potere dominante o dal gruppo sociale di appartenenza. A tortura psicologica (mobbing) sono sottoposti i dipendenti “scomodi” nelle aziende, tramite un massacro quotidiano perpetrato sotto gli occhi dei colleghi, che vedono e tacciono per connivenza o per vigliaccheria. Chi tace, si rende complice col suo silenzio, al perpetuarsi di questo crimine, ritenendo “erroneamente” di non poter diventarne vittima lui stesso o i propri figli!!! Quando verrà rotto il muro di silenzio con cui si nasconde il crimine del mobbing? E chi sentirà il dovere morale di fare qualcosa? Come mai i mass media e i giornalisti più agguerriti non hanno mai ingaggiato una battaglia martellante su questo tema, con l’intento di una pressione politica finalizzata all’adozione di una legge ad hoc? Che fine fanno le denuncie di coloro che si rivolgono ai Magistrati riponendo fiducia nella Giustizia? E’ mai possibile che, in presenza di un vuoto legislativo, coloro che dovrebbero svolgere la propria professione animati dal sacro fuoco di un alto ideale, non riescano a trovare, tra i “meandri” delle numerosissime Leggi già esistenti, uno spiraglio per poter inquadrare come reato penale il crimine del mobbing? E’ scandaloso il fatto che la violenza psichica in cui si concretizza il mobbing e che distrugge l’esistenza di un essere umano, sia considerato un reato amministrativo, risarcibile con un semplice indennizzo economico!!!. Chi denuncia la tortura psicologica subita, si ritrova “solo” a combattere una dura battaglia, abbandonato a se stesso da chi si proclamava paladino della giustizia, isolato, talvolta, dai suoi stessi familiari, con la consapevolezza che, per proteggere il silenzio omertoso su certe vicende, esiste chi sarebbe pronto ad usare qualsiasi arma!!! Sembra che da più parti esista una ritrosia a identificare il mobbing, (i cui effetti, oltre ad esplicarsi nell’ambito lavorativo, distruggono ogni aspetto della esistenza delle vittime), come un crimine pianificato dalla “mafia dei colletti bianchi”, mirante a liberarsi di un dipendente scomodo. Concludo auspicando che coloro che sono dotati di strumenti politici, giudiziari e di informazione utilizzino il loro potere per combattere e sconfiggere il crimine del mobbing, affinchè il prezzo di tante vite distrutte possa servire per consegnare alle nuove generazioni una società ove la Giustizia non sia una pura utopia!!!
mobbing cancro terribile Il mobbing esiste: i sindacati sono complici e spesso sono i sindacalisti a mobbizzare anche gli iscritti per ottenere favori e quant’altro da una dirigenza incapace, impreparata e paurosa del potere sindacale. Perchè il quarto potere (stampa, radio, televisione e qualsiasi altro mezzo di informazione) non ne parlano e non danno la corretta dimensione di un fenomeno ormai irrefrenabile nella pubblica amministrazione? Perche si è fatta la legge sullo stalking e non si fa quella su un fenomeno molto più infido, sottile e venefico quale il mobbing? Forse perchè a sentenza i danni nello stalking li risarciscono i poveracci, mentre nel mobbing lo Stato per responsabilità contrattuale e solo in caso di condanna penale (oggi molto difficile senza la legge sul mobbing, anche a causa dell’impreparazione della magistratura sul fenomeno) pagano i dirigenti, i colletti bianchi, tanti dei quali iscritti ai vari Rotary, Lions e massonerie varie. L’Italia non si erge a paese civile e democratico e la legge NON è uguale per tutti. Rubi una mela e sei un ladro, rubi tanto, milioni di euro pubblici tra appalti e tangenti e sei un "furbo". In cosa più possiamo credere? A Babbo Natale?
Correlazioni? Chiedo scusa se utilizzo questo spazio per chiedere consigli in merito alla mia situazione,analoga a quella del lavoratore che ha denunciato il demansionamento.Io non ho i mezzi economici poer sostenere una vertenza,che ha dei tempi lunghi ed estenuanti.Allora sono infermiere professionale dal 1985,titolo arrichito nel 2008 con un master per le funzioni di coordinatore,svolto ROMA"TOR VERGATA".In verità non ho mai espresso la volntà di svolgere tale mansione,poichè sono,sostanzialmente,desideroso di mettere in pratica la mia quasi 30ennale esperienza professionale sul territorio.Ora,sta di fatto che lavoro presso un A.O del SUD (non cito il nome per non dar la possibilità a terzi di scavarmi la fossa) e in più occasioni ho polemizzato su alcune metodologie sia mediche che amministrative piuttosto dubbie.Ma fatta eccezione per un solo medico che ha avuto la determinazione di investireun ingente somma per denunciare il malaffare si riscontra un sottile filo che lega magistratura inquirente e la potentissima casta dei medici (numerosi anche come rappresentanti politici).Per me è stato riservato un trattamento che supera il confine della criminologia.Pur rimanendo inquadrato con la qualifica professionale infermieristica cat.D6 (il massimo)mi hanno assegnato a mansioni OTA. iO RISPETTO TUTTI I LAVORATORI E NON DIMENTICO CHE IL PRESIDENTE PERTINI FACEVA IL MINATORE PER NON INCAPPARE NELLAMACCHINA REPRESSIVA FASCISTA. MA,SICCOME CHE IL SOTTOSCRITTO IN TANTI ANNI DI SERVIZIO NON E’STATO MAI IMPLICATO IN EPISODI DI DISSERVIZIO,CHE HA MOSTRATO LIVELLI ALTI DI UMANITA’,CHE PER STRADA MI SALUTANO EX PAZIENTI CHE RICORDANO IL MIO METODO DI RELAZIONARMI CON LE PERSONE SOFFERENTI,CHE HO ASSISTITO PAZIENTI DI OGNI TIPO (HO LAVORATO 10 ANNI IN PS,3 IN RIANIMAZIONE,3 IN MALATTIE INFETTIVEE CENTRO AIDS,4 IN CHIR ONCOLOGICA CHE SUPPLIVA CON L’ESIGUO PERSONALE ANCHE L’ASSISTENZA NON CERTO AGEVOLE A PAZIENTI DI CHIR.VASCOLARE E GASTRO),INSOMMA VORREI CHE MI DICESSERO PER QUALE MOTIVO ,IGNOBILE,FACCIO IL PORTANTINO?cI SONO GLI ESTREMI PER DNUNCIARE I COORDINATORI DELLA DS PER ATTEGGIAMNTO INQUO,VISTO CHE MI INVITARONO A SVOLGERE QUSTO SRVIZIO PER POCHI MESI E I MESI SONO DIVENUTI ANNI.cHE PROVE DOVREI PROFURRE OER OTTENERE GIUSTIZIA E COSA DOVREI FARE PER AVERE I RISARCIMNTI ECONOMICI VISTO CHE ALCUNI COLLGHI SI SNO ABBOFFATI PER MANCANZA DI PERSONALE INFERMIERISTICO?rINNOVO LEMIE SCUSE,MA NON Sò A CHI RIVOLGERMI PER AVERE NOTIXZIE CERTE,VISTO CHE I SOPPRUSI IN QUESTI OSPEDALI FILOMAFIOSI SI PERPETUANO NONOSTANTE GLI SPOT DI MINISTRI LEGHISTI CHE RECLAMIZZANO INESISTENTI VITTORIE DELLA LEGALITà E bRUNETTA CHE SI è COME FISSATO SU INIQUE OPERAZIONI DI FACCIATA MENTRE I CRIMINALI CONTINUANO A FARE I FATTI PEGGIO E PIU’ DI PRIMA.