Il fumo provoca un danno risarcibile
La battaglia di coloro che sono stati colpiti da neoplasie per gli effetti nocivi derivanti dal fumo di sigaretta (o dei loro eredi, purtroppo) è iniziata intorno ai primi anni novanta, senza, tuttavia, riscuotere fruttuosi risultati.La giurisprudenza, mai come in questo caso, si è mostrata poco incline a riconoscere la pretesa risarcitoria: ora, in quanto non era stato riscontrato il nesso di causalità tra fumo e tumore (così risolve semplicisticamente la questione il Tribunale di Napoli con la sentenza 15 dicembre 2004 n. 12729 – in Corriere del Merito, 2005, p. 271 – affermando che il fumo costituisce elevato fattore di rischio del cancro, ma non tutti i fumatori contraggono la malattia e precisando che il fumo è atto volontario e la nicotina non crea dipendenza e che la produzione e la vendita di sigarette è attività lecita, se esercitata da soggetti legittimati nei modi e nelle forme imposti dalla legge; in tal senso sembra Trib. Roma, 11 febbraio 2000, in Giur. it., 2001, p. 1643 e Trib. Roma, 4 aprile 1996, in Danno e resp., 1997, p. 750); altre volte, perché non era stata validamente dimostrata in giudizio la legittimazione passiva dei produttori di sigarette. Più sensibili, circa la tutela della salute, sono apparsi, invece, i giudici laddove hanno affermato la responsabilità del datore che aveva permesso il fumo di sigaretta all’interno dei locali di lavoro, riconoscendo ai soggetti che avevano subito un pregiudizio da c.d. fumo passivo il relativo risarcimento (in tal senso, TAR Lazio, sez. III, 20 marzo 1996, n. 723; Cass. Pen., sez. IV, 11 luglio 2002. n. 988; Trib. Milano, 1° marzo 2002, in Lavoro nella giur., 2003, p. 159). La Corte di Appello di Roma, con la sentenza 7 marzo 2005, n. 1015, nell’affermare la prevalenza assoluta della tutela del diritto alla salute sancito dall’art. 32 Cost. e la conseguente esigenza della difesa a oltranza contro ogni forma di compressione di tale posizione di diritto, ha condannato l’Ente Tabacchi Italiani (ora British American Tobacco B.A.T. Italia S.p.A.) a pagare, in favore degli eredi di un soggetto deceduto per cancro al polmone causato da fumo di sigaretta, il risarcimento del danno.I giudici di Roma sono giunti alla pronuncia di responsabilità in virtù delle seguenti considerazioni:a) il soggetto affetto dalla neoplasia al polmone aveva fumato per quarant’anni circa venti sigarette del monopolio di stato al giorno;b) la neoplasia polmonare ha trovato la sua causa nel fumo di sigaretta essendo stato accertato – anche attraverso c.t.u. – il rapporto causale secondo un criterio di seria probabilità scientifica, al di là di ogni ragionevole dubbio e ciò in quanto è stato dimostrato che:I. il tumore al polmone aveva natura primitiva (l’organo, cioè, non era stato colpito da neoplasia nata altrove);II. al de cuius – si ripete fumatore incallito – in virtù della indagine epidemiologica effettuata, di tipo statistico, veniva attribuito un “rischio attribuibile” non inferiore all’80 per cento nonostante l’attore avesse vissuto sempre in piccole città ove la possibilità di esposizione agli effetti dell’inquinamento ambientale era alquanto limitata; l’attività professionale svolta non lo avesse esposto al rischio di assunzione di sostanze inquinanti; la propria storia familiare non comprendesse alcun tipo di neoplasia;III. il risultato dell’indagine molecolare sul Dna comprovava una mutazione causata dalle sostanze cancerogene contenute nel fumo (in particolare il benzopirene). Al riguardo, i giudici di Roma, nel prendere in considerazione l’obiezione dei consulenti di parte convenuta secondo cui tale mutazione del Dna era rilevabile anche in casi di non fumatore, potendo derivare dalla inalazione di sostanze cancerogene provenienti dal fumo passivo o da ambienti inquinati da idrocarburi policiclici per effetto delle condizioni di vita o di lavoro del soggetto, osservano che tale circostanza è resa neutra dal fatto che il de cuius era “un fumatore abituale, come tale esposto al rischio di assunzione di sostanze tossiche prodotte da idrocarburi policiclici… onde è assai improbabile che la mutazione potesse essere stata determinata da un fattore diverso dal fumo attivo”;c) “il tabacco contiene sostanze nocive che, all’atto del consumo, si sprigionano scatenando i loro effetti lesivi sul loro bersaglio primario, ossia sui polmoni, con il pericolo che l’aggressione possa giungere fino a produrre quelle mutazioni molecolari che sono all’origine della neoplasia polmonare in una elevata percentuale di fumatori”. Il soggetto che produce il tabacco e lo mette in commercio non può ignorare i rischi per la salute che derivano al consumatore. Ne è a conoscenza perché, grazie ai tecnici che fanno parte del proprio organico, sa quale è la composizione dei tabacchi e quali le sostanze tossiche in essi contenute e in quanto fin dal 1950 studi scientifici evidenziano che il fumo provoca danni all’uomo. Del resto, anche prima dell’entrata in vigore della legge 428/90, si avvertiva la necessità di informare i fumatori circa gli effetti nocivi del fumo sulla salute ancorché non fosse ancora prevista la pubblicità di cui alla citata legge, la quale impone espressioni sempre più esplicite sui rischi derivanti dal fumo (“il fumo uccide”, “il fumo provoca cancro ai polmoni”, etc.).Per tali ragioni, la produzione e la vendita dei tabacchi comporta l’esercizio di un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che l’Ente Tabacchi era obbligato a usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramutasse in danno concreto. La Corte di Appello di Roma, al riguardo, precisa che il soggetto che produce tabacco e lo mette in commercio non può trincerarsi dietro l’affermazione di aver osservato tutte le disposizioni di legge imposte in suddetta materia e di aver apposto all’esterno delle confezioni di sigarette i prescritti richiami alla nocività del fumo dopo l’entrata in vigore della legge 428/90. “In tal modo – precisano i giudici della Corte di Appello di Roma – l’Ente Tabacchi si è sottratto all’onere della prova liberatoria, con la conseguenza che a suo carico è rimasta operante, con tutta la sua forza, la presunzione di colpa”. La sentenza della Corte di Appello di Roma, dunque, fornisce una valida risposta alla esigenza di tutela del diritto alla salute, previsto dall’art. 32 della Costituzione. Il citato articolo 32, in collegamento con l’art. 2043 cod. civ., pone, infatti, il divieto primario e generale di ledere la salute. Al riguardo la Corte Costituzionale (sent. 7 maggio 1991 n. 202) ha affermato che “il riconoscimento del diritto alla salute come diritto fondamentale della persona è bene primario, costituzionalmente garantito, e pienamente operante anche nei rapporti di diritto privato. Dovendosi riconoscere che la lesione del diritto soggettivo garantito dall’art. 32 Cost. integra la fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., non può dubitarsi dell’obbligo del risarcimento per la violazione del diritto stesso. In altri termini, dal detto collegamento dell’art. 32 Cost. con l’art. 2043 cod. civ. discendono l’ingiustizia del danno e la conseguente sua risarcibilità”. In virtù di tale principio chi produce e vende sigarette – si ribadisce – non può sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente deducendo che le attività espletate non sono vietate dalla legge, onde non possono dare luogo a condotte antigiuridiche. Al riguardo va precisato che, dalla combustione del tabacco e della carta che lo avvolge si sviluppa un fumo contenente 4mila sostanze diverse. Il fumo contiene sostanze irritanti come l’acido cianidrico, l’acroleina, la formaldeide, l’ammoniaca, il monossido di carbonio e l’acido prussico, immediatamente dannose per l’apparato respiratorio, il benzenolo (causa di leucemie), oltre a 24 metalli tra i quali il cadmio che nel sangue dei fumatori è da tre a quattro volte superiore rispetto ai non fumatori. Altro costituente della parte corpuscolata è il catrame, composto a sua volta da centinaia di sostanze di sicuro effetto cancerogeno sull’apparato respiratorio, sul cavo orale, sulla gola e sulle corde vocali; tra le sostanze comprese sotto il nome di catrame, le più pericolose sono il benzopirene e gli idrocarburi aromatici capaci di attraversare la placenta e di causare effetti tossici cumulativi. E ci si ferma qui, per non addentrarsi in questioni eccessivamente tecniche non oggetto della presente indagine. Va solo ribadito che l’attività effettuata da chi produce e vende sigarette è attività pericolosa, ex art. 2050 cod. civ.; essa impone tutte le misure idonee ad evitare il danno, come ad esempio inserire all’interno dei pacchetti di sigarette (così come rilevato dalla Corte di Appello di Roma) dei fogli illustrativi – cosa mai verificatasi – ove riportare le notizie essenziali sulla composizione dei tabacchi e soprattutto sulle sostanze nocive, così come avviene da anni nelle confezioni di medicinali. Alle condivisibili argomentazioni utilizzate dalla Corte di Appello di Roma può aggiungersi che, in ipotesi siffatte, il produttore e distributore di fumo, nel non aver fornito ai propri clienti un’informazione corretta e tempestiva sugli effetti nocivi delle sigarette per la salute, ha violato l’art. 1175 cod. civ.. I rischi per la salute dovuti al consumo di sigarette, infatti, erano ben noti, su scala planetaria, sin dagli anni ’50 e 60’. In Italia, i primi provvedimenti di legge in materia risalgono al 1962 (legge n. 165, che ha vietato la propaganda pubblicitaria dei prodotti di fumo) e al 1975 (legge n. 428, che ha introdotto il divieto di fumare in determinati locali pubblici). Da ciò emerge che i danni alla salute provocati dal fumo, attivo e passivo e, soprattutto, il fenomeno della dipendenza da fumo, erano, così come precisato, ben noti a tutti, anche a produttori e distributori di sigarette. Ora il citato art. 1175 cod. civ., inserito dal legislatore nella parte generale dedicata alle obbligazioni in generale, stabilisce, come è noto, che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo correttezza. Il principio costituisce, quindi, applicazione nel campo delle obbligazioni del più generale postulato etico giuridico di buona fede nell’esercizio del propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri. Il principio di buona fede può venire in considerazione fondamentalmente in due direzioni: in funzione integrativa dell’obbligazione, includendovi anche il dovere di corretta informazione, nonché quale limite all’esercizio di una pretesa, la quale non deve mai tradursi nell’abuso di una posizione di diritto. La cd. buona fede oggettiva (cfr. fra le tante Cass. 30 agosto 1995, n. 9157) implica, fra l’altro, il dovere di informazione inteso come obbligo fondamentale di fornire all’altro contraente ogni informazione utile ad una scelta consapevole ai fini della conclusione del contratto. Il dovere di informazione, dunque, assume un rilievo autonomo e si connota quale specifico obbligo di protezione della sfera giuridica altrui; di fatto, si traduce nel dovere di rappresentare – nella loro reale dimensione – tutte quelle circostanze che possano risultare decisive o comunque rilevanti nella fase di avvicinamento al negozio giuridico.Il livello di diligenza (recte: buona fede) e la graduazione della responsabilità variano anche in dipendenza della qualità delle parti; il fatto che l’Ente Tabacchi Italiani (ora British American Tobaco B.A.T.) abbia operato in situazione di monopolio tende a elevare esponenzialmente gli standard di diligenza esigibile, quanto meno, sotto il profilo dei doveri informativi e di presentazione del prodotto nei confronti del consumatore, il quale deve necessariamente “affidarsi” ad un unico offerente.Non a caso l’esigenza di tutela del consumatore in una situazione di monopolio è sentita anche dal legislatore nella misura in cui pone limiti al monopolista persino sotto il profilo della sua libertà contrattuale.Sul piano della colpevolezza ex art. 2043 cod. civ., rileva, poi, un precedente della Corte di Appello di Firenze del 7 giugno 2000, (Foro it., 2001, I, p. 17), in materia di danni generati da trasfusione di emoderivati infetti (per la quale vicenda non ricorrevano i presupposti applicativi di cui alla legge 25 febbraio 1992 n. 210) che ha enunciato i seguenti principi applicabili anche al caso in esame: “…se il trattamento in questione è stato effettuato poco prima dell’entrata in vigore di questo articolato e scrupoloso intervento normativo, per cui non è dato addebitarne la inosservanza agli operatori della Usl n. 23 all’epoca della trasfusione, tuttavia era fin troppo evidente anche allora il rischio implicito in un tal trattamento da parte del personale medico operante: l’evento era cioè prevedibile, né occorreva una particolare esperienza o professionalità per rendersene conto…Proprio in questo sta la condotta colposa, colpa cosciente al limite del dolo eventuale, per aver praticato un’attività terapeutica sicuramente e notoriamente rischiosa senza quel preventivo accertamento necessario, ancorché non sempre sufficiente; se ancora non erano entrati in vigore i rigorosi protocolli sull’impiego del sangue era però certamente necessario avere un minimo di prudenza e perizia per sapere da chi e da dove proveniva ed a quali verifiche era stato sottoposto il sangue utilizzato…”.Alla luce di tale impianto argomentativo, ben può essere definita colposa, se non addirittura dolosa, la condotta dei produttori e distributori di sigarette che, dagli anni ’50 in poi, benché sapessero dei danni che il fumo provocava alla salute, non hanno mai sentito il bisogno di informare, in maniera corretta e diretta, i loro clienti, in particolare quelli abituali, sulla gravità di tali danni e soprattutto sul fatto che la dipendenza da fumo poteva essere causa di malattie mortali, arrivando addirittura a celare informazioni che, se correttamente diffuse, avrebbero se non eliminato quanto meno contenuto i tragici bilanci degli “effetti collaterali” del mercato delle sigarette.Basta al riguardo esaminare le statistiche attuali sulla drastica riduzione del numero di fumatori, soprattutto fra i giovani, dovuta alla mobilitazione che recentemente vi è stata a livello planetario contro il fumo e le multinazionali del tabacco.Un’ultima considerazione si impone per evidenziare come, nel caso preso in considerazione dai giudici di Roma, non è stato coinvolto (in quanto non citato in giudizio) il Ministero della Salute non esente, ad avviso di chi scrive, da colpe per i danni provocati dal fumo.La responsabilità del Ministero non scaturisce dal fatto di non aver impedito la produzione e la commercializzazione di sigarette, bensì di non aver tutelato la salute pubblica dai rischi del fumo e di non aver assolto, almeno sino agli inizi degli anni ’90, ai suoi fondamentali doveri di prevenzione, educazione e formazione dei cittadini in ordine agli effetti nocivi sulla salute causati dal fumo sia attivo che passivo.L’obbligo di intervenire in tal senso, gli era imposto in primis dall’art. 32 della Costituzione. A ciò si aggiunga che la legge 13 marzo 1958 n. 296, art. 1, stabilisce che il Ministero della Salute ha “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”; per il conseguimento della finalità predetta spettano al Ministero della Salute, tra l’altro, le seguenti attribuzioni (art. 2): “provvedere ai servizi sanitari attribuiti dalle leggi alle Amministrazioni civili dello Stato…qualora la legge non disponga diversamente, i provvedimenti in materia di sanità rientrano nella competenza del Ministero della sanità (oggi della Salute)”.La legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale, fissa tra i principi fondamentali, “la tutela della salute fisica e psichica nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana” (art. 1).L’art. 2 (obiettivi) prevede, altresì, che “il conseguimento delle finalità di cui al precedente articolo è assicurato mediante 1) la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e della comunità; 2) la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro…5) la promozione e la salvaguardia della salubrità e dell’igiene dell’ambiente naturale di vita”.Benché la commercializzazione delle sigarette costituisca attività lecita, il Ministero della Salute, in base al citato quadro normativo, è destinatario non già di un mero onere d’informazione della collettività sui danni causati dal fumo, quanto piuttosto di un complesso e articolato sistema di doveri giuridici posti a tutela della salute pubblica, tra i quali “(a) il dovere giuridico di formazione di una coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione del (singolo) cittadino e della comunità, (b) il dovere di prevenzione delle malattie in ogni ambito di vita, (c) il dovere di promozione e salvaguardia della salubrità e dell’igiene dell’ambiente naturale di vita”.Nonostante tali precise prescrizioni consta, invece, che l’unico significativo provvedimento sul commercio delle sigarette adottato dal Ministero della Salute dalla data della sua costituzione alla metà degli anni ’90, sia il d.m. 31 luglio 1990, emanato in attuazione dell’art. 46, l. 29 dicembre 1990 m. 428, contenente “specifiche disposizioni tecniche per il condizionamento e l’etichettatura di prodotti del tabacco conformemente alle prescrizioni della direttiva del consiglio delle comunità europee 89/622/CEE” – (GU n.198 del 25-08-1990). Il Ministero della Salute ha, dunque, violato il suo fondamentale dovere giuridico di “provvedere alla tutela della salute pubblica” dai rischi del fumo attivo, nonché i succitati doveri di prevenzione, formazione ed educazione del singolo cittadino.Si pensi, inoltre – e la circostanza lascia veramente perplessi – che l’articolo 5, comma 1, lettera n), del d.m. 603 del 1996, addirittura include i processi di commercializzazione del tabacco tra quelli sottratti tout court al diritto di accesso di cui alla legge 241/90 (è appena il caso di notare che il tabacco è l’unica categoria merceologica a godere di tale particolare regime). Il Ministero, per queste ragioni, dovrebbe essere chiamato a rispondere dei danni provocati dal fumo di sigarette.*avvocati